venerdì 5 settembre 2008

Mille lire




Di Napoli ho sempre parlato poco, e scritto ancor di meno; semplicemente perché non la conosco. Probabilmente non ha mai avuto una vera occasione di attenermi, e magari questa è una mia mancanza, una lacuna. Lo sarà senz'altro. I napoletani veraci che ho conosciuto si contano sulla punta delle dita, uno si è messo con una ragazza cui facevo il filo a sedici anni provocandomi una crisi eterna durata 42 minuti (il tempo di scrivere una melanconica e orripilante poesia adolescenziale) e un altro era un democristiano del cazzo, ma aiutatemi a dire del cazzo. Quanto alla città in sé, ci sarò stato tre volte in croce e tutte superficiali; l'ultima mi è toccato guidarci la macchina e mi sono ripromesso, se mai ci dovessi o volessi tornare, che mi ci muoverò rigorosamente a piedi; ché, poi, è il miglior modo di vedere e conoscere le città.

Ma di Napoli, stasera, m'è venuta la voglia di parlare per una storiellina piccina picciò, forse l'unico vero ricordo incancellabile che ho di quella città. Come quasi sempre accade, il ricordo più vivo è anche quello più lontano; e siccome la natura, aiutata dalla Settimana Enigmistica, mi ha dotato di una memoria simil-pichiana, posso anche dire che questo ricordo risale agli ultimi giorni di maggio del 1972. Non avevo ancora nove anni.

Mio padre era un tipo decisamente curioso, e nelle due accezioni principali del termine. Curioso perché letteralmente roso dalla voglia di vedere quel che una giovinezza da guerra e dopoguerra gli aveva impedito; e curioso perché aveva il dono dell'imprevedibilità. Per esempio, non era prevedibile che in quegli ultimi giorni di maggio del '72 incoraggiasse me e mio fratello maggiore a disertare l'ultima settimana di scuola perché aveva una voglia matta di saltare in macchina con tutta la famiglia e andarsene al sud. Un sud sconosciuto. Illuc erant leones. Se ne parlava alla tv, c'erano ancora gli emigranti, gli albanesi e i rumeni dell'epoca erano i siciliani o i napoletani; e, naturalmente, anche allora i meridionali si dividevano in “onesti” e “disonesti”. “E' siciliano ma è tanto bravo”, dicevano le massaie dal pizzicagnolo; subito dopo però arrivava la notizia del furto in appartamento e la stesse massaie dicevano: “Sarà stato un napoletano di sicuro”. Come dire: non cambiano i tempi, cambiano solo i bersagli.

Così mio padre comunicò alla famigliuola la sua improvvisa decisione di inscatolarci tutti sull'850 beige e farci fare una “gita”. Le “gite” di mio padre somigliavano a quel che ora sono “Avventure nel mondo” o roba del genere; ci ho un amico che passa le vacanze nel Tagikistan o fra gli Uiguri del Turkmenistan cinese, ma lo sfiderei volentieri a farsi Firenze-Reggio Calabria nel 1972 a bordo di un'850 con ottantamila chilometri già sul groppone. Quello fu. Tappe massacranti, la prima da Firenze a Salerno, poi da Salerno a Reggio passando per strade interne (da mio padre ho ereditato l'odio profondo per le autostrade), poi da Reggio a Taranto e infine da Taranto a Firenze. In otto giorni. Mi rivedo sempre assetato, vestito generalmente in modo ridicolo (con delle bermude blu stinte e un paio di occhiali da sole che sembravano televisori). Ce ne successero di tutti i colori: in una specie di albergo a Salerno, dove ci avevano sistemati tutti in una cameraccia con letto matrimoniale, lettino singolo e mobile-letto a chiusura, quest'ultimo durante la notte mi si chiuse veramente addosso sbarbando anche una lampadina che pendeva dal soffitto. Vicino a Serra San Bruno, in Calabria, l'850 rimase senza benzina e a mio padre toccò farsi otto chilometri a piedi fino a un distributore. A Taranto ci venne la malsana idea di farci un bagno nel Mar Piccolo, e se ne uscì fuori sporchi di petrolio o che accidenti era d'appiccicaticcio e puzzolente. A Bitonto capitammo esattamente nel giorno dove avevano ritrovato i cadaveri di tre bambine gettate in un pozzo, tutti allegri e giulivi a chiedere informazioni dove mangiare mentre in paese l'aria si affettava col coltello. E così via. Le piccole avventure nel mondo della famiglia Venturi.

Ma ero partito col voler parlare di Napoli e di quel ricordo, già. Successe durante la prima tappa, perché ovviamente a mio padre era venuta la voglia di entrare un po' dentro Napoli; e altrettanto ovviamente si perse. Confidando nei cartelli d'indicazione dell'autostrada, ad un certo punto si accorse che tali cartelli erano spartiti. Dissolti nel nulla. Ci ritrovammo in un quartiere, credo San Giovanni a Teduccio, senza sapere dove andare a sbattere il muso. Ad un tratto il miracolo: ricominciano i cartelli. Solo che sono fatti di cartone e la scritta “autostrada” è fatta col pennarello. “Mah”, disse mio padre, “sarà stata qualche anima buona visto che non hanno messo i cartelli veri...”

Segue fiducioso i cartelli artigianali, e ci ritroviamo come bischeri, con l'850 beige in un giorno già torrido, ad un baracchino di lamiera. Oltre il baracchino, una rampa di accesso (forse un'antico ingresso di lavoro ai cantieri, dimenticato lì) che dà su quello che sembra l'autostrada; scoprimmo poi che era un raccordo che portava a un casello. Dentro il baracchino un ometto con addosso una spolverina nera coi bottoni, di quelle da scrivano d'ufficio alla Policarpo de' Tappetti, e accanto a lui un bambino forse della mia età che fumava una sigaretta. Sopra, l'ennesimo cartone, ma più grosso, con scritto “AUTOSTRADA”. Mio padre si ferma esterrefatto e chiede: “Ma di qui si entra...?” L'ometto gli risponde qualcosa in napoletano, in cui si capisce solo “Mille lire”. La rampa è chiusa da una barriera fatta con una spranga arrugginita retta su due blocchi di cemento.

Mio padre, che scemo proprio non era, non ci sta a pensare nemmeno un secondo. Caccia fuori dal portafoglio mille lire e le dà all'ometto; il bambino, tranquillo, va alla spranga, la solleva e ci lascia passare; poi la riappoggia sui blocchi. Eccoci sul raccordo, prima in silenzio e poi a ridere quando davvero si arriva al casello, qualche chilometro dopo. Ecco cosa avevano escogitato l'ometto e il bambino, sicuramente un suo figliolo, per mandare avanti la baracca. Si erano accorti della rampa dimenticata e l'avevano trasformata in un finto casello autostradale, prezzo unico mille lire. Non è da escludere che i cartelli “ufficiali” che indicavano l'autostrada ci fossero stati, e che li avessero levati di mezzo loro per instradare al casello di famiglia. Mille lire. Alla fine della giornata, vuoi che non ci fossero passati dieci o quindici polli smarriti, il rappresentante romano, il camionista trentino, il motociclista olandese o gli avventurosi gitanti fiorentini? E il bello è che tutti quanti i polli, esattamente come noi, dopo esserci cascati si mettevano probabilmente a sganasciarsi dalle risate e a fare i complimenti a quel padre e a quel figlio.

Ecco, Napoli. Stanotte dovevo pagarle quel lontano ricordo. Ci metto sempre un po' di tempo a pagare, lo ammetto; ma prima o poi lo faccio. E se magari qualche napoletano o napoletana leggesse questa cosa, mi piacerebbe che mi parlasse di lei e di che cos'è; che mi desse quell'occasione per attenermi che ancora non ho mai avuto. Magari non accadrà, e resterà per sempre una sconosciuta e un casello finto; chissà che ne sarà stato di quell'uomo e di quel bimbo. Se esisterà ancora quella rampa, o se l'hanno abbattuta. Di sicuro non esiste più mio padre, e comunque Napoli la devo ringraziare, stanotte, per avermelo rimesso nella mente.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi hai fatto venire i brividi. Mi complimento con te fiorentino. vorrei dirti tante cose ma le diro' un'altro giorno. fai onore al nord. Grazie. Un duosiciliano sconfitto nel 1860.