mercoledì 2 giugno 2010

Chissà come la avrebbe presa


Oggi è stata pubblicata la trascrizione integrale della scatola nera del Tupolev precipitato lo scorso 10 aprile presso Smolensk, in Russia, con a bordo il presidente della Repubblica di Polonia, Lech Kaczyński, assieme ad altri 94 membri dell'establishment polacco.

Lech Kaczyński, naturalmente, era assai pio & devoto. Durante la sua presidenza, la Polonia è stata trasformata sia in una trascurabile appendice della chiesa cattolica, sia in una dépendance dell'amministrazione Bush. Da sindaco di Varsavia, prima dell'elezione alla presidenza della repubblica, impedì per due volte che si svolgesse il Gay Pride nella sua città, arrivando a dire che "gli omosessuali non hanno alcun diritto di manifestare". Si lamentò anche con la polizia, accusandola di non aver represso a dovere la manifestazione che comunque si stava svolgendo senza autorizzazione. Nel 2007, la Polonia di cui Lech Kaczyński era già presidente, fu condannata dalla Corte Europea per i Diritti dell'Uomo per violazione della libertà di associazione.

Va da sé che, durante la sua presidenza, dichiarò più volte di guidare la Polonia rifacendosi agli insegnamenti di papa Giovanni Paolo II. Naturalmente ferreo anticomunista. Naturalmente ultraconservatore, ultracattolico, ultraognicosa.

Chissà come la avrebbe presa, se avesse saputo che l'aeroplano che, forse per sua precisa colpa, stava precipitando portandolo a morte assieme agli altri passeggeri, stava terminando la sua corsa fra le ripetute bestemmie del pilota.

La trascrizione della scatola nera è in russo e in polacco. I giornali parlano di "imprecazioni", ma si dà il caso che il qui presente conosca un pochino quelle due lingue. Nella versione russa le "imprecazioni" sono censurate, ma in quella polacca no. Quando si accorge che sta precipitando, il pilota di quell'aereo carico di devotissimi e anticomunistissimi politicanti, capi di stato maggiore, viceministri e candidati conservatori, tira un'autentica e umanissima salva di porche madonne.

Questo infatti, se si ha la compiacenza di scorrere il documento .pdf linkato, è il significato di kurwa ma
ć in lingua polacca, ove mać ("madre") sottintende comunemente la "madre di Dio". L'ultima parola che si è udita, almeno ufficialmente, a bordo di quell'aereo, è stata quindi una smadonnata cosmica; a meno che il pilota non stesse usando l'espressione nel significato letterale ("madre puttana"). E poiché un aeroplano normalmente non ha una madre, è facile ipotizzare a chi si riferisse. Ma chissà che anche tra i passeggeri che stavano schiantandosi al suolo non si udissero in realtà le stesse colorite espressioni, e anche di peggio. Altro che preghierine!


lunedì 31 maggio 2010

Basta


Guai, naturalmente, e guai seri, a chi osa dire che Israele è uno stato nazista.

Da una parte arriva la grancassa mondiale di quell'anacronistico e criminale nazionalismo di stampo ottocentesco che va sotto il nome di Sionismo. Una grancassa che non ammette voci dissenzienti, neanche le più flebili. Altrimenti ti becchi automaticamente di antisemita. Altrimenti ti accusano di sputare sull'Olocausto. Altrimenti tutto quanto: semplicemente è vietato.

Normalmente, in un'orchestra, non è la grancassa che comanda. In questo caso invece sì. Comanda la grancassa. Gli atti di quello stato criminale sono giustificati e giustificabili per decreto. Se lo può permettere. Si sente inattaccabile. Ha la bomba atomica. Ha tutto quello che vuole. E sa anche benissimo che tutta la solidarietà internazionale che passa ad incassare ad ogni sua malefatta è del tutto falsa. Non corrisponde più minimamente ai sentimenti ed alle opinioni che di Israele ha la comunità internazionale, noi i governi, non i potenti, non le lobbies con tutta la loro forza economica e mediatica. Lo sanno benissimo di essere detestati dalla maggior parte dei sei miliardi di esseri umani che vivono su questo pianeta.

Il loro Olocausto se lo sono bruciato da soli. Hanno creduto di poter vivere eternamente su di esso. Hanno condizionato tutta la vita del mondo a partire dal 1948. Hanno avuto le organizzazioni internazionali, ONU in primis, sempre dalla loro. Adesso è il momento di avere il coraggio di dire Basta. Di fermarli in modo deciso.

Si comincia a dire Basta dicendo che massacrare una spedizione umanitaria in acque internazionali non è ammissibile. Si dice Basta cominciando a ignorare, ad ogni livello, la consueta grancassa propagandistica fatta di bugie e di ipocrisia assassina. Si comincia a dire Basta prendendo a uova marce sul muso tutti coloro che, immancabilmente, si metteranno come bravi lacchè al servizio dello stato Sionista. Si dice Basta imponendo loro di smetterla, con le buone o con le cattive, con atti di pirateria come quello che ha colpito la Freedom Flotilla. Si dice Basta facendo loro capire che la misura è davvero colma, che hanno passato ogni limite. Che il mondo ne ha abbastanza di loro, dei loro genocidi, della loro "democrazia", dei loro servi.

Anche perché, così facendo, e agendo da boriosi e ricchi stupidi, si sono fregati il loro Olocausto. Con quale coraggio li si può sentire cianciare di nazismo, quando si comportano da nazisti in piena regola. Quando, ancor più stupidamente, attaccano uccidendo una spedizione organizzata da uno dei pochi paesi di religione islamica, membro della Nato e in procinto di entrare nella UE, con cui si intrattenevano normali relazioni a livello ufficiale. In un recente passato talmente buone, da far parlare la rivista "Limes" di asse Israele-Turchia. Provate a immaginare oggi l'opinione pubblica turca quali "buoni rapporti" intenda coltivare con Israele; e la Turchia non è uno staterello qualsiasi. Non è nemmeno la Palestina da schiacciare, non è Gaza da assediare, bloccare, annientare. Non è il Libano da tenere costantemente sotto tiro. La Turchia è uno stato strategico. Vediamo un po' se minaccerà di uscire dalla NATO, cosa diranno e faranno gli americani del "Premio Nobel per la Pace" Obama. Vediamo un po' se la Turchia l'asse lo farà con qualchedun altro. Vediamo un po' se ora Netanyahu e grancassisti internazionali ci diranno che la Turchia è come l'Iran.

Basta con le menzogne da dare in pasto ai media, come quella delle "armi trovate a bordo" e dei "soldati colpiti". Non vogliono capire che nessuno più crede a queste cose. Che sono buone soltanto per fare cianciare dei governi asserviti, compreso il nostro, peraltro ben coscienti che si tratta di ignobili idiozie.

Basta con gli "antisemitismi" distribuiti a piene mani, e a piene "condanne", nei confronti di chiunque si opponga. Basta con le Nirenstein, con i Pacifici, con i Pannella, con tutta questa merda che non soltanto sostiene uno stato criminale, ma vorrebbe imporre financo per legge che ogni voce di protesta tacesse. I criminali sono loro.

Basta con i "distinguo", con i cosiddetti "pacifisti israeliani", con gli "intellettuali" tipo David Grossman, con le cantantucole tipo Noa tutte "pace e fratellanza" finché non c'è da massacrare bambini e gente inerme. Basta con tutta questa storia, e va detto finalmente in modo chiaro, e senza timore.

Israele non deve più esistere.

Non ci devono essere, in Palestina, "due stati". Ce ne deve essere uno solo che si chiama Palestina, che è il suo vero nome. Solo una Palestina dove vivano tutti quanti in pace, senza prevaricazione, senza razzismo, ha diritto all'esistenza.

La Freedom Flotilla stava portando aiuti ad una popolazione stremata, in via di disfacimento, di annientamento, di eliminazione. Gaza è questo.

Il blocco israeliano non ha niente di diverso da ciò che i nazisti facevano a Varsavia e a Praga. Gaza è un ghetto di milioni di persone, in attesa di liquidazione.

E, allora, l'equazione con i nazisti è del tutto esatta.
Non ci sono più da fare distinzioni.
Non c'è più da avere alcuna remora.

Nella Storia, sono soltanto i fatti e gli eventi che permettono di formulare un giudizio. Attualmente, lo stato Sionista autodenominatosi "Israele" tiene in ostaggio non soltanto la Palestina, ma il mondo intero. Tenendo al contempo in ostaggio anche se stesso. E portandoci tutti quanti all'inevitabile catastrofe.



venerdì 28 maggio 2010

La manona


Ecco che è passato un altro ventisette di maggio. Coi suoi soliti preavvisi. Un manifestino attaccato al CPA. Un post su un altro blog che lo ricordava, assieme alla poesia di una bambina. Mi dicevo di non parlarne più, mi dicevo.

Anche perché, come sempre, mi sarei ritrovato a dire cose già dette e stradette. A ricordarmi, come faccio da diciassette anni a questa parte, che quella bambina della poesia l'ho vista coi miei occhi tirare fuori dalle macerie, a un metro e mezzo di distanza. A ridire di come, da allora, non ho più sopportato nemmeno la vista di un ovetto Kinder. A raccontare di nuovo di un piede in pigiama a righe, e di un fagottino che mi passava davanti in braccio a un pompiere. Tutto di quella notte maledetta, fin dall'esplosione, fino nei più minuti particolari. L'insegna dissolta dell'Antico Fattore, che aveva lasciato solo la traccia annerita della scritta "Trattoria". La Mercedes scura targata FI H9 e qualcosa sepolta nel suo garage. I vetri. La mattina.

E avrei dovuto, un'altra volta, tirare in ballo quello che, proprio in quei momenti, stava succedendo altrove. Non avevo però la minima intenzione di farlo. Piano piano quella cosa si è come dilavata nel tempo, e ne sono rimaste quantità omeopatiche. Rimangono solo quelle immagini. Dovrei, quindi, tornare a dire quella cosa dell'inferno, quella che non mi fa paura perché l'ho già visto, a Firenze, nella mia città, la notte del 27 maggio 1993. Con addosso una divisa bianca sporca, un ridicolo casco rosso in testa, le spalle curve, le mani coi guanti di lattice.

Raccontare di nuovo tutto questo; ma l'ho già fatto tante, troppe volte. Anche se non è mai stato per dire "io c'ero". Non avrei voluto affatto esserci. Potessi, cancellerei quel giorno. Potessi, cancellerei ogni cosa. Avrei voluto continuare a dormire nella camera del magazziniere pazzo. Quel che stava accadendo altrove, sarebbe accaduto lo stesso; non c'era nessun bisogno che si accoppiasse a una strage. Vorrei che quelle persone, quella famiglia e quello studente, fossero ancora vive e avessero condotto una vita normale. Nadia sarebbe, ora, una giovane donna. La sua sorellina sarebbe una ragazza. Lo studente si sarebbe laureato, e ora sarebbe tutto quel che il destino avesse voluto; un professionista affermato, un precario, un soddisfatto, un deluso, un famoso, un nessuno, un suicida. Qualsiasi cosa. Il destino, però, è stato interrotto. Per quanto mi sia posto domande sul perché di quella interruzione, non ho mai trovato risposte plausibili.

Poi, un mese dopo, ci fu la mia, di esplosione. Ho raccontato troppe volte anche quella. Volevo disfarmene in qualche modo, e la sua fine è stata quella di essere stata, almeno da alcuni, dileggiata. Ma va bene così, non ci sono problemi. Tutto, prima o poi, salta in aria. In quei giorni andò persino la Fiorentina in serie B; avrei dovuto, chissà, parlare anche di quello. E di una bicicletta verde, di uno studio pieno di scartoffie che mi disgustavano, di notti strane, di persone andate, d'incroci di vento. Eppure ogni tanto, da quei giorni mi proviene qualche molecola; passa e va.

Firenze, poi. È stata più brava di me a dimenticarla, quella notte. Ancora qualche articolo non letto sui giornali, ancora qualche testimonianza, e poi tutto sfumerà via. La torre l'hanno rifatta più bella e più antica di prima. Hanno rifatto alla perfezione la casa di fronte, e chissà chi abiterà nella stanza dov'è morto lo studente. Chissà cosa farà. Hanno messo una lapide con la poesia di Nadia, e un'informazione scritta in non so quante lingue. L'altra mattina, presto, passando per caso in macchina dal lungarno, mi è venuto di scendere un attimo; c'era un turista che stava traducendo dall'inglese, a dei suoi compagni, l'iscrizione in una qualche lingua slava, ceco o slovacco credo. Hanno piantato un ulivo dove ci fu il cratere del Fiorino, ché per far esplodere la loro bomba scelsero proprio un furgone che portava il nome dell'antica moneta di questa città. Tutto è ridiventato turismo e curiosità. Gli Uffizi sono a un passo. Nessuno, su quella notte, ha scritto nemmeno una canzone; ce ne sono a decine su Piazza Fontana, c'è Ringhera di Della Mea su piazza della Loggia, c'è Agosto di Lolli per l'Italicus. Per via dei Georgofili neanche una. Non è stata una strage abbastanza di stato, forse. È stata la mafia. Naturalmente, mafia e stato sono due cose molto differenti. Ci sono stati solo i Delsangre che, sulla copertina del loro secondo album, hanno messo un'immagine di via dei Georgofili. Ma, tanto, chi cazzo li conosce i Delsangre. Fanno canzoni sugli indiani in Maremma, sui partigiani romagnoli, sui banditi siciliani e uno di loro fa il tifo per la Lazio.

Sollevò anche me, quella bomba. Mi prese. Mi spinse via dalla mia città. Ho fatto fatica, un'estrema fatica, a ricuperarla; la stessa fatica di ricuperare me stesso. È una fatica che faccio ancora, e che farò sempre. Dovunque mi trovassi, mi seguivano ombre. Quella notte è stata un bivio, uno spartiacque; c'è il prima e c'è il dopo. Ecco, già. Ne sto ancora parlando. È l'alba, ché non son cose, queste, che si lasciano scrivere col sole che batte. Non mi è riuscito dormire. Sono diciassette anni che non mi riesce più dormire attorno a questa data. Ora, da Firenze, non intendo più muovermi; cursum perficio. Sono diventato uno specialista delle sue periferie, quelle in cui nessuna mafia o nessuno stato penserà mai di piazzare un'autobomba come simbolo. Vado in giro a fotografare le vecchie autovetture. C'è stato di tutto e il contrario di tutto; ci sono stati amici diventati nemici, amori diventati odi. Non lo sapevo ancora, quella notte, mentre vedevo portare via quei morti, mentre cercavo di soccorrere i feriti come meglio potevo. Mi stava prendendo la manona di quella bomba, e sbattendomi altrove per mezza vita, e facendomi rimbalzare per tutti gli altrove di questo mondo.

Nella foto: Dal settimanale "Epoca" dei primi di giugno del 1993. Nel riquadro in basso a sinistra si vede uno con le spalle curve, una divisa bianca sporca e un ridicolo casco rosso in testa.


giovedì 27 maggio 2010

Il ritorno delle mostresse


I bambini non si toccano. Non ci sarebbe da discutere oltre su questa affermazione, e infatti non intendo minimamente farlo. Specialmente in questo frangente, in cui la pubblica opinione ha il suo periodico momento di indignazione per gli "arresti domiciliari" (che, comunque, sono sempre galera) concessi alle Mostresse, vale a dire le due maestre del tristemente noto asilo nido "Cip e Ciop" di Pistoia. Beh, mi piacerebbe, certo, che codesta indignazione non fosse, come dire, a macchia di leopardo; mi piacerebbe che fosse riservata anche alle decine di suicidi in galera, ai pestaggi sistematici dei detenuti, a diecimila altre cose che avvengono nei cosiddetti "luoghi di detenzione".

Un'indignazione, quella per gli arresti domiciliari delle Mostresse, che ha persino eccitato la furia del popolo. Qualcuno, un paio di notti fa, ha gettato una bottiglia molotov contro il residence in cui le due donne sono coatte. E sfido chiunque a trovare un moto di disapprovazione per la cosa: quel gesto, anzi, è percepito come di giustizia. Hanno toccato dei bambini e, cosa che più conta, sono donne. Meritano, quindi, il rogo. E che importa se, magari, tale rogo avrebbe potuto essere esteso a tutto il resto del residence.

No, toccare i bambini non si può. E chi li tocca deve bruciare; a condizione che sia una donna. La pubblica opinione italiana è sensibile: delle donne, delle educatrici, delle madri non possono essere mostresse. Alla santa donna angelicata non è permesso. Mi ricordo di quando, anni e anni fa, l'indignazione era al massimo grado nelle scoprire che nelle Brigate Rosse o in Prima Linea c'erano delle donne: sia mai! Ah! Ma ci sono anche delle donne! Quelle le ammazzerei anche più dei maschi! No, non si toccano i bambini.

Il problema è che i bambini e le bambine vengono toccati e toccate ogni giorno, nei modi più schifosi e atroci, senza che per questo io veda in giro tanta indignazione, o perlomeno senza che la veda così palpabile come nei confronti delle due mostresse pistoiesi. Non l'ho vista, tale indignazione, per don Lelio Cantini, parroco fiorentino della Regina della Pace (da allora detta Regina della Pace dei Sensi), dopo che sono venuti alla luce anni e anni di violenze sessuali sulle bambine e sui bambini della sua parrocchia. Anni interi, dico. Nemmeno mezza giornata di galera per il santo parroco, noto per essere stato quello che, nella diocesi fiorentina, aveva convinto alla vocazione sacerdotale il maggior numero di giovinetti. Don Cantini sta finendo i suoi giorni con la gravissima pena della riduzione allo stato laicale: vuoi mettere quanto più dolore in tale pena di un ergastolo? In proporzione, se contro il residence delle mostresse la furia del popolo ha lanciato una molotov, contro la parrocchia della Regina della Pace -visti i fatti avvenuti- avrebbe dovuto essere lanciato un bombardamento aereo. Lo avete visto? Qualcuno ha visto lanciare un solo cerino acceso? E in Irlanda cosa sarebbe dovuto succedere, uno schieramento di carrarmati Leopard a radere al suolo le parrocchiette dei preti pedofili?

E i bambini che, ogni giorno, in tutto il mondo, vengono sfruttati sul lavoro, massacrati, brutalizzati, ridotti alla fame? C'è qualcuno che si indigna così tanto? E i giornali e giornaletti per i quali una ragazzina di 15 anni che muore bruciata nel rogo di uno scantinato dove lavora per dodici ore al giorno al nero diventa una donna? "Morte due donne di 43 e 15 anni". È successo in Italia, e anche piuttosto di recente, sapete. C'è qualcuno che va col lanciafiamme alla casa di quel datore di lavoro, di quel negriero, di quello sfruttatore di manodopera femminile e minorile? No? Ma non mi dite!

mercoledì 26 maggio 2010

Pulizie generali


La decisione l'ho presa al mattino, non prestissimo. Oggi mi è stato concesso un giorno libero dal lavoro, cosa di cui non godevo da un bel pezzo.

Non prestissimo, ma neppure tardissimo; alle nove e un quarto, dei solerti lavoratori hanno iniziato a potare gli alberi e a tagliare l'erba in quella specie di giardino pensile che ho sopra casa, ed è cominciato un concertino di motoseghe che avrebbe svegliato chiunque. Pazienza; avevo dormito a sufficienza, e mi si prospettava una bella giornata tutta per me, oltretutto climaticamente stupenda.

Però ci devo avere qualcosa di non troppo a posto, dentro. Crogiolandomi nel letto ancora per un po', con un'avvincente lettura (la Grammatica Cinese di Luciano Dalsecco, edizioni Pàtron), mi sono accorto che la mia casa -chiamiamola così per puro comodo- era in condizioni pietose. Polvere dappertutto, il bagno sporco, la doccia incrostata (anche per la mia pessima abitudine di pisciarci dentro), il lavandino che stava per vincere l'Oscar del calcare. E poi, nel resto del "cubo" (o parallelepipedo ipogeo, come lo chiamo spesso), il pavimento ridotto a un concio, ragnatele dappertutto, strati di polvere sugli scaffali dei libri. E pensare che potevo starmene a riposare. E pensare che ora, rimpannucciato un po' di quattrini, avrei potuto passare la giornata a esplorare l'Isolotto, ché l'esplorazione capillare del proprio quartiere non finisce mai. Nulla di tutto questo. Mi sono alzato deciso a farla finita, ma non nel tragico senso che di solito ha quest'espressione. La tragedia, casomai, doveva cominciare per i ragni.

Mi sono all'improvviso trasformato in una macchina da guerra. Vestito da lavoro, con la divisa estiva che mi ha provocato simpaticissimi paragoni con un evidenziatore giallo (qualcuno ha preso a chiamarmi, quando mi vede vestito così, Stabilo Boss). Sono uscito, ho preso la macchina e ne sono tornato con due borsate di prodotti per la casa: i panni swiffer, una granata nuova di pacca, un ettolitro di Viakal, persino l'Acqua di San Giovanni per i pavimenti. Quando posso, compro prodotti toscani. L'Acqua di San Giovanni la fanno a Massa. Come detersivo liquido per i capi delicati, dato che sono notoriamente delicatissimo, uso l'impareggiabile Gran Bucato di Toscana prodotto dalla Solvz di Livorno. Un detersivo con un nome del genere lo comprerei anche se non avessi la lavatrice. E che ci volete fare: son fatto così. Però provate a darmi del nazionalista o del leghista per questo, e il Gran Bucato di Toscana ve lo fo bere.

Ho cominciato dal bagno. I ripiani di vetro del mobiletto "a vista" dove tengo i prodotti per la persona erano ricoperti da due strati di polvere, specialmente quello più in alto dove tengo la roba per la barba. Il problema è che la barba non me la faccio più dal 31 ottobre 2008. Poi sono passato alla doccia, e c'è voluto stomaco, così come per il water. I guanti di gomma non li posso sopportare (e oltretutto mi stanno tutti stretti, visto il paio di manine che mi ritrovo), ma d'altronde le mani nella merda sono abbastanza abituato a infilarle. L'ho tirata fuori dal culo di mia nonna che moriva, e moriva malissimo. Una volta, scendendo da Fiesole, mi è stato vomitato sul viso, e ho dovuto tenermelo fino all'arrivo, con tanto di pezzo di aglio nei capelli. Ma, comunque, quel che ho tirato fuori da sotto il tappo della doccia regge il confronto.

Nel frattempo andava a tutto fuoco la lavatrice. Oggi devo aver lavato veramente tutto il lavabile, compresi i cenci di terra. Il Viakal è stato protagonista assoluto; una volta versato nel water (dopo un'abbondante passata di Netty Water, verdognolo al profumo di montagna -ma non ho desiderato sapere se il gusto ci guadagna), e riportato il vaso a condizioni igienicamente accettabili, mi è scappato naturalmente da cacare. Disperazione. Una gentile e comprensiva vicina mi ha ospitato una tantum per questa impròvvida bisogna.

Dopo un'ora e mezzo di sudata mi ci sarebbe voluta, e urgentemente, una doccia. Guai! Ella risplendeva del tutto nettata dal lordume, e non se ne parlava nemmeno. Andare a chiedere alla vicina anche una doccia sarebbe stato troppo, anche perché mi attendeva tutto il resto della casa. Ci avete mai provato a pulire da soli un appartamento anche piccolo, anche un monolocale? Dico pulire, non fare finta. Dico arroversciarlo da cima a fondo. No? Ecco, allora pensate un po' alle casalinghe, alle massaie che lo hanno fatto tutti i giorni per una vita. Quelle che poi, magari, andavano a iscriversi al glorioso PCI, faro de' lavoratori, e sulla tesserina si ritrovavano scritto, alla voce "professione": atta a casa.

Beh, ora l'appartamento è tutto un effluvio di fiori, quelli dell'Acqua di San Giovanni. Le ragnatele sono state sistemate a granatate, assieme ai relativi ragni. Non sono ragni svizzeri, questi. Quando stavo in Svizzera, pure in un monolocale, c'era tutta una famigliuola di aracnidi che scorrazzava per la casa (detta, appunto, la famiglia Ragna): ma non producevano ragnatele. Erano ragni rispettosi e grati per l'ospitalità, ragni assai civili che non mi sono mai sognato di stiacciàlli. Questi qui, invece, sono ragnacci isolottini che m'hanno impestato ogni cosa; e sono finiti sotto i miei piedini accenerentolati. Tanto, comunque, vincono loro. È partita, a un certo punto, anche la scopa elettrica. Alla fine, ridotto a un ecce Venturi, mi sono messo a contemplare l'opera mia. Mancava, è vero, l'usuale odore di casa. L'odore di casa mia è un misto di fumo, tabacco, sigaro (ora che mi hanno pure regalato una scatola di autentici Montecristo cubani...), e via discorrendo. Però, ora che sto scrivendo alle due di notte, pian piano si va ristabilendo l'odore naturale.

Contemplavo pervaso dalla pace, quando appena fuori si è scatenato l'inferno. Una masnada di vicini di casa che si dirigevano alla riunione di condominio. Hanno pensato bene di ricavare la stanza per le riunioni dalla vecchia centrale termica, che è proprio l'uscio accanto a me. Me n'ero scordato. Non ci sono andato. Odio le riunioni condominiali. Oltre a odiarle, non ci capisco niente nelle tabelle millesimali e comunque sono un condòmino per modo di dire. Nel cortile riconosco soltanto i concortilani (anzi, le concortilane visto che sono tutte donne). Ho fatto bene, visto che dopo un quarto d'ora i condòmini DOC hanno cominciato a scannarsi verbalmente, con il ragionevole timore che cominciassero a farlo anche fisicamente.

Sogno però di presentarmi prima o poi a una di quelle riunioni, e di fare richieste tipo l'urgente installazione di un obelisco a Ho Chi Minh o di un monumento marmoreo a Virginia Woolf nel parcheggio, oppure la trasformazione del locale caldaia in fumeria d'oppio. Mi sono rimesso a contemplare, e domani si ricomincia. Due giri di chiave, e si sa quando si esce ma non quando si rientra.


lunedì 24 maggio 2010

La fiera dei morti


I poeti cantano
malinconicamente
questa fiera;
tutti alla stessa maniera,
questa giornata grigia o nera.
(Ma si può benissimo cantare
anche in un’altra maniera).
Dice che sempre piove
un’acquerugiola trita,
che tutto fiorisce nel fango
in una primavera di pillacchere.
Le solite antiche fole
della solita antica gente!
Oggi invece non piove,
splende un magnifico sole;
il tempo ci porta le sue cose nuove.
Avete dei pensieri neri?
Veniteli a svagare
dentro i cimiteri.

Potete entrare, avanti,
fatevi tutti avanti,
sono spalancate le porte,
anche per chi non c’à persone morte!
Tutti possono andare,
girare a proprio piacimento;
anche un poeta ci si può benissimo intruffolare
per suo divertimento.
Le solite baracche dei saltimbanchi
fuori dei cancelli;
quella classe sociale che à per mira
di far conoscere agli uomini,
meglio assai degli astronomi,
che il mondo gira.
Scimmie vestite da ballerina,
oppure alla militare;
una se ne va di braccetto
con un sergentino,
un’altra cerca di trascinare
un caporale dietro in una stanza;
una vestita da serva
è tutta affaccendata per spazzare,
un capitano dà uno schiaffo
a un’ordinanza pietrificata.
Donne che gridano a squarciagola
di alcuni miracoli scientifici,
l’ultima portata della scienza
alla portata di qualunque sapienza,
strane fisiche psicologiche deformità!
E i buoni festaioli
se ne stanno davanti in perplessità.
Trombe tamburi piatti,
tutti gridan come matti:
è la fiera dei morti!
I dolci fatti lì, immancabili dolci,
che tutti stanno ad aspettare,
le calde arroste
che non riparano a castrare.

Nelle osterie si suonano chitarre,
si cantano canzonette paesane,
gli ultimi stornelli popolari,
o romanze napolitane.

Dai beccai pendono sanguinanti,
fenomenali, i primi ottimi porci,
quelli d’ognissanti,
che àn già sentito il primo freddo dei morti.
E sui banchi, ammassata,
oppure tortuosamente attaccata,
chilometri di salsiccia,
che sembra l’ammasso degli intestini malati
di tutti i morti.
I salumai ànno appesi
i salamini nuovi, cotechini,
zamponi, mortadelle;
e viene fino sulla strada
un odore stuzzicante
di lepre e di pappardelle.
Tutti si riversano a mangiare
a crepapelle.

I carabinieri a cavallo
coi loro pennacchioni rossi,
si fanno posto trionfanti
nella calca stordita dei festanti.

Ai cimiteri ci si può andare
coi fiori, e senza i fiori,
ma anche il più insopportabile,
lontanissimo parente,
si può aspettare quel giorno un fiore
dalla sua antica gente.

I morti non sono uguali,
come credono tutti,
e sopratutto, non sono muti,
quelli almeno dei cimiteri
sono indecentemente ciarlieri.
Sulla pelle della loro faccia marmifica,
meglio assai che sui vivi,
si qualifica la fisionomia
caratteristica.
«Qui riposa
«l’uomo dalle rare virtù:
«Telemaco Pessuto
«d’anni cinquantatre,
«padre e marito esemplare.»
Se t’avessimo incontrato vivo,
che l’avrebbe saputo?
Tutti gironzan leggendo
più o meno speditamente,
alcuni sillabando.
Ma non sapete che quelle parole
che voi leggete con indifferenza,
sono la faccia dei morti?
Tutte quelle espressioni di dolcezze,
sono l’espressione delle loro fattezze?

Oh! Curiosa combinazione!
«Celestina Verità
«d’anni novantasette
e accanto:
«Peppino
«d’anni tre
«dei coniugi Del Re.»
Strana combinazione!
Quale fu, di voi due, la vostra mèta?
Dovevate ognuno campare cent’anni,
oppure, Peppino Del Re,
Celestina Verità,
faceste involontariamente
della vostra vita
una così parziale società?
Fu Peppino che ti giunse, o Celestina,
e ti trasse inaspettatamente
tre anni dalla vita?
O tu, Peppino, nascendo,
trovasti i tuoi anni
quasi tutti consumati
dalla Celestina?
Uno di voi fu il parassita
dell’altro.

Che poco posto occupano i morti,
meno assai del naturale.
E qualcuno di voi fu padrone
da solo d’un podere,
che sempre gli sembrò tanto piccino!
Quelle alte pareti
con tutte quelle teste fitte fitte,
nell’immobilità,
sembrano quelle di un loggione
per una straordinaria rappresentazione.
E tutti gironzano indifferenti,
sgusciando calde arroste,
succiando confetti, o i duri di menta,
leggiucchiando senza fede
le ciarle di quei poveretti.
Gli uomini accorti,
che passeggiano sempre fra i vivi,
non vedono il momento
di passeggiare fra i morti.
I vivi àn delle facce,
che per quanto espressive, sono mute,
e una faccia per bene
la possono avere anche i mascalzoni,
invece le facce dei morti
sono piene d’ottime informazioni.
Se incontrate per via un giovine pensoso,
come potete sapere se sia virtuoso?

In cima al camposanto,
sopra un grande palcone
improvvisato per l’occasione,
si mettono i teschî all’incanto.
Lo circondano pigiate
centinaia di persone,
fissano l’atletico allottatore
che grida fiocamente a squarciagola.
Intorno è pieno di carabinieri,
- Quattro!
- Cinque!
- Otto!
- Dieci!
- Quindici soldi!
I primi vanno a ruba!
- Si delibera signori!
I più frettolosi pagano i teschî
anche più d’una lira.
Molti aspettano che la gara cessi
e il prezzo ribassi.
- Quattro!
- Sei!
- Otto!
Una giovine sposa
si stringe al braccio del suo sposo
tutta piagnucolosa:
- Comprami quel teschio.
- Stai zitta! – Le dice il giovinotto
- Comprami quel teschio,
- Stai zitta grulla,
verso sera gli daran via per nulla.
- Dieci!
- Undici!
- Dodici!
- Si delibera signori!
- Comprami quel teschio.
- Stai zitta t’ò detto,
non vedi ch’è un teschiaccio vecchio?
- Comprami quel teschio.
- Se non stai zitta ti porto via;
- Potrebbe essere il teschio della mamma mia.
- Ma che mamma mia!
- Cosa c’è stato laggiù, lontano?
- Corrono i carabinieri!
- Dove corre tutta quella gente?
- Ànno arrestato quel nano
che vendeva i teschi di seconda mano.
E per le vie polverose,
per le serpeggianti vie campagnole,
in un bel tramonto pieno di vapori
di fiamme e di viole,
la gente se ne torna
dai camposanti allegramente.
E ogni buon diavolaccio
se ne viene col suo teschio sotto il braccio.

Aldo Giurlani, detto Aldo Palazzeschi.



domenica 23 maggio 2010

"Misericordie" e CIE


Le "Misericordie" le conosco oltremodo bene. Non soltanto perché in una di esse, attualmente, ci lavoro; ma prima di lavorarci, ne sono stato volontario. Fin dal primo giorno della sua esistenza (il 7 novembre 1986, per la cronaca). Per sei anni, dal 1988 al 1994, ho fatto l'interprete e il traduttore per la "Confederazione Nazionale delle Misericordie d'Italia" (che ha sede a Firenze). E chi mi conosce fa un'estrema fatica ad immaginarmi dentro un'associazione del genere, sia come volontario che come dipendente. Di solito rispondo cercando prima di far presente che non esiste "la" Misercordia, ma tutta una serie di Misericordie, dalle più grandi alle più piccole; e che ognuna ha una storia a sé, e delle caratteristiche proprie. Quella di cui faccio parte oramai da quasi 25 anni è una piccola Misericordia tutta a sé stante. Non assimilabile in alcun modo alle altre. Nata da una scissione di un'altra grossa (anzi enorme) Misericordia, e che per anni ha da questa dovuto subire una vera e propria guerra tesa a ciò cui tende ogni guerra: l'eliminazione. All'interno di questa piccola Misericordia dove sono vigono atteggiamenti che non esito neanche un momento a definire libertari. È senz'altro tutto un coacervo di contraddizioni (e forse è anche per questo che mi ci sono sempre trovato bene dentro), e le conosco e percepisco tutte quante. Fin nelle cose più minute, nelle vicende quotidiane, nelle storie di tutte le persone, uomini e donne, che l'hanno frequentata e vi hanno prestato servizio. Tutt'altro che idilli, o rose e fiori. Ci chiamano con soprannomi indicativi: i "Campesinos", i "Baraccati", i "Terremotati" (per un certo periodo non avevamo neppure una sede in muratura e abbiamo dovuto arrangiarci in dei container, in delle baracche di legno, addirittura in una roulotte i primissimi tempi). Sempre orgogliosamente poveri, e differenti. Anche adesso, capita che nel conto corrente dell'Associazione ci siano poche migliaia di euro; ma è capitato non raramente di andare in rosso. Non gestiamo niente. Nessun cimitero (una vera e propria miniera di soldi per molte associazioni del genere), nessun ambulatorio, nessun centro specialistico, niente. E nessun CIE, dato che sarà bene che non ci vengano neppure a interpellare per una cosa del genere. Al nostro interno, unica Misericordia in tutta l'area fiorentina, non chiediamo neanche il "certificato di battesimo" (cosa richiesta da tutte le altre Misericordie) e neppure il certificato penale. Abbiamo avuto, e abbiamo, volontari arabi, somali, jugoslavi, albanesi, ebrei. Tra i medici, quando ancora non esisteva il 118, prestavano servizio assieme un somalo musulmano osservante e un palestinese ateo che si sbafava sleppe di pane e prosciutto e bicchierate di vino rosso, dichiarando (spesso in faccia al collega) che non sarebbe entrato in una moschea neanche per cacare. Indi per cui, quando alcuni mesi fa -durante una buffa bagarre telematica con un tizio- mi son sentito dire che faccio parte di un'associazione rigidamente confessionale mi sono prese delle convulsioni di risate. Io, che presto servizio con la spilla con il wild cat degli International Workers of the World a coprire il crocione delle Misericordie; e mai che nessuno, anche a livello dirigenziale, abbia mai avuto alcunché da ridire.

Ci sono, invece, delle "Misericordie" che ci tengono molto al business. Che si possono permettere decine di dipendenti, cimiteri, centri analisi, ambulatori. E che, al momento dell'installazione dei CIE, hanno senza alcun problema dichiarato la loro disponibilità alla cogestione di quei lager; perché di lager si tratta. Le cose vanno chiamate con il loro nome. Un paio di giorni fa alcuni militanti antagonisti, che svolgono un'intensa campagna contro i CIE (campagna che mi vede totalmente d'accordo) si sono introdotti nella sede di una di quelle grosse Misericordie cimiterate, di quelle col giornalino intitolato al santo patrono, di quelle coi conti in banca ben pasciuti, di quelle con decine e decine di mezzi. E hanno fatto presente alcune cose, scrivendole anche su alcuni automezzi. Apriti cielo. Tutti a gridare allo scandalo, a cominciare dal neogovernatore di sinistra della Regione Toscana; lo scandalo, insomma, è che alcuni combattano -anche con gesti clamorosi come questo- contro dei campi di concentramento espressione della più schifosa intolleranza e del più assurdo razzismo di oggi, e non che delle "Misericordie", delle associazioni di "carità" (così si definiscono!) collaborino fattivamente alla loro gestione e trasformandosi in kapò. Dice il presidente regionale delle Misericordie: "E' l'ennesimo episodio di un'intolleranza che sta dilagando nel nostro Paese e anche nella nostra regione, e che in nome di un'ideologia cieca e astratta colpisce in modo violento chi invece si impegna ogni giorno, concretamente, per aiutare chi ha bisogno. Con il brillante risultato di distruggere due mezzi che vengono utilizzati dai volontari delle Misericordie per il trasporto di anziani, malati gravi e disabili". Ideologia "cieca e astratta"? No, proprio no. E', anzi, un'ideologia che mette perfettamente a nudo l'ipocrisia totale di questi signorini che parlano di "intolleranza" e che poi agiscono fattivamente per dei lager, nascondendo tutto sotto la maschera della "carità" (come del resto fa, a livello planetario, la Croce Rossa). Gli automezzi ricomprateveli coi vostri bei soldoni, con i lasciti, coi numerosi introiti che avete. E, soprattutto, se cianciate tanto di "carità", fatela sul serio rifiutandovi di collaborare a un'iniziativa nazista.

Nella prima parte di questo post ho espresso tutto il bene, perché di bene si tratta, che voglio a quella piccola e strana "Misericordia" di cui faccio parte. Gliene voglio anche perché non c'è mai stata, a cose di questo genere. Dovesse un giorno starci, mi toglierei di torno in cinque minuti netti.