Qualche mese fa, una delle prime domeniche di caldo veramente estivo, io e la mia compagna abbiamo deciso di fare una cosa elementare per passare il pomeriggio. Una passeggiata. Mettere un piede dopo l'altro e camminare. Dove andare? Ci siamo ricordati di abitare a mezzo passo da un fiume, nel tratto in cui comincia a uscire dalla città.
In realtà quel fiume, passando per plaghe altamente urbanizzate, non esce praticamente mai dalla città, fino alla sua foce; anzi, poco prima di essa passa per un'altra città conclamata e dal gran passato, discretamente grande. Però Firenze, come tutte le città d'arte, pare limitata al centro storico; prima e dopo, il suo fiume non attraversa niente. Terre di nessuno. Un fluire senza importanza, tranne quando viene gonfiato a monte col pericolo di qualche inondazione. Un corso anonimo, in funzione dei brevi tratti di città storica che attraversa. La bilancia è squilibrata: su un piatto dei campi, o delle fabbriche; sull'altro il Cristo di Cimabue.
Così abbiamo preso a costeggiare il fiume, in direzione opposta a quella della città. Pensate che non c'ero mai stato. Di fronte al parco delle Cascine, che pian piano s'istrettisce nella punta finale alla confluenza col Mugnone (là dove c'è il tempietto del Maragià indiano venuto a morire a Firenze nel 1870). Una strada che ha il nome dell'intero quartiere, tra campi dove ci s'allena a giocare a golf, giardini pubblici, orti sociali e vecchie cascine dove, nella storica città, qualcuno tiene ancora le galline ruspanti pubblicizzando le “ova fresche” con un cartello scritto col pennello e la vernice.
Di fianco al fiume che se ne va, che torna anonimo, irrilevante. Ha terminato già, in quel punto, la sua funzione d'attraversatore delle meraviglie artistiche. E' già stato passato dai ponti monumentali; ora ha solo ponti di servizio, viadotti, passerelle senza storia. Lo seguiamo senza quasi parlare, verde degli alberi sulle entrambe le sponde, pacioso e quasi libero dal peso della gran città famosa. Può tornare alle sue rive fangose, alle sue golene, a ricevere altri fiumi, rii e torrenti in punti dimenticati, dove non verrebbe a farsi bruciare nemmeno un ragioniere di Bombay.
S'arriva al viadotto. Fino a quel punto, c'è tanta gente che passeggia. Famiglie coi bambini, una congrega di pensionati che si sono piazzati con le seggiole pieghevoli in uno spiazzo, coppiette in amore, sudatissimi tizi in sella a biciclette e con attrezzature che Eddy Merckx se le sarebbe sognate. Tutto il mondo della passeggiata domenicale, e ci abbiamo poco da fare gli snob, io e la Daniela: siamo tra di loro. A fare anche noi una passeggiata in una caldissima domenica pomeriggio. Fino al viadotto, appunto.
Al viadotto finisce tutto. La strada è sbarrata con delle transenne fisse. C'è una comoda via d'uscita, una nuova e larga strada pedonale che porta agli orti e a dei bei giardini pubblici, per chi non vuol rifare lo stesso cammino all'indietro. C'è persino il sottoviadotto, per chi vuole andare dall'altra parte, nel grande parco. C'è ogni cosa. Finisce la città, quella dei nonni, dei pensionati, dei bambini, delle coppiette e dei ciclisti superbardati. E, va da sé, finisce anche il fiume; come se si inabissasse in una voragine, tipo quella che inghiotte il denaro di Paperone nella storia del Ventino Fatale.
C'è qualcosa che non torna, però. Il fiume, caspita, sembra proseguire oltre il viadotto. E anche la strada, dopo la transenna di chiusura. Che storia è questa? Come mai, più in là, non si vede più nessuno? Decidiamo, sì, di esplorare. C'è chi va a esplorare le contrade più lontane del pianeta, e chi persino gli spazi cosmici; noi, che siamo un traduttore da lingue bislacche e una sistemista informatica, esploriamo a meno di due chilometri da casa. Avevamo vent'anni oltre il ponte...
Eccoci dall'altra parte. Cinquanta metri più in là. Si sentono ancora le voci della gente, ma cominciano piano a perdersi; come aver valicato una soglia spazio-temporale, di quelle dei libroni di fantascienza. E siamo davvero, all'improvviso, in un altro mondo. La strada è mal tenuta, l'asfalto si sgretola fino a diventare sterrato, ci sono da una parte dei terrains vagues e, dall'altra, il fiume che continua a scorrere. Dopo duecento metri, il silenzio totale; una vecchia casa colonica mezza diroccata segna un bivio con un'altra strada che sembra venire anch'essa dal nulla, ma due vecchie targhe stradali sbocconcellate ci dicono che siamo ancora nel territorio della città. Ci siamo, e non ci siamo più. La città ha le sue contrade ignote, dove i suoi rumori rassicuranti si perdono e ne cominciano altri, insoliti. Una musica.
Si fa sempre più alta man mano che si cammina; e non è una musica consueta per i nostri orecchi. E' musica di paesi non vicini, con quel suo attorcigliarsi attorno a un ritmo quasi a riprodurre un grido senza fine, d'allegria o di tristezza, di rabbia o di quiete, di viaggio e di stasi. Capiamo all'improvviso perché oltre il viadotto non va più nessuno; si va in mezzo ai nemici dell'umanità. A quelli che rubano, a quelli che rapiscono i bambini. Si va, insomma, diritti in un campo nomadi. La musica diventa quasi assordante, e non si capisce esattamente da dove provenga. Di che terrorizzare qualsiasi nonna col nipotino. Di che scoraggiare qualsiasi coppietta di fidanzati. Noi, invece, tiremm innanz.
È una musica strana, ripetitiva, persino dissonante. Non appartiene ai nostri canoni. La trovo monotona e sgradevole, mentre il caldo umido si fa insopportabile e i piedi cominciano a dolere per la mia bella prodezza d'essere uscito con le scarpe da ginnastica senza calzini. Eppure fa apparire all'improvviso chiare molte cose; si va avanti per la strada che oramai s'è persa chissà dove, in riva al fiume, e il campo è racchiuso tra alte reti. L'ingresso è aperto; ne esce un automezzo, un pick-up col cassone stracolmo di gente. Ragazzi giovanissimi, per lo più; e un cane. Abbaia. Ci viene spontaneo di fare un saluto, una cosa normale quando ci passano davanti; ci rispondono vociando e vanno per la loro strada.
Il campo e il muro. Non c'è, apparentemente, alcun muro fisico nonostante le reti. Il muro, quello vero, è differente. Non è neppure di gomma, come si dice in un'espressione alla moda. È il muro che abbiamo dentro. Invalicabile. La cosa principale che mi appare chiarissima è che, volendo, nulla mi avrebbe impedito di continuare la passeggiata entrando dentro al campo. La porta è aperta. Eppure tiriamo avanti; non mi passa neppure per l'anticamera del cervello di varcare quella soglia. Ci sono, dentro, esseri umani. Potrei avere con loro normali relazioni umane. Potrei avere degli amici e dei nemici. Potrei avere delle persone che mi stanno del tutto indifferenti, e cui sto altrettanto indifferente. In generale tutte le persone là dentro parlano la mia lingua, e se del caso potrei cavarmela con qualche lingua delle loro. Poco prima ci siamo salutati, fra perfetti sconosciuti. Non ci vorrebbe molto; ma è stato eretto un muro. Un muro invisibile. I suoi effetti si vedono all'improvviso, mentre la musica continua e continua, incessante, confondendosi con il caldo.
E, allora, nulla esiste più. Non esiste più il grande cantautore che fa la commovente ed acclamata canzone sugli zingari. Non esistono più gli impegni, le parole spese, il sentirsi in un certo modo che uno si è costruito giorno dopo giorno. Alla prova dei fatti, capitato una domenica qualsiasi, casualmente, davanti a quel luogo, tiro avanti; senza nemmeno pensarci un attimo. Anzi, quasi fiero d'avere fatto il beau geste del saluto ricambiato, che può bastare. Ci siamo spinti fino al limite consentito dal muro, e la musica comincia a sembrare una specie d'incantagione del serpente, di canto delle sirene. Ma qui non c'è nessun Ulisse e non si va a Itaca. Si va a Ugnano per una strada quasi dimenticata. E si passa davanti a un mondo separato, chiuso.
Entrare, poi. Cominciano le autodifese giustificative, nella propria testa, mentre si cammina e si passa oltre. La musica comincia a affievolirsi, ed è strano come scompaia del tutto in pochi metri, come se il muro fosse anche una barriera acustica. Due perfetti sconosciuti; e gli sconosciuti, dicono, là dentro non sono ben visti. Si potrebbe essere scambiati per due sbirri, o per chissà chi altro. Questo si pensa, e ci si convince anche. E poi, in fondo, a che servirebbe entrare; servirebbe soltanto a dire: “Avete visto come siamo bravi, noi lo abbiamo fatto senza problemi, non ci hanno rubato un bel nulla e anzi ci hanno anche offerto il raki.” Un modo per pavoneggiarsi e per dare addosso ad altri; ad altri che, però, vivono dalla stessa parte tua. Sarebbe bene che nessuno se lo scordasse, questo. Neppure le anime più sinceramente belle. E si capisce all'improvviso che la famosa integrazione è un'idiozia e basta. Se i muri, e se quel muro che tutti abbiamo dentro, non esistesse, non ci sarebbe nessun bisogno di integrazione. Ci sarebbe solo il vivere come aggrada, e di considerare le singole persone come sono, senza né razzismi, né idealismi collettivi del tutto inutili. Ma quel muro c'è. Lo abbiamo fabbricato tutti quanti. Noi e loro. Nessuno è innocente. Ci siamo costruiti muri e paure reciproche, e alla prima banalissima prova tutto va al suo posto.
Mi viene in mente che proprio in quel posto, tanti anni prima, passando da un'altro lato, ci ero entrato. È proprio quello. Addirittura a notte. Ma assieme ad una persona che vi era ben conosciuta. Mi sentivo al sicuro. Se ero in compagnia di quella persona, ero automaticamente un “amico”. Partecipai, invitato, ad una loro festa. Poi tutto quanto andò come al solito: sentirsi orgoglioso di quell'atto, persino vantarsene, utilizzarlo. Come fossi stato un coraggioso esploratore nella terra dei selvaggi; e il mito del buon selvaggio fa parte della nostra cultura. Ecco, ora sono di nuovo davanti a quel posto, ma senza persone conosciute a fare da scudo. E non ci entro.
Del resto, il paesaggio presenta così tante attrattive, con l'incentivo dell' “a due passi da casa”. Ci sono inoltre altre emergenze: ad esempio, non ci siamo portati una bottiglia d'acqua e si comincia ad avere una sete tremenda. Un tizio innaffia l'orto con un tubo da cui butta un rocchio d'acqua enorme; ma, ci dice, è acqua presa direttamente dall'Arno. A berla verrebbe il tifo. Ora è tutto sterrato e le scarpe da ginnastica, a contatto con il nòcciolo del calcagno, mi hanno già fatto venire un paio di galle dolorosissime. Passa della gente a cavallo e l'acqua del fiume fa la spada del sole. Dove la strada è oramai diventata un sentiero tra gli alberi, un'ultima casa, sperduta. Doveva essere un rudere: ora è intonacata, grezzamente ma con cura, bianchissima fin dove son potute arrivare delle impalcature di fortuna. Si vede la mano di uomo solo che l'ha rimessa in sesto, sudando. Ci sono, fuori, dei giocattoli. Ci dev'essere una famiglia. Da una finestra si vedono delle pentole appese alla parete. C'è un nome arabo sul campanello. Più oltre, solo recinti di lamiera dietro ai quali si sentono cani che abbaiano; e non paiono per nulla docili. Per un momento, uno solo, mi appare in testa la faccia spigolosa di Pier Paolo Pasolini.
Non importa dire com'è finita questa passeggiata nell'altro mondo dietro casa. È finita, naturalmente, prima o poi tornando nel nostro mondo. È finita dicendomi: la racconterò. Figuriamoci se mi fo scappare un'occasione del genere, l'Ekbloggethi Seauton esige il suo tributo. Però è successa una cosa strana. Di solito io scrivo immediatamente, non appena scatta l'impulso. Questa cosa, invece, è accaduta nel mese di maggio. Domenica 24 maggio 2009, per la precisione. Da allora non ho più messo piede da quelle parti, e chissà se e quando ce lo rimetterò. Mi rimane l'immagine del furgone strapieno di ragazzi che salutano. Di esseri umani che si salutano. Chissà. Forse un piccolo, impercettibile buco nel muro.