sabato 31 gennaio 2009

Istruziones pro sos Casteddanos




"Procurade e moderare,

Gobbones, sa tirannia,
Chi si no, pro vida mia,
Torrades a pe' in terra!
Declarada est già sa gherra
Contra de sa prepotenzia,
E cominzat sa passienzia
In su campionatu a mancare"

(Francesco Ignazio Mannu, "Innu de su patriota Sardu a sos Juventinos", noto anche come "Procurade e moderare", 1794)

Carissimi amici Cagliaritani e Sardi tutti (esclusi quelli gobbi, ché purtroppo, ce ne sono diversi),

Chi vi parla è un tifoso della Fiorentina.

Come saprete, il 24 gennaio scorso la mia squadra è stata, suo malgrado, protagonista di alcune piccole, insignificanti, trascurabili "sviste" arbitrali in quel di Torino, in occasione del match di campionato contro la Juventus (mi si perdoni se uso quest'esecrato nome).

Poiché stasera la Vostra squadra, il Cagliari, è impegnata giustappunto a Torino contro la medesima, simpaticissima compagine bianconera, mi permetto di proporre alla Vostra attenzione alcune "istruzioni", che mi sarebbe -se l'avessi conosciuta più a fondo- piaciuto redigere (non "redarre", come si legge ben 24.000 volte su Google) in lingua sarda.

Tali "istruziones" sono volutamente ispirate alle più profonde tradizioni della Vostra bellissima terra, e le ritengo oggi più che mai opportune per porre un freno alla rinnovata arroganza, prepotenza e sicumera dei gobbacci (quelli veri, non quelli travestiti da romanisti). Vado dunque a incominciare.

1. Scendere in campo con congrua dose di casu marzu nascosto sotto le divise di gioco o nei parastinchi. Alla prima decisione dubbia del direttore di gara sfavorevole (ovviamente) al Cagliari, cavare fuori dose del suddetto cacio con relative larve e strofinarla ripetutamente sul grugno dell'arbitro fino alla sua completa disponibilità a rivedere la decisione presa. Il trattamento può ovviamente essere ripetuto nei confronti dei guardalinee ed anche dei giocatori avversari (in particolare Pavel Nedved, che essendo cèco non è sicuramente assuefatto a una simile specialità mediterranea), se manifestassero eccessiva opposizione alla cosa;

2. Tenere sugli spalti un costante e inesorabile concerto di launeddas fino all'allontanamento disperato dei "tifosi" giuventini, in preda a crisi isteriche incurabili; oppure loro conversione forzata in tifosi cagliaritani con conseguente consegna di launeddas, corso rapido di sardo o quantomeno correzione del poderoso accento piemontese che ha la stragrande maggioranza dei tifosi giuventini;

3. Se l'arbitro concede un calcio di rigore (naturalmente a favore della Juventus), il capitano del Cagliari prenderà cortesemente in disparte l'arbitro; dopo un breve preambolo storico-sociale, gli prospetterà un radioso avvenire come theraccu (servo pastore, per i non sardi) in uno sperduto terreno dell'Ogliastra, previa cattura negli spogliatoi e trasporto in Sardegna a bordo di un lussuoso gommone dotato di tutti i comfort. Là potrà esercitarsi a dirigere interessanti derby, nel senso dell'antica ballata inglese The Derby Ram (il montone di Derby);

4. Qualora il suddetto arbitro resistesse, in campo o negli spogliatoi, tenergli una breve ma approfondita conferenza sull'origine, la fabbricazione e soprattutto sull'uso della resolza, coltello tipico di Pattada (Sassari). A tale riguardo, come si evince da Wikipedia, si segnala che la cittadina di Pattada ha ospitato nel 2008 la quarta edizione di Un gol di solidarietà, manifestazione in favore delle persone colpite dalla SLA; l'arbitro non vorrà quindi sottrarsi a tale benefica iniziativa;

5. Quanto ai giocatori avversari della Juventus, prospettare in particolare al portiere (fascista) Buffon che la Seredova, in quel preciso momento, sta scoprendo e constatando con estremo piacere la virilità di un paio di riserve sarde del Cagliari; la conseguente reazione del portiere lo farà precipitare negli spogliatoi, lasciando sguarnita la porta per il tempo necessario a Acquafresca e Jeda per infilare, diciamo, un sei o sette palloni che dovrebbero garantire al Cagliari un'agevole vittoria.

Certo di un'attenta considerazione delle suddette proposte, auguro ovviamente al Cagliari una sonante vittoria, stasera, che lo porti a consolidare la sua posizione in classifica (anche a discapito della Fiorentina, ma non importa) e ad allontanare definitivamente la Juventus da qualsiasi velleità di "scudetto".

Con estrema deferenza e cordiali saluti,

Riccardo Venturi.

mercoledì 28 gennaio 2009

L'ordigno



Poiché questo è un blog di storie, ve ne racconto una assolutamente straordinaria, anche se legata senz'altro all' “attualità”.

Tutto comincia a Firenze la sera del 17 gennaio scorso, quando in via dei Pilastri, nell'antico quartiere di Santa Croce e a due passi (ma veramente due passi) dalla sinagoga, viene ritrovato un ordigno sistemato davanti alla Chabad House, o Beyt Chabad, la sede fiorentina del movimento ultraortodosso ebraico dei Lubavitch. Tale movimento dei simpatici Chassidim (e se dico “simpatici” non è sarcastico: mi ispirano, da sempre, una sincera simpatia per vari motivi che non sto a spiegare) prende nome da una cittadina russa che, nel 1941, fu completamente rasa al suolo dai nazisti.

A questo punto un piccolo ma necessario excursus.

Il termine ordigno è amatissimo dai media. Quel suo deciso sapore ottocentesco, da attentatore anarchico, come dire, fa “presa”. Un tempo alcuni genitori anarchici chiamarono Ordigno uno dei figli maschi; se ne può vedere ancora qualche esempio in Toscana (al Gabbro, vicino a Rosignano Marittimo). Un ordigno è, al tempo stesso, qualcosa di più e di diverso di una semplice bomba. Le bombe si mettono sui treni, nelle stazioni o dentro le banche, magari a cura dello Stato; gli ordigni sono più romantici, sanno di neri pastrani, di ombre furtive nella notte, di gesti solitari. Gli ordigni sono quasi sempre fatti in casa: si usano gli oggetti più disparati (scatole di metallo, tondini di ferro, polvere da sparo trovata in soffitta); da qui un aggettivo che, spesso, li accompagna: rudimentale. Naturalmente, se ben confezionato, anche un ordigno rudimentale può fare danni seri; volendo, anche una bottiglia molotov lo è.

Torniamo a noi. La sera del 17 gennaio scorso, un ordigno rudimentale viene ritrovato davanti alla suddetta Chabad House dei Lubavitch, in via dei Pilastri. Si tratta di una “bomboletta di gas da campeggio e un innesco con pezzi di carta” (dichiarazione del procuratore capo di Firenze, Giuseppe Quattrocchi). Prosegue l'alto funzionario: “L'ordigno rudimentale non sembra cosa idonea a conseguire risultati significativi”.

Il 17 gennaio siamo ancora in piena offensiva militare su Gaza, con le relative manifestazioni di opposizione e di sostegno nei confronti di Israele. Apriti cielo: l'ordigno rudimentale basta per mettere in modo il meccanismo della “solidarietà istituzionale” nei confronti della comunità ebraica fiorentina colpita dal vile tentativo di attentato. Tutti, dal sindaco Domenici al presidente della Regione Toscana, Martini, da svariati parlamentari fino addirittura alla Confcommercio, al neo-arcivescovo Betori e all'imam della comunità musulmana, Ezzedin Elzir, esprimono solidarietà e sdegno, organizzando addirittura un presidio davanti al Tempio Israelitico fiorentino di via Farini, la mattina di domenica 25 gennaio. Perché, naturalmente, tutto ciò si iscrive nel rigurgito di antisemitismo che attanaglia Firenze, assieme a tutto il mondo, dopo l'intervento militare a Gaza. Nonostante le parole del procuratore capo, il rabbino Joseph Levi dichiara alla stampa: “L'ordigno poteva procurare gravi danni”.

Chi può averlo piazzato? Sembra che una telecamera abbia ripreso “due ombre nella notte”. La stampa, in primis la Nazione, non tarda a tirare in ballo la “pista anarchica”; già magari qualcuno s'immagina la retatona al centro sociale, o roba del genere. E le indagini, quasi d'istinto, in un primo momento sembrano orientarsi in questa direzione che potremmo chiamare degli antisemiti rossi, come piace tanto scrivere a questi signori.

Senonché, proprio oggi 28 gennaio, passati il défilé di politici davanti alla sinagoga e anche la Giornata della Memoria, il quotidiano Il Firenze se ne esce con, in prima pagina, un autentico scoop: macché anarchici, macché antisemitismo. Secondo “un autorevole esponente della comunità ebraica fiorentina”, che intende restare anonimo ma le cui dichiarazioni “trovano però importante riscontro tra gli inquirenti”, si tratterebbe nientemeno che di una faida tra ebrei. Uso tale espressione riprendendola dal titolone in prima pagina del Firenze. Dichiara l' “autorevole esponente”: «Macchè antisemitismo. È tutto da ricondurre ai contrasti personali interni tra la comunità fiorentina ed i Lubavitch, alcuni ebrei ultra-ortodossi che frequentano solo saltuariamente la sinagoga di via Farini». Proseguono gli articolisti del Firenze, C. Bozza e S. Brogioni:

L' ipotesi è avvalorata anche dall'assenza di una rivendicazione della bomba, fatto piuttosto anomalo nel caso si fosse trattato di una matrice politica. Un contesto delicatissimo quello fiorentino, in cui coesistono con difficoltà due modi diversi di concepire e praticare la religione ebraica. Da un lato la quasi totalità della comunità guidata da Joseph Levi, rabbino della sinagoga di via Farini, dall'altro appunto gli hassidim, l'anima più rigorosa dell'ebraismo, segnati da una religiosità fortissima, quelli che di sabato, per shabbat, non accendono la luce e non prendono neanche l'ascensore. I gravi contrasti nella manciata di metri tra via Farini e via de' Pilastri iniziano nel 2000, quando Eli Borenstein, uno dei più influenti leader del movimento internazionale Lubavitch in Italia, acquista il fondo di una merceria per aprire appunto la Chabad House, al cui interno c'è solo un mucchio di cianfrusaglie, in un punto però strategico e di grande visibilità per attirare potenziali hassidim. Questi ebrei di Firenze sono appunto Lubavitch [...] Caftano nero, boccoli a cavaturacciolo e Borsalino nero in testa, arrivano da tutto il mondo per incontrare il leader Borenstein, che però sta a Bologna -dove ha ricevuto un altro avvertimento- e di solito arriva a Firenze solo una volta a settimana -il sabato appunto- per ospitare e ristorare gli aderenti al suo movimento. Un giorno sacro il sabato, in cui oltre al divieto di camminare a lungo, preparare cibo e fare molte altre cose, è vietato persino telefonare: per questo, curiosamente, Borenstein ha avvertito i carabinieri solo al tramonto, quando il shabbat si era concluso, nonostante si fosse accorto dell'ordigno già dalla mattina. «Si spera in una pacifica convivenza, ma vedere i Lubavitch che in via dei Pilastri fuori dalla sinagoga fanno proselitismo tra i turisti ebrei americani non sembra gradito alla comunità», scriveva Repubblica Firenze in un reportage pubblicato poco dopo l'arrivo dei Lubavitch in città. Un mancato gradimento, poi degenerato in un conflitto tra i due gruppi, che però fa solo da sfondo all'atto intimidatorio del 17 gennaio, che potrebbe essere figlio di dissapori personali.”

Ora, vi sono da dire alcune cose necessarie. La prima è che, a me personalmente, non piacciono punto le dichiarazioni anonime, nemmeno quelle che troverebbero “riscontro tra gli inquirenti”. La seconda è che Il Firenze, dopo un inizio promettente, è un quotidiano che -in generale- si è perfettamente allineato alla cialtroneria mediatica, proponendo ad esempio le sue brave dosi di sicurezza, di law & order eccetera (certo, senza raggiungere i livelli inarrivabili della Nazione, titanica creatrice di polveriere, quadrilateri della paura, esasperazioni de' cittadini eccetera). Lo scoop odierno va preso quindi per quello che è, e un'elementare prudenza mi impone di usare in modo costante il modo condizionale.

Certo, però, se e solo se le affermazioni del Firenze si rivelassero esatte, e se l'ordigno rudimentale sistemato davanti alla Chabad House fosse stato confezionato, come dire, “in famiglia” (e senza nulla togliere alla gravità -anche simbolica- dell'episodio), si aprirebbero scenari impensabili. Ad esempio, chi dovrebbe andare a spiegare al sindaco, agli onorevoli, al presidente dell'ASCOM, Soderi (quello che raccomandò ai commercianti la "serrata" in occasione del Social Forum del 2002), a tutti gli altri esponenti istituzionali, all'arcivescovo e all'imam che, in realtà, domenica 25 gennaio si sono recati davanti alla Sinagoga a fare un presidio per i Lubavitch?

Mi si perdoni la cosa, ma immaginarmi Domenici col Borsalino nero e le treccine, Matteo Renzi a imbriacarsi per il purim, Claudio Martini ad accendere la hanuqqah, Soderi a fare un corso accelerato di yiddish o Graziano Cioni a non poter telefonare il sabato a Salvatore Ligresti , mi riempirebbe di autentica gioia, di purissima letizia. Oltre a farmi restare ancora più simpatici i Chassidim, coloro che si avviavano alle camere a gas cantando il Pishku Li.

martedì 27 gennaio 2009

Memorie e Giornate




Oggi, ventisette gennaio duemilanove, ricorre la cosiddetta “Giornata della Memoria”. E poiché memoria la abbiamo e vogliamo continuare ad avercela, specifico in che cosa consista esattamente tale giornata.

La "Giornata della Memoria" è stata istituita dal parlamento italiano nel 2000 per ricordare le vittime delle persecuzioni fasciste e naziste degli ebrei, degli oppositori politici, di gruppi etnici e religiosi dichiarati da Hitler indegni di vivere. La data prescelta è quella dell' anniversario della liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz (Oswiecim in lingua polacca, dato che i signori e padroni germanizzavano anche i toponimi degli Untermenschen) avvenuta ad opera delle avanguardie della Prima Armata dell' Armata Rossa (comandata dal maresciallo Koniev) il 27 gennaio 1945.

Mi piacerebbe che questa giornata, oltre che presso qualche sinagoga o associazione israelita, fosse ricordata anche in qualche campo nomadi, e che non si parlasse soltanto di Shoah, ma anche di Porrajmos. Ma i Rom, come si sa, non sono degni di essere ricordati; soltanto di essere espulsi, perseguitati, disprezzati. Oggi come allora. E non dubitiamo che molte di quelle forze che oggi, magari, ribadiranno qualche vuoto “mai più” davanti al rabbino capo condito con l'immancabile “sostegno ad Israele”, sotto sotto non nasconderebbero la loro soddisfazione se, da qualche parte, un po' di Auschwitz continuasse a funzionare per gli zingari. Del resto, un partito nazista ce lo abbiamo al governo, anche se ha sostituito il colore delle camicie.

Mi piacerebbe che questa giornata fosse ricordata anche presso qualche associazione di omosessuali, di “oppositori politici”; che fosse ricordata anche, nonostante la non eccessiva simpatia che nutro verso di loro, anche in qualche Sala del Regno dei Testimoni di Geova, visto che nei lager nazisti ne perirono a migliaia, con tanto di “stella” a loro riservata.

Mi piacerebbe infine che questa giornata fosse dedicata non soltanto alla “memoria” di quel che è accaduto, ma anche e soprattutto di quel che sta accadendo. Che fosse dedicata ad un NO gigantesco a tutti i genocidi commessi sotto qualsiasi pretesto (ivi compresa la “democrazia” più o meno “esportata”). Che fosse dedicata ai civili, alle donne e ai bambini palestinesi vittime di alcuni dei perseguitati di sessanta e rotti anni fa. Che fosse dedicata alle centinaia di migliaia di iracheni morti prima sotto un dittatore sanguinario e dopo di democrazia esportata. Ai curdi gassati, sconciati, deprivati, sottomessi anche nella democratica Turchia. Che fosse dedicata ad una cosa ben più recente ma che abbiamo europeamente rimosso: ai genocidi incrociati nella ex Jugoslavia. Oggi saranno profluvi di Auschwitz e di Bergen-Belsen, ma nessuno nominerà Jasenovac, Srebrenica, Mostar, Sarajevo, Knin. Così come, con tutta probabilità, parlare di Gaza sarà vietato quasi per legge, pena l'indignazione degli attuali fascisti convertiti alla Stella di David. Ma, del resto, oramai anche Israele è diventato un normalissimo paese; accade da quando, due anni fa, la polizia vi ha scoperto e smantellato alcuni gruppi neonazisti. Con tanto di scritte inneggianti a Hitler, redatte in ebraico sulla sinagoga di Phad Yitzhak, a Eilat. Va da sé che gli arrestati, tutti israeliani, avevano compiuto aggressioni ai danni di immigrati, tossicomani, omosessuali e ebrei ortodossi. Quelli che continuano a parlare yiddish e che non riconoscono lo stato di Israele.

Perché va così in questo paese dove, attualmente, è di moda una frasetta aurea: “Condivido i valori del fascismo tranne l'entrata in guerra e le leggi razziali”. La dicono tutti, dai sindachetti law & order ai calciatori (vedasi Abbiati). Probabilmente nessuno ha spiegato a costoro che l'entrata in guerra e le leggi razziali sono dei corollari del fascismo, di tutti i fascismi e dei loro fulgidi valori, anche di quelli paludati da “democrazia”, anche di quelli che hanno passato le acque di Fiuggi. Ne volete una controprova?

Oggi ventisette gennaio duemilanove, “giornata della memoria”, gli apparentemente neanchepiufascisti, magari con la kippah in testa, ricordano quello che veramente piace loro ricordare. Si tratta nientemeno che dell'annessione della città di Rijeka all'Italia fascista, avvenuta il 27 gennaio 1924 dopo la “storica impresa” di un mediocre poetastro dedito all'autofellazione. Lo si può vedere, ad esempio, sul sito di “Azione Giovinotti” di Firenze (qui la homepage e qui l'articolo.) E' bene leggerle certe cose, dato che “Azione Giovinotti” è espressione di un partito di governo che, a parole, ha “ripudiato” il fascismo e si atteggia a forza democratica (salvo utilizzare le squadracce -sue o di altri movimentini analoghi- ogni qual volta ce ne sia il bisogno). Vi si parla persino di un manipolo di volontari in camicia nera e, ovviamente, di “pulizia etnica dei partigiani titini” e delle immancabili foibe. Come se, nel frattempo, durante il ventennio del loro caro nonnino (quello che scappava su un camion intabarrato in un pastrano da caporale tedesco) e durante la guerra, non fosse accaduto nulla. Come se di pulizie etniche questi qui fossero scevri, puri angioletti tutti libro & moschetto. Concludono con un accorato proclama: “Nonostante oggi sia Rijeka, Fiume sarà sempre italiana nei nostri cuori”. Però mi sa tanto che quegl'italici cuori abbiano qualche extrasistole.

Poiché oggi è una giornata di “memoria”, mi ricordo ad esempio degli stessi donzelli damerini che, non molti anni fa, inneggiavano alla libertà della nazione croata facendo il tifo per gli ustaša loro simili. Glielo vadano a dire a loro com'è e come sarà Rijeka. O glielo vadano a dire agli ungheresi, dato che a Rijeka viveva una comunità ungherese di migliaia di persone (persino l'ex segretario del partito comunista ungherese fino al 1989, János Kádár, al secolo Giovanni Czermanik, era nato lì); what if la santa Ungheria della corona di Santo Stefano se la fosse voluta annettere?

Eccovi dunque che cosa davvero “ricordano” i nostri amiconi giovinotti in questo ventisette gennaio. Altro che Shoah. Altro che Auschwitz. Ricordano soltanto il loro nazionalismo da barzelletta, come da barzelletta dovrebbero essere tutti i nazionalismi ottocenteschi -comunque si chiamino, anche “sionismo”.

Слава југословенским партизанима и смрт фашизму!


Il video è Yellow Triangle, una canzone di Christy Moore.


[ bra'si:w 'teʀ:a dzɪ 'soɳuʃ ]




Eu o tinha dito, e cada promessa empenha. Obrigado, Brasil, pela lição que você deu e por não ter medo da liberdade e da justiça. E desde agora só Brasil no campeonato Mundial!

giovedì 22 gennaio 2009

December 9, 1983



If we should meet in Glasgow,
By chance on a rainy day,
Let's sit and drink in a damn good bar,
Till evening comes out to play.

And there are things I don't want to talk about,
Things I don't want to say,
Twisted spires and lonely byres,
And fishing boats in winter spray
Winter spray.

I was a single father,
Those were real harsh times,
I remember losing my baby
every time I hear the church bell chime.

I was a single father,
But I just can't complain.
Got a heart full of headstones as I step down
As I step down
From the train
From the train

We walked down a leafy ravine,
To a cloud of dragonflies,
You pointed your finger in water,
At the colours in the sky.

You sat in your chair on the beach,
I waved to you from the sea,
You saw the wave and smile,
You were already lost to me
Lost to me.

I was a single father,
Those were real harsh times,
I remember losing my baby
every time I hear a church bell chime.
I was a single father,
But I just can't complain.
Got a heart full of headstones as I step down
As I step down
From the train
From the train.

Now my son's in the English army,
He plays the guitar well,
I almost never see him,
I walk alone on a distant fell.

Now half the world is working,
Half is watching TV,
Some take smack and fall right back,
It's all the same to me,
Same to me.

I was a single father,
Those were real harsh times,
I remember losing my baby
every time I hear a church bell chime.
I was a single father,
But I just can't complain.
Got a heart full of headstones as I step down
As I step down
As I step down
From the train
From the train.

Jackie Leven.

mercoledì 21 gennaio 2009

Cipolle e pomodori



Questa è la storia di un uomo, di un carretto e di due balle di verdura mezza marcia.

Sia l'uomo, sia il carretto e sia la verdura mezza marcia si trovavano su un'isola, alla metà di settembre del 1943; e su quell'isola la guerra era stata solo figli mandati a combattere e a morire in terre o in mari lontani. A volte persino sulle montagne, ché qualcuno era abituato più ad arrampicarsi per balze e per pente, che a navigare.

La guerra, com'è fatta ad avercela addosso sul groppone, non se lo poteva ricordare più nessuno, nemmeno i vecchi più decrepiti e raggrinziti. Sarebbero dovuti essere vecchi di secoli, per ricordarsene; dei tempi degli Spagnoli e del granducato s'era persa non soltanto la memoria d'uomo, ma anche quella delle generazioni. Quando nel mondo infuriava la guerra, tutto scorreva come prima sull'isola; morivano i ragazzi, li piangevano, le madri e le sorelle portavano il lutto, i padri e i fratelli andavano nei campi e zappavano più forte, o preparavano un vino dal sapore di sventura. Le fidanzate sposavano chi era tornato; batteva il sole.

Il paese principale dell'isola, che era una piccola e storica città, era stata fortificata dal granduca, che la voleva inespugnabile. Per un po' s'era chiamata col suo nome, ma non era mai entrato nell'uso. Il nome vero era quello d'un porto e d'un minerale che su quell'isola veniva estratto fin dai tempi antichi. Un giorno avevano impiantato l'industria, per fare l'acciaio. Un acciaio cui avevano dato il nome dell'isola, quello latino. Molti passarono dai campi alla fabbrica, e qualcuno in quella fabbrica ci morì male.

Il 16 settembre 1943, alle undici e venti, arrivò la guerra. Arrivò quando, pochi giorni prima, tutti avevano sperato che fosse finita. C'era stato l'armistizio, poi lo sbando, e poi ancora l'invasione dei vecchi alleati. Per prenderla, l'isola, decisero di bombardarla con gli Stukas. Un poeta, qualche anno prima, scrivendo d'una città di mare aveva concluso su un'infinita occhiuta devastazione che era la notte tirrena; nel tardo mattino tirreno di quell'isola e del suo porto principale, la devastazione giunse dal cielo, infinita, ma senz'occhi. La gente scappava, e veniva mitragliata.

Bombe sul porto, sulle acciaierie, da ogni parte. Rovine. La vecchia calata, polverizzata. Le ciclopiche fortificazioni del granduca, squarciate. Se ne accorsero da tutta l'isola, che non è grande ma nemmeno piccola, che al porto c'era l'apocalisse. Bastava scollinare e si vedevano le colonne di fumo. Anche dai paesi più lontani si sentivano i sibili degli aeroplani, si sentivano gli scoppi delle bombe. E siccome nessuno poteva farci niente, si suonavano le campane delle chiese, si facevano i segni della croce.

Da uno di quei paesi lontani partì un uomo, ma non per andare a vedere cosa stava succedendo. Lui, quella mattina, al porto ci doveva andare perché non c'era più nulla da mangiare. Una moglie e sei figli, aveva; il più grande era andato a fare la guerra. E non se ne sapeva nulla. Ne restavano cinque, e la loro madre. Lui faceva il vino, e il vino chissà chi lo comprava, in quei frangenti. La terra era poca, e l'estate era stata secca. Perdurava. Faceva ancora un caldo da scoppiare.

Prese il suo carretto e s'avviò, piano, tirandolo a mano. Al porto, di sicuro, qualche po' di roba l'avrebbe trovata. Qualche mazzo di verdura, tre cipolle, un pomodoro, o qualche scarto di catalogna; ché è amara come il fiele, la catalogna, ma va bene lo stesso. Buttavano le bombe; e mica le avrebbero buttate fino a sera. Per arrivare dal paese al porto, trascinando un carretto a mano, gli ci sarebbero volute ore. E ore gli ci vollero.

Quando arrivò, c'era l'inferno. Il porto non esisteva più. Le acciaierie, ed il loro lavoro, erano state rase al suolo. Dietro il porto, dietro la calata, quel che restava delle case bruciava ancora. Le navi e le barche alla fonda erano colate a picco. C'era ovunque un puzzo tremendo, di bruciato, di cadaveri, di polveri mischiate, di sangue. C'erano pezzi di gente in mezzo ai pezzi di muri. L'uomo non sapeva più cosa fare. Altro che bombe, sul porto s'era abbattuta la mannaia della morte; vagava col suo carretto in mezzo alle urla, agli ordini degli invasori, ai fratelli della Misericordia che le bombe gli avevano distrutto tutto quanto c'era in sede, e che portavano i morti e i feriti a mano, o su delle lenzuola. Senza sapere dove portarli perché anche l'ospedale era mezzo crollato, con quelli che c'erano dentro.

Lo videro, col suo carretto. Una manna dal cielo. Bonòmo, fate un'opera bona, prestatecelo ché si deve andare a pigliare dei morti. Glielo prestò, ma volle andare con loro; non si sa mai che il carretto andasse perduto. Andavano vicino a un molo, a un casotto che era stato preso in pieno dalla prima ondata di bombe; c'erano sette o otto persone dentro, e viva non ne era rimasta nessuna. Tra quei poveri morti, sette o otto fra i tanti, a quell'uomo parve di vedere un volto familiare.

Chissà come dev'essere, per un padre, ritrovarsi davanti a un figlio che non vede da anni, da quando è partito per fare il soldato in guerra. Ritrovarlo morto, sconciato, appena arrivato dalla smobilitazione, giusto in tempo per essere fatto a pezzi a casa sua dopo essere scampato a chissà quale Albania, a chissà quale Grecia, a chissà quale merda di posto. Ritrovarlo così, per caso, mentre il ragazzo felice meditava di fare una sorpresa a casa, e quale sorpresa. S'immaginava magari sua madre che sarebbe svenuta, e poi rinvenuta, e poi gli abbracci, i fratelli, non c'è nulla da mangiare, tuo padre è andato al porto a cercare du' pezzi di cipolla. E la ragazza? Dov'è? M'ha aspettato o s'è messa con un altro? E con chi si doveva mettere, ché erano tutti a fare 'sta maledetta guerra?

Nessuna sorpresa, a parte quella di morire su un molo, senza nemmeno accorgersene. E tuo padre che ti riconosce, che diventa matto mentre i fratelli della Misericordia cominciano a capire, è ir mi' figliolo, è ir mi' figliolo. Si devono portare via, bonomo, tutti, bisogna portarli a seppellire sennò scoppiano le malattie che fanno più morti delle bombe. Bisogna. E ce li portano, al cimitero, anche quello mezzo barato, che non c'è più nemmeno un palmo di terra per scavarci una buca. Gliene risparmiò una, senza dire nemmeno una parola. Il suo figliolo volle tenerselo, per riportarlo a casa. Era tornato a casa. E a casa, si ricordò, c'erano altri cinque figlioli e una moglie.

Quand'ebbero finito, i fratelli della Misericordia gli riconsegnarono il carretto con una preghiera e due parole di conforto; poi tornarono, a piedi, a prendere altri morti, altri feriti, altro dolore. Rimase solo col suo figliolo, sistemandolo con cura sul carretto, composto, calmo. Ché gli era toccata la disgrazia più grande per un padre, e gli si erano seccate le lacrime. In guerra c'è penuria anche di quelle. Riprese la via di casa, ore di cammino, sotto il sole che digradava, col peso del figlio morto sul carretto, con l'attenzione a schivare i sassi e le buche sulla strada terrosa per non farlo cascare. E uscendo dal paese ammazzato, gli cascò l'occhio su due balle di iuta abbandonate sul ciglio.

Erano piene d'ogni ben di dio. Mazzi di cipolle. Insalata. Agli puzzolenti. Pomodori e melanzane. E dovevano essere stati lasciati lì dalla mattina presto, in fretta e furia. Il sole aveva già fatto quasi marcire ogni cosa, i pomodori erano spappolati, le cipolle sudavano umori, le foglie dell'insalata s'erano smollate. Ma era roba da mangiare. E tanta. Da sfamarsi per giorni. Erano cipolle morte come suo figlio. Pomodori rossi come il sangue di suo figlio. Insalata putrefatta come lo sarebbe stato, presto, suo figlio. Tutto sul carretto. Ore di cammino a trascinare la morte d'un ragazzo e di mezzo quintale d'ortaggi, quietamente, accuratamente sistemati. Sudava per la salita, e sudava perché trasportava cose preziose; la morte di chi da lui aveva avuto vita, e la vita per chi avrebbe saputo ritirarla fuori da quei vegetali morti.

Entrò così in paese, a sera quasi fatta, ché a settembre le giornate son già accorciate di parecchio. Non c'era nessuno in giro. Presto avrebbe bussato a casa, e la moglie, ancor prima di aprire la porta, gli avrebbe chiesto se avesse trovato qualcosa. Avrebbe sentito il vocìo degli altri figli, babbo, babbo, s'ha fame. Poi la porta si sarebbe aperta. Aveva trovato tutto, e quella notte si sarebbe vegliata, e la zuppa sarebbe stata cotta e mangiata perché domani sarebbe spuntato ancora il sole. Così per sempre; e la terra avrebbe ricoperto quel ragazzo trasportato da suo padre a casa, e da quella terra sarebbero cresciuti pomodori, melanzane, insalata, agli e cipolle vive, e belle, e forti.

lunedì 19 gennaio 2009

Erau zilele când



Erano i giorni in cui il tiranno, intabarrato nel suo pastrano di pelliccia e col colbacco in testa, si affacciava alla finestra del Palazzo, davanti alla folla che cominciava a gridargli di assassino, senza più paura. Non seppe più cosa dire. Gridava degli assurdi “Alò, alò” mentre partivano i primi spari, le prime raffiche di mitra. Era la Rivoluzione, e la Rivoluzione in diretta televisiva. Pochi giorni dopo, dopo un processo farsesco, il tiranno e la moglie (“eminente scienziata” che sapeva a malapena leggere e scrivere, ma insignita di lauree honoris causa in mezzo mondo e di attestati di benemerenza firmati, tra gli altri, da Giulio Andreotti) venivano messi al muro e fucilati senza tante storie. Era il giorno di Natale del 1989.

Erano i giorni in cui il Muro era caduto da poco più di un mese. I giorni in cui si sgretolava il Comunismo. Era tutta una serie di Domeniche delle salme, una dietro l'altra, regolari, periodiche. I giorni in cui il mondo libero esultava per la fine della Cortina di Ferro, in cui intere nazioni rimaste tagliate fuori tornavano in Europa. Tutti si sentivano Europei, in quei giorni di calcinacci, di sangue o di velluti, di Trabant, di libertà ch'è sì cara, di popoli interi che invadevano i supermercati e i sexy shop. Ancora dovevano arrivare le guerre jugoslave. Ancora dovevano arrivare i nazisti a fare dell'ex DDR la loro roccaforte. Ancora, soprattutto, dovevano arrivare le ondate di immigrati; ché il barbaro comunismo la aveva tenuta a freno, quella gente. Con le buone o con le cattive, e soprattutto con le cattive. Erano i giorni del trionfo di Ronald Reagan, di Helmut Kohl, di papa Wojtyła.

Erano i giorni in cui c'erano state troppe rivoluzioni pacifiche, in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Polonia. Ci voleva una bella rivoluzione sul serio, bella sanguinosa, e la Romania del Dracula antico e di quello moderno la offriva su un piatto d'argento, anche a costo di bufale giornalistiche clamorose come quella delle fosse comuni di Timişoara. Televisioni dappertutto. Televiziunea Românǎ Liberǎ. L'arresto in diretta dell'odiato figlio del tiranno. La Securitate e il generale Militaru. L'elicottero che fuggiva. La folla che invadeva le strade, il conteggio dei morti, gli inviati speciali, lo stillicidio delle frontiere chiuse o aperte. Era dal 1956 che mancava una bella, grassa cosa del genere; un paese “socialista” che si sbarazzava del socialismo, e stavolta senza nessun “aiuto fraterno” da parte sovietica. Occhi che brillavano, mani che si fregavano.

Erano i giorni in cui i giornali italiani, tra cui La Nazione, laico e mazziniano, sparavano prime pagine con titoli a caratteri cubitali; le pagine interne dedicate all'avvenimento, anche cinque o sei per numero, recavano il “logo” della bandiera col buco, alfine sforbiciata dall'odiato stemma comunista (quello rumeno era composto dall'immancabile stella rossa, dal profilo di una foresta e da due pozzi di petrolio); consuetudine inaugurata con la rivolta ungherese del 1956. Un profluvio di bandiere rumene col buco. Nel frattempo, alcuni soldati rivoltosi penetrati nell'enorme palazzo del tiranno trovavano in uno sgabuzzino, abbandonata in mezzo agli escrementi, la madre centenaria della moglie del dittatore. Gli articoli della Nazione erano un inno alla fratellanza e alla solidarietà: aiutiamo la Romania! Numeri di conto corrente, vaglia postali, foto di bambini smunti e spauriti, e cronache, cronache, cronache. Le rubriche della posta dei lettori rigurgitavano anticomunismo, sconfitto dal valore del popolo oppresso; poi si venne a sapere che era stata tutta una riuscita congiura di palazzo, e che il nuovo ducetto della Romania, tale Iliescu, era stato pappa e ciccia col tiranno fino a pochi anni prima, per poi cadere in disgrazia ed essere messo da parte (e gli era andata anche bene, a non essere spedito di malagrazia tra i più).

Erano i giorni in cui il giovine segretario di un partito di destra, che ancora non aveva passato le acque termali, dalle colonne del Secolo d'Italia esaltava il “valoroso popolo rumeno, fratello latino di lingua e di sangue” che finalmente si risvegliava -come dice il suo inno nazionale, fino ad allora proibitissimo-. Erano i giorni in cui tutti, persino gli ex comunisti che si avviavano a cambiare nome, volevano infilare la testa in quel buco nella bandiera. Erano i giorni in cui, in questo paese “fratello di lingua e di sangue”, tutti erano rumeni, rumenissimi, rumenanti.

Erano giorni di gran lavoro anche per il sottoscritto, che aveva avuto la ventura di imparare la lingua rumena molti anni prima, quasi per gioco. A quei tempi lavoravo per la Confederazione delle Misericordie come interprete e traduttore; arrivavano aeroplanate intere di bambini dalla Romania, bambini che venivano accolti in Italia come eroi, smagriti, dagli occhi grandi e dalle teste grosse. Li mandavano a curare nei modernissimi ed efficientissimi ospedali italiani, negli ospedali del mondo libero, a respirare finalmente cosa significa la libertà. Chissà quanti di quei bambini ce li ritroviamo, adesso, sotto qualche cavalcavia, in qualche baracca, a lavorare nei cantieri, a crepare da un'impalcatura, ad essere bruciati dal datore di lavoro Iannece Cosimo, a servire con un crimine per una bella campagna elettorale e per i relativi pogrom legalizzati e ben supportati, magari proprio dallo stesso giornale che ci aveva le pagine con la bandiera bucata.

Ché mi ricordo di un mio intervento all'aeroporto di Pisa, trentacinque ambulanze mandate a prendere quei bambini per distribuirle negli ospedali toscani, con generi di conforto, giocattoli, festoni e viva la libertà, trăiască libertatea in rumeno. Mi ricordo di tutte queste cose che seguivo, anch'io, trepidante. L'avere bene o male imparato la sua lingua, fin da ragazzino, mi aveva messo in un particolare stato d'animo nei confronti della Romania; ci avevo ventitré anni, ci avevo. Contemporaneamente a quel bislacco lavoro stavo svolgendo anche il servizio civile, sempre su ambulanze, sempre a strascinare feriti e malati. E ancora lo faccio, come ancora mi ritrovo a dire, e a dirmi, trăiască libertatea.

Quelli che allora inneggiavano, invece, oggi sono tutti rivolti alla sicurezza e al controllo dell'immigrazione clandestina, ad esempio contro quei maledetti rumeni che della libertate hanno approfittato un po' troppo. Ad esempio venendo in massa dalle nostre parti, bambini compresi, ma senza aeroplani, senza generi di conforto, senza giocattoli. Quei maledetti rumeni che stuprano, ché del resto altro non sanno fare perché discendono direttamente da Dracula ed è un miracolo se le donne italiane, oltre a stuprarle, non le vampirizzino pure. Quei maledetti rumeni che sono diventati tutti zingari (ed offesa peggiore per un rumeno non può esservi, visto l'odio autentico che in buona parte provano per i Rom). Quei maledetti rumeni che almeno Ceauşescu li teneva a casina loro, e che non venivano a rubare, a togliere il lavoro, a violentare, ad ammazzare. Quelle maledette rumene tutte puttane e badanti, e a volte anche badanti puttane. Niente più buchi nelle bandiere; il buco, ora, piuttosto andrebbe fatto nella testa dei rumeni. Nella testa di quel valoroso popolo, fratello latino di lingua e di sangue. Altro che fratello, altro che latino. Degli zingari balcanici. Non si sente più nemmeno in giro la storiella cretina dei romagnoli e dei rumeni che si capirebbero, ché una volta -a presa per il culo- ho detto due semplici frasette in rumeno a un romagnolo e non ci ha capito, come è ovvio, un cazzo.

Erano giorni in cui si facevano le prove generali dell'ipocrisia e della carogneria italiana. I risultati, quelli veri, si vedono nella fotografia. Accompagnata dalla “croce celtica”. Chissà se a quei signori tutti Irlanda, hobbit e William Butler Yeats sarebbero piaciuti così tanto, i celti, se fossero emigrati in massa in Italia ai tempi della carestia delle patate. Magari avrebbero scritto “Celti puzzate”.


Caterina e il decoro


Uno dei principali difetti in assoluto dei bambini, forse il principale in assoluto, è quello di diventare grandi.

Ne farò un esempio pratico, in questi giorni di consuete stragi (di bambini, in discreta parte), di drammi pallonari (l'Inter che perde “a Atalanta”, come disse tempo fa un calciatore mediamente famoso durante un'intervista), di intercettazioni a base di kalashnikov, sangue e canzonette melense, di presidenti napolitani e di tutto il normalmente disgraziatissimo resto.

Sono sicuramente e biologicamente stati bambini i funzionari e gli agenti della Polizia Municipale fiorentina che, giorni fa, hanno avuto una pensata straordinaria.

Dovete sapere che in questi tempi si è aggiunta una nuova parola al lessico delle idiozie del “XXI secolo”. Non paghi della tolleranza zero e di altre parole e espressioni create e veicolate da tutto quel miscuglio di egregi pensatori preposti al trattamento del volgo, hanno rispolverato un antico termine che tutti credevano oramai sepolto nelle polverose soffitte del vocabolario: il decoro.

Per quella strana proprietà che hanno tali termini, ovvero quella di stare sempre nelle bocche e nelle penne di chi porta in sé il loro esatto contrario, tale parola è chiaramente usata a dismisura dagli esseri più orrendamente indecorosi con cui dobbiamo avere a che fare; ad esempio, la si ritrova spesso nell'oramai famosa Guida alla civile convivenza fatta preparare dall'assessore fiorentino Graziano Cioni, quella dei lavavetri, dei mendicanti sdraiati, del divieto di stendere i panni fuori dalle finestre eccetera. Quel che poi sia accaduto dopo al Cioni, è risaputo, come dovrebbe essere risaputo quali siano i metodi e i fini delle consorterie politico-affaristiche che governano qualsiasi città, qualsiasi ente, qualsiasi stato.

Sempre a Firenze, oramai da molti anni, esiste una specie di “istituzione”. Un taxi. Un'automobile di marca Chrysler che la titolare e proprietaria, la tassista Caterina, ha trasformato in un fantasmagorico e allegro carrozzone da circo, e sul quale si guadagna il pane. Vestita come una specie di fata delle fiabe e con un cappellone multicolore, porta a giro la gente sul suo “Milano 25” in mezzo a decalcomanie, pupazzetti, scope da strega, bambolotti, e chi più ne ha, più ne metta. Lo fa da quando il marito, pure tassista, è morto all'età di 39 anni per una brutta malattia. Ci ha, su “Milano 25”, il logo della fondazione Tommasino Bacciotti, intitolata a un bambino di pochi anni morto qualche tempo fa per una malattia altrettanto brutta, e che si propone di raccogliere fondi per cercare di combatterla. Fa, col suo taxi, l' "ambasciatrice dei bambini", e ci viaggia pure per mezzo mondo; e ha pure un suo sito internet.

Caterina ha sempre un bel sorriso, trasporta a gratis i bambini (e i loro genitori) che si recano all'ospedale pediatrico Meyer, a volte -come tutti gli automobilisti- fa qualche manovra azzardata (la sera di venerdì scorso mi ha tagliato la strada in piazza della Stazione, beccandosi una doverosa strombazzata di claxon), porta su un cartello a forma di cuore scritto in tutte le lingue, cerca di sensibilizzare la gente nei confronti di cose verso le quali, di solito, si volta la testa da un'altra parte, si farà con questo -perché no- anche un po' di pubblicità ed è qualcosa che non ho mai visto in nessun'altra città, perlomeno italiana. Soprattutto, è una persona che, con il suo taxi addobbato in quel modo, non solo non fa del male a nessuno, ma, anzi, cerca come può di fare del bene. Non è che la normale attività lavorativa che svolge sia ostacolata dai pupazzetti, dalle decalcomanie e dalla fondazione Tommasino Bacciotti. Non è che l'automobile Chrysler sia da questo impedita nella regolare circolazione, includendo in questa anche qualche manovra a cazzo di cane (che tutti gli automobilisti fanno). Così è andata per anni e anni, e sfido qualsiasi fiorentino, che anche non abbia mai preso un taxi in vita sua, a dirmi che, vedendola passare, non abbia perlomeno sfoderato un sorriso. Ché anche questa non sarebbe una cosa da sottovalutare, in questi tempi di facce sempre più torve.

Ma Caterina, nei giorni scorsi, è incappata nel decoro.

Qualche funzionario o agente della Polizia Municipale, quella cosa che ancora molti si ostinano a chiamare Vigili Urbani, e quella cosa che l'assessore Cioni manda a sdecoreggiare il lavavetri, il mendicante, la massaia che stende i panni e tutto il resto in nome della civile convivenza dell'opuscoletto pagato dall'amichetto palazzinaro di turno, si dev'essere accorto dopo un secolo che per le strade di Firenze circolava quel bizzarro taxi.

Ha quindi preso il suo regolamento, ché ogni imbecille ha sempre un qualche regolamento alla mano, e ha multato la Caterina perché il suo taxi “non rispondeva ai criteri di decoro propri di un mezzo adibito a pubblico servizio”. Non solo: se voleva continuare la sua attività, oltre a pagare la multa (non ricordo se di 108 o 158 euro, qualcosa del genere), la Caterina doveva rimuovere ogni cosa dal suo taxi. Così ha dovuto fare: ha pagato la multa e ha sbiancato la Chrysler. D'ora in poi, per Firenze, niente più “Milano 25” tutta istoriata, niente più cappelloni multicolori, scope da strega e fondazioni Tommasino; niente più sorrisi al passaggio. Il regolamento di Pi Emme desidera il decoro. In modo del tutto stupido e indecoroso, come sempre. In modo da eliminare ogni traccia di fantasia, che in questo caso è coniugata probabilmente anche con una certa quantità di bontà. In modo da ricondurre tutto al grigio, anche se in questo caso è il bianco dei taxi fiorentini. Madonna, che termini sto usando: fantasia, bontà. Sono questi i termini, oramai, veramente desueti. Al contrario del decoro di lorsignori e dei loro indecorosi, incivili regolamenti. Ché bisognerebbe spiegar loro, una buona volta, che cosa veramente significhi civiltà. Ai suoi tempi, questi qui avrebbero multato anche Michelangelo Buonarroti se lo avessero sorpreso a graffitare su un muro.

Chiaramente, nessuno muove un dito quando vede passare, che so io, gli autobus urbani ricoperti su ogni millimetro quadrato di pubblicità di ogni tipo; da tempo non si monta più sul 14, sul 27 o sul 96, ma sul Figurella, sullo yogurt Vitasnella, sul carne Simmenthal. Monto sul 32 e vengo inghiottito dalle fauci di Reinhold Messner e dall'acqua Levissima (purissima, carissima, multinazionalissima nestlissima). All'interno, cartelli in tutte le lingue dichiarano che la violenza sulle donne è sempre un crimine mentre un vecchietto bavoso urla sproloqui contro una ragazza: “Ci credo che vi violentano se andate vestite così!”. Ecco il nostro tempo, questo nostro decoroso tempo. Il tempo che non tollera nemmeno un taxi pitturato. Tolleranza zero, appunto. La tolleranza zero dei decoroni.

venerdì 9 gennaio 2009

Bruciamole tutte!



Sulla mia giacca, e ne ho una sola (comprata tempo fa al mercato di Porta Portese, a Roma), porto tre spille sul bavero sinistro. La prima sono delle "cholitas", un amuleto messicano che augura felicità in amore. La terza è una spilla da partigiano, ché è una mia passionaccia per quei ragazzi di ottanta o novant'anni che moriranno fra poco e che porteranno con sé una gioventù oltre il ponte; e oltre il ponte c'è stata, spesso, la derisione, c'è stato spesso il sussiego di tanti. La seconda è una bandiera, quella basca, la "Ikurriña". Proprio io che detesto le bandiere, ne porto una addosso. Così per ricordarmi tra quali incongruenze campo, e ci campo da sempre. Lo dico per onestà, prima che gli zero virgola cinque frequentatori di questo blog leggano quanto segue.


Sabato, sabato prossimo, vado a una manifestazione per la Palestina, a Firenze. Sarà, probabilmente, un gelido pomerggio di gennaio mentre a Gaza, sotto un sole ben più caldo, si muore. Si muore bambini, donne e adulti; si muore e di sogni non ce ne sono più. Lo ha deciso uno stato che chiamano d'Israele, che nel suo nome ha quello di Dio; ma di quel Dio, che i suoi fedeli nemmeno osano nominare e che scrivono coi tetragrammi misteriosi e col trattino, “D-o”, non c'è la minima traccia. Se ne dev'essere andato altrove, fors'anche, e opportunamente, affanculo.

Io non so se queste manifestazioni, a Firenze come altrove, “servano”. Ma non è nemmeno il caso di chiederselo, a meno di non voler fare come diversi buffi snob che sdegnano di professione, e che se ne restano a casa a gingillarsi e sdilinquirsi in avvitamenti mentali che li accompagneranno ad una vecchiaia cretinamente protesa ad una gioventù su cui sputano senza nemmeno rendersene conto. Ci vado e basta perché le grida sono molecole di suono che picchiano, e che a volte hanno picchiato tanto da arrovesciare il globo.

Ho letto ieri, su un giornale di regime, che una persona che stimo molto ha detto delle cose a proposito di certi atti che avvengono durante le manifestazioni per il popolo palestinese. Questa persona si chiama Moni Ovadia, ed è una persona verso la quale ho considerazione e ammirazione. La scorsa estate è venuto a fare uno spettacolo all'Isola d'Elba, a Portoferraio, a pochi metri dalla “Torre della Linguella” dove fu rinchiuso e lasciato impazzire in condizioni disumane l'anarchico Passannante, per aver fatto una scalfittura a un re.

Durante queste manifestazioni, alcuni bruciano la bandiera d'Israele. Moni Ovadia, che pure non può essere accusato di simpatie sioniste nonostante sia di religione israelita, ha dichiarato che sarebbe “sbagliato”. Che “bruciare una bandiera è come bruciare un popolo”, e che non si dovrebbe fare di tutta l'erba un fascio. Che sarebbe meglio manifestare la propria opposizione “col silenzio”.

Silenzio. Appunto. A tutti quanti capita di perdere un'occasione per fare silenzio, a te come a me. Stavolta, a mio parere, è capitato a Moni Ovadia. Senza perdere un milligrammo della stima che gli porto, dico che avrebbe fatto meglio a stare zitto, e a non dire questa castroneria che puzza lontano un miglio della voglia di non irritare ulteriormente certi suoi “correligionari” che già gli hanno riservato parole oltremodo schifose.

E allora vorrei rispondere, qui da questo luogo silenzioso, allegramente e volutamente dimenticato, a Moni Ovadia e a chiunque sbandiera bandiere.

Bruciamole tutte, le bandiere. Quella d'Israele e anche quella della Palestina. Bruciamo quella italiana, quella americana, quella svizzera, quella di San Marino, dell'Indonesia, delle Vanuatu, del Milan, della Fiorentina, della Ferrari, della Microsoft e della Polisportiva San Terenzio di Valmontone. Tutte. Bruciamo la bandiera rossa e, anarchicamente assai, pure quella dell'Anarchia.

Bruciamo questi simboli schifosi, che non rappresentano nessun “popolo”. Bruciamo le “nazioni” e bruciamo gli Stati. Bruciare una bandiera è salvare un popolo. Bruciamo l'idea che un “popolo” possa essere rappresentato da entità che producono solo repressione e oppressione. Uno “stato palestinese” non sarebbe diverso da uno “stato di Israele”. Le cosiddette “sinistre radicali” che propugnano i “due popoli e i due stati” hanno di radicale soltanto la loro infinita imbecillità. Ci andrò, sì, alla manifestazione, a gridare che uno stato canaglia ammazza i bambini col suo esercito enorme, davanti all'impotenza del mondo che lo lascia fare perché così vuole la logica del potere. Ma non prenderò in mano nessuna bandiera, perché nella mia testa le ho già bruciate tutte, e da tempo.

Che in Palestina, come ovunque, possano vivere liberamente tutti quanti, liberi di parlare la propria lingua, di credere nel proprio dio se così vogliono, oppure di non credere in nessuno, in nessun profeta, in nessuna collezione di infamie che va sotto il nome di “sacra scrittura”. Vivano in pace, in fratellanza, senza stati e senza bandiere. Vivano come gli ulivi di quella terra, che danno i propri frutti senza chiedere niente a nessuno. Vivano senza muri e senza armi. Vivano e basta. E' così difficile?

Abbattano i caporioni che giocherellano con le loro vite, coi loro destini. Taglino le sozze barbe lendinose ai loro preti vegliardi, decidano una volta per tutte per la realizzazione dell'utopia, che poi sarebbe una cosa elementarmente semplice, una volta individuato che il vero nemico è la gabbia di separazione e di odio che il potere ha voluto inculcare nelle loro menti. Facciano tabula rasa delle “terre promesse”, ché le promesse degli dèi falsi e bugiardi hanno sapore di veleno. Cessino di invocare le “tradizioni”, ché le vere tradizioni sono quelle della terra di tutti, e non quelle di idiozie miracolistiche e soprannaturali che hanno meno consistenza delle favole con le fate. Una fata, specialmente se ti salva con una mano da una morte per carrarmato, è molto più vera di un dio i cui simboli compaiono, come dubitarne, regolarmente su quei maledetti pezzacci di stoffa detti bandiere.

Nessuno “Stato”, ma tutta la terra. In Palestina come altrove. In quella terra la cui vera promessa è la sua mescolanza, la sua variopintezza, e non stelle e mezzelune, non sacri scarabocchi che nascondono la morte violenta e prematura, non falsi “diritti ad esistere” che si risolvono immancabilmente nell'inesistenza per tutti, e specialmente per i più deboli, per gli indifesi. Via tutte le bandiere, via gli “ismi”, i sionismi, i fondamentalismi, i “Dio ce l'ha data”, ché il vostro Dio, comunque lo chiamiate, nient'altro è che un generale, e ché dirlo in arabo, in ebraico o in qualsiasi altra lingua sempre suona, disperatamente, come “Gott mit uns”.


mercoledì 7 gennaio 2009

...I tam pravijo o fojbah (E poi dicono delle foibe)



I ragazzotti nella fotografia, che sembra facciano parte di "Azione Giovani" di Piacenza, dicono di non "scordare"; ci sarebbe da chiedersi che cosa vogliano ricordare, dato che si tratta in generale di diciotto-ventenni tutti bellini che, probabilmente, non si ricordano nemmeno se hanno spento o meno la playstation e che proprio non vediamo a fare né i martiri" né gli "esuli", nemmeno da un'aiuola di un giardinetto pubblico. Vorremmo con questa cosa aiutarli a ricordare anche qualche altra cosuccia, che magari ignorano.

Ho in casa un discreto numero di libriccini, diciamo, piuttosto singolari. Tra di essi una rara “Grammatica teorico-pratica della lingua Slovena” ad opera del Dott. Prof. Bruno Guyon, edita da Hoepli nel 1916. Si tratta, invero, di un'opera di dimensioni ridotte, ma assai ben fatta e completa; peccato che non sia stata ristampata neppure nei “Reprint degli antichi Manuali Hoepli”, che la casa editrice Cisalpino-La Goliardica ebbe a pubblicare negli anni '70 e '80. Come tutte le opere di tal genere, la “Grammatica teorico-pratica della lingua Slovena” del dott. Guyon contiene una sezione dedicata agli immancabili “Dialoghi comuni” ad uso de' turisti (anzi, come si diceva allora: de' viaggiatori); vi sono i soliti treni, i consueti alberghi, le scenette di “vita quotidiana” e tutto il resto. Quel che però contraddistingue i “dialoghi comuni” di questo libriccino è il frangente storico in cui esso fu pubblicato: si era in piena Grande Guerra, e già nella prefazione l'autore avverte senza remore che “lo studio della lingua Slovena si dimostrerà particolarmente utile, poi che i popoli sloveni sottomessi entreranno presto a far parte della storica grande Madre Patria latina” (Prefazione, pag. 8). Et voilà; in effetti, Caporetto si chiamava (e si chiama tuttora), in realtà, Kobarid, località slovena in cui la Grande Madre Patria latina ebbe qualche problemuccio. Ma quel che più ci interessa è vedere, anzi toccare con mano, quali fossero i “dialoghi comuni” proposti dal dott. prof. Bruno Guyon nella sua utilissima grammatica, e che ci dicono molte, molte cose su quel che sarebbe poi accaduto e sui rapporti puramente linguistici tra italiani e sloveni. Siate preparati, specialmente se avete in mente analoghi dialoghi di opere contemporanee, tipo: “Mamma, ma che cazzo fanno quei signori e quelle signorine con gli scatoloni fuori dalla Lehman Brothers?” (Mom, tell me, what the heck are those gentlemen and young ladies doing with their boxes outside Lehman Brothers?”). La trascrizione dei dialoghi comuni parte da pagina 228 dell'opera originale; viene dato sia il testo italiano che la traduzione slovena.


“Quando gli esami saranno finiti, il locale delle scuole sarà libero per alloggiare le truppe”.
Kadar izpiti bojo zvršeni, šolski hram bo svoboden za nastanitev vojnikov.

“Non ti sembra una persona sospetta? Quello sloveno là mi sembra una spia, un ladro, un omicida. Non è un contrabbandiere.”
Ne zdi se ti ona oseba sumljiva? Tista Slovenec tam zdi se mi da je vohun, da je tat, da krade; da je ubivalec. Nije kontrabantar.

“Non è possibile che costui abbia ucciso quella sentinella?”
Nije mogoče da je ubil ta onega stražarja?

“Noi lo dobbiamo fermare, interrogare, arrestare, ammanettare perché non fugga, condurlo in prigione. Hanno condannato l'accusato in contumacia alla fucilazione.”
Mi ga moramo ustaviti, izprašati, zapreti, vkleniti da ne uide, ga gnati v zapor. Obsodili so zatoženca iz kontumacije da ga vstrele.

“Dicono che il governo austriaco e certi preti, austriacanti fanatici, sono i protettori e aiutano questi vagabondi.”
Pravijo da austrijanska vlada i neki duhovniki, fanatični austrijanci, so pokrovitelji i podpirajo te potepuhe.

“Siete accusato di aver rubato un portafoglio, un orologio. Siete accusato di omicidio; che avete ucciso, che avete trafitto con un coltello, con un pugnale; che avete sparato stando in agguato col revolver, come gli assassini che assaltano il viandante stando in agguato.”
Obdolžen ste da ste ukral listnico, uro. Obdolžen ste umora; da ste ubil, da ste z nozem, s bodalom prebodel; da ste s mokresom streljal iz zasede, kakor razbojniki koji potnika napadejo iz zasede.

“I vostri compagni sono bestie vigliacche sanguinarie degni di essere impiccati. Non sono degni di stare sulla terra.”
Vaši tovariši so plaha zver krvoželjena i so vredni da bili obeseni. Niso vredni da ih zemlja nosi.

“Nella campagna, gli sloveni austriacanti hanno devastato tutti i prodotti e hanno rubato il bestiame. Hanno incendiato i casali, le capanne, i fienili e le vacche; e i buoi che erano attaccati alla greppia, così sono periti miseramente.”
Na polju so so austrijanci Slovenci pogonobili vse proizvode, i so pokrali zivino. So nažgali raztresene hiša, kolibe, bajte, senike; i krave i volovi koji so bili pripeti za jasla tako so poginili revno.

“Dobbiamo perquisirvi. Svestitevi, sbrigatevi, andiamo, avanti!”
Moramo vas preiskovati. Slecite se, požurite se, pojdimo, naprej!

“Voi siete accusato di avere disertato.”
Obdolžen ste da ste pobegnili.

“Il comunicato della sera dice che aeronauti italiani hanno attaccato la città di Lubiana, e che vi hanno gettato 50 bombe.”
Večernje oznanovanje pravi da taljanski vazduhoplavci so napadali mesto Ljubljano, i da so tam vrhli 50 bomb.