Sono seduto a un tavolo d'una casa del popolo. Il popolo è quella cosa che, da queste parti, ci ha le case, i' patrimonio della crasse operaja, le bandiere della pace, la briscola e i' ventuno, i moccoli, la Fiorentina e lo scivolare lento nella morte dei vecchi che credevano di vedere un mondo diverso e un po' migliore. Sto bevendo una sambuca alla mosca come iddio comanda; e parlo a me stesso in francese. Un po' per non perdere l'abitudine, ché mi spiacerebbe non pronunciare più bene “c'est la lutte finale, groupons-nous et demain”; e un po' perché mi faccio un immaginario colloquio, spiegando a un altrettanto immaginario personaggio che, sì, la sambuca rassomiglia al pastis, ma che la si beve co i' diaccio e con tre grani di caffè. C'è un cane, sì, che lecca un gelato alla graniglia di cioccolata. Non è un caso; glielo hanno proprio comprato. Non mi stupisce. I cani, ogni tanto, sanno essere tipi strani. Al Nessie di Livorno, poco prima della libecciata del 30 marzo 2002, avevo conosciuto una pitbullina buonissima e coccolosa, ché non l'avevano educata a azzannare i cristiani; si chiamava Peggy. Tutte le sere, mentre io mi ammazzavo di Western Pearl, entrava prima del padrone (che parola di merda), s'accomodava e si faceva servire un boccale di birra rossa che si lappava, oserei dire, voluttuosamente.
Ché è una di quelle serate che chiamo, sempre, di periferia. Prima dovevo andare in un posto, e invece di andarci mi sono addormentato. Non ho voglia di fare un cazzo, e a cuor leggero perché nei giorni scorsi ho dovuto lavorare come un negro. Mi sono svegliato, e la pigrizia riportava una schiacciante vittoria sulla fame. Poi ho deciso di uscire, trascinandomi fuori e notando che il mio zainetto finalmente era diventato sufficientemente zozzo. E così sono sortito nell'estate macigna, con due patacche di non so cosa sulla maglietta e una tempesta bretone di cose in mente a faro spento. La fame stava chiedendo la doverosa rivincita; chissà se il Gala è ancora aperto. Il Gala è il trippajo, ma l'ortonimo proprietario c'è solo di giorno. Di sera, al chiosco, c'è un ragazzo bilingue. Fiorentino, anzi isolottino, e beneventano di campagna. Passa indifferentemente dall'accento di via dell'Argingrosso a quello di Pontelandolfo, o di San Marco dei Cavoti. Volendo, anche di Pietrelcina, dato che è in provincia di Benevento. E' l'estate. Sciamannati sudori, bestemmie e hot dog con le salse del discount. E' l'estate che si parla con tutti quanti e ci si dice un ciao anche senza essersi mai visti. E' l'estate delle famigliacce dei brutti, della moglie che fuma lasciando due chili di rossetto sulla cicca, del marito che prenota la stiacciata con la mortadella per il fine settimana a Marina di Porcoddio, della figlia che dice “ho fame”e mi guarda mentre addento il panino e persevero nello sbrodolarmi la maglietta. E' l'estate in cui pago e vo a parlarmi in francese alla casa del popolo, davanti a una sambuca alla mosca e al cane che lecca il gelato.
Le bandiere della pace delle case del popolo della periferia fiorentina, luogo dove si è sviluppata una peculiare forma di juché che non so se garberebbe al Presidente Eterno Kim il-Sung ma che però garba sufficientemente a méne, sono sdrucite a dovere. Une nuit ou l'autre je vais m'y foutre dedans en cachette et j' vais y mettre un drapeau de la guerre. Piazza Bovio. Poco prima pensavo a piazza Bovio di Piombino in una serata d'inverno. E' probabile che voglia richiamare alla mente qualcosa, e in piazza Bovio a Piombino ce ne ho di cose da richiamare, non foss'altro per le sei bottiglie di vino bianco che mi ci sono bevute, una dietro l'altra, la sera del 14 novembre 2001 dopo essere scappato via con la Polo blé avente gomme lisce. Scoppio a ridere davanti al cane. Sempre in francese m'immagino se m'avessero fatto l'etilometro, al ritorno. Il bello è che ero lucido. M'avrebbero portato in galera mentre declamavo tutte le regole delle mutazioni consonantiche nelle antiche lingue germaniche. Rido, sì, davanti alla sambuca che sembra sciampagn. Intanto il cane ha finito il suo gelatino. Chiamo la Daniela e glielo racconto, e mi dice che ai cani dovrebbe fare male una cosa del genere; ma penso anche che le cose che fanno male sono quelle per cui vale davvero la pena vivere. E siccome la cosa che fa più male di tutte è proprio vivere, allora ne vale estremamente la pena. La notte scorsa m'era presa una delle mie consuete fife di morire. Non mi addormentavo. Mi vedevo già decomposto e immaginavo il bleah dei soccorritori, la vache que ça pue. M'è toccato alzarmi e andare a prendere il telefonino per mettermelo accanto.
Ed è così. Spesso il male di vivere ho incontrato, e non sono stato nemmeno capace di pigliarci il premio Nobel come quel tizio che ci aveva fatto sopra la poesiola, che Satana se li pigli tutti i poeti e ne faccia carta da culo. Non ho seguito strade asfaltate. Da una nuvoletta lassù mischiata ai sette mari, un dito con un'unghia piena di loia m'ha indicato una stradina sterrata augurandomi buon appetito per la polvere che avrei avuto da mangiare. E, ad ogni passo, il male di vivere si trasformava in grumi di vita. Così ho imparato che non dev'essere una moda e nemmeno un appiglio o un pretesto. Lo si accetta così com'è e lo si elabora, proprio come nelle stelle un gas che non so si trasforma in un altro che so ancora meno. Lo si beve. Lo si ossequia. Lo si ride. Si presta attenzione ai gesti, come quello della ragazza che, in modo del tutto naturale, mentre versava la sambuca si grattava sguaiatamente un seno. Le prudeva e faceva bene a grattarselo. Il cane mi si è avvicinato e gli faccio una carezza sul testone. Torno a casa. Forse, dopo, riesco nella notte più profonda a cantarle quanto sono contento di stare al mondo; più inciampavo, su quella strada sterrata che menava ad una casa del popolo dove Iddio e il Demonio giocavano, vecchi bavosi, al tressette, e più capivo che una luce, per un attimo, mi aveva fatto capire che cosa ci fosse davvero, e con un senso allegramente impercettibile, alla fine.