Una specie di zuppa di giornali, gazzettini, corrieri e diari presi, sfogliati freneticamente e rimessi a posto scompaginati, sgualciti. Il rumore dei fogli che s'accartocciano. Nei giorni scorsi, all'Elba, da uno dei due giornalai-librai di Marina di Campo. Che cos'è l'intuito? E, probabilmente, un'associazione talmente forte ad un ricordo da provocare un riconoscimento quasi certo senza l'immediata visione diretta. Non poteva che essere lui, a fare quel casino di giornali e di fogli, nascosto dallo scaffale metallico girevole; il veneziano matto.
Quando poi ha sporto il viso oltre lo scaffale, davanti al giornalaio che guardava piuttosto incazzato, s'è sentita una voce dall'accento difficilmente confondibile; “tranquillo, compro tutto!” E, infatti, s'è avviato al bancone con una pila di cartaccia stampata, bell'e pronta per essere appallottolata. Eccolo là, proprio lui, che fra l'altro nemmeno mi ricordo, o non so, come si chiama. Mi è balenata in testa l'idea di salutarlo, ma sarebbe stato solo assurdo. Sono passati, quanti? Quasi sette anni. Non mi avrebbe mai riconosciuto.
Sette anni fa, nel gennaio del 2002, io e delle persone cui volevo e voglio bene ci stavamo preparando a scoppiare. Magari non è la parola esatta, o chissà. In quell'anno, a turno, ci è successo qualcosa che ha azionato uno scambio, un “prima” e un “dopo”. Perlomeno per me è stato così. Decidemmo, io e altre due di queste persone, di andare all'Elba un giovedì d'inverno, quando l'Isola è isola e basta, al di là di tutte le possibili considerazioni che anche in questo blog, a suo tempo, sono state fatte. Una macchina e tre òmini, tre persone che fino a pochissimi anni prima ignoravano l'esistenza l'uno dell'altro. L'esistenza e le storie.
Storie di cui non parlerò perché da un po' di tempo il pudore nel metterle in piazza mi è aumentato a dismisura. Si sbarcò ch'era già buio, e si cercò un posto aperto dove mangiare qualcosa; lo trovammo sul ciglio d'una strada provinciale, quasi fosse una di quelle “posadas” messicane aperte in mezzo al nulla. Non c'era assolutamente nessuno. Locale deserto. A un certo punto comparve un tizio, e gli chiedemmo se si poteva mangiare qualcosa.
In un battibaleno aveva già apparecchiato, con dei movimenti simili a quelli del Road Runner inseguito da Vilcoyote. Un autentico vortice. Dalla lista scegliemmo i salumi misti come antipasto, perché s'aveva una fame da stiantà'; in 45 secondi compare il tizio con una piattata simile a una ruota di camion, stracolma di affettati disposti in modo artistico. Si ferma. Posa il piatto sul tavolo e si comincia una conversazione durante la quale si viene a sapere che è di Venezia; ma si deve immaginare il tutto svolgersi in un minuto scarso.
Si doveva essere accorto che c'era qualcosa che non andava, in quel piatto. Già con le forchette in mano pronti a infilzare quel bendiddìo, si vede il veneziano afferrare il piatto e portarlo via blaterando parole incomprensibili. Ci doveva essere una fetta di salame o di prosciutto disposta male; inaccettabile! Dopo trenta secondi torna con un'altra piattata, diversa. Aveva sostituito tutto quanto perché c'era la fetta fuori posto; ed è da allora che ce ne ricordiamo, di quella persona. Che ogni tanto ritorna quando si sta a parlare, come ritornano tutte le cose di quei tre giorni bizzarri e meravigliosi. Tutte le cose di quel bivio, al cui inizio c'è stato in qualche modo anche lui, il veneziano della posada deserta.
Non lo saprà mai chi eravamo e cosa stavamo a farci, lì. Non saprà nemmeno di quante volte sia stato nominato. Gli affettati erano buonissimi, e pure il resto. Serviva come un tornado, e il tornado si è manifestato in mille e un modo. E dal giornalaio sono uscito con un sorriso, e con i soliti due minuti di niente da raccontare.