Un mare nel mezzo. Un ragazzo marocchino, Luce della Fede, Nur ad-Din, o Noureddine come si traslittera alla francese. Palermo, بَلَرْم ,città italiana. Una strada qualsiasi, una vita qualsiasi. Lo stesso carretto, la stessa roba, gli stessi tutori dell'ordine, gli stessi regolamenti, le stesse vessazioni, le stesse multe. Solo che ci sono una cosa in più, e una cosa in meno. La cosa in più è che Nur ad-Din non è a casa sua; casa sua è lontana, vicino a Dar el-Beida, o Casablanca. Città che, per un famoso film e per la leggenda delle operazioni di cambio di sesso è entrata in una specie di immaginario collettivo, chiamiamolo così. Per stare in una diversa realtà collettiva e sociale, invece, Nur ad-Din ha dovuto attraversare il Mediterraneo. Ha dovuto, probabilmente, restare clandestino per un certo tempo; poi ha ottenuto una cosa che si chiama permesso di soggiorno. Perché la Terra non è di tutti, come si sa; hanno fatto migliaia di film con sbarchi di Alieni, da quelli cattivi della Guerra dei mondi a quello buono di E.T., ma sono certo che la prima cosa che i faremmo in caso di sbarco reale di Extraterrestri sarebbe ficcarli in un CIE, eventualmente espellerli ("ributtiamoli nello spazio!") e poi far fare loro la trafila per avere il permesso di soggiorno. Altro che armi micidiali; ne abbiamo inventata una, su questo pianeta, che le batte tutte. Si chiama burocrazia.
La cosa in meno, è che qui di là dal Mediterraneo non scoppierà nessuna rivolta. Anche se le cose sono andate uguali. Nur ad-Din ha preso una bottiglia di benzina, si è dato fuoco e è morto. A ventitré anni. Forse sapeva di quel che aveva fatto il ragazzo in Tunisia, o forse no; ma non ha molta importanza. Sono arrivati gli sbirri del sindaco, i vigili urbani, coi regolamenti municipali e coi blocchetti delle multe. Il suolo pubblico, quello che ogni giorno viene occupato da intrallazzi e speculazioni, sconciato, distrutto e sfruttato senza pagare un soldo, lo devono pagare invece i ragazzi coi carretti per vendere due arance o un mazzo di sedano. I Comuni hanno bisogno di soldi perché sono diventati aziende; il Governo chiude i rubinetti, e allora i soldi bisogna andarli a prendere da qualche parte, anche ai Nur ad-Din. Niente soldi, niente servizi; a parte il fatto che numerosi servizi comunali fanno ben più schifo di prima, di quando non c'erano le aziende e si ragionava un minimo in termine di bene pubblico.
Sindaci-sceriffi, capi della città, sgherri. Il vigile urbano, prima, era non dico una figura amata, ma perlomeno aveva qualcosa di familiare; il ghisa, er pizzardone, ogni città aveva un nomignolo. Ora no. Ora sono Agenti di Polizia Municipale (o Locale). Ora rambeggiano pure loro. Ora devono applicare le Ordinanze degli Sceriffi. Ordinanze che, naturalmente, colpiscono i Nur ad-Din di ogni nazionalità, anche italiana; anche se, va detto, essere di certe nazionalità non è, come dire, un vantaggio. Ma i carretti sono gli stessi. Le verdure, anche. I pochi soldi che se ne ricavano, pure. Perché va così: la tua vita, la nostra vita, è oramai in mano a tutto questo. Non parlo filosoficamente, ma della vita normale, quotidiana, come cittadini. Amministrati a colpi di demagogia e di leader. Il sindaco "più amato" e quello "meno amato". Visibilità e pubblicità. Il sindaco non è più espressione della cittadinanza e di un consesso, ma si arroga il diritto di essere la cittadinanza, e di stabilire lui stesso il consesso. Ma di tutto questo, ne sono certo, a Nur ad-Din non importava granché. Per la sua vita, per i suoi poveri sogni e per i suoi cari aveva da vendere arance e sedani in via Ernesto Basile, a Palermo. Glielo hanno impedito, così, senza sapere nemmeno chi fosse. Lei qui non ci può stare. Controlli. Contravvenzioni. La moglie e la bambina in Marocco, e voleva farli arrivare in questo meraviglioso paese del Bengodi. Dove, sembra, si era trovato bene. Anche con la gente, che aveva preso a chiamarlo Franco. È un bel nome, Franco, e significa qualcosa; anche se può essere una riduzione di Francesco, come nome autonomo ha in sé la radice della Libertà. In bretone, "Libertà" si dice frankiz. Anche quando si dice "porto franco" significa che non bisogna pagare qualcosa. Franco, o Nur ad-Din, invece, ha dovuto pagare tutto quanto; e la Luce della Fede si è trasformata in altra, e sinistra, luce.
No, nessuna rivolta. Qui, quando scoppia una rivolta perché ti tengono a cavare pomodori in condizioni di schiavitù, il paesello piglia i fucili e ti massacra; non importa nemmeno che arrivino gli sbirri, municipali o nazionali che siano. Tornavo in treno da Piacenza, una delle sere della rivolta di Rosarno; davanti a me, nello scompartimento, caso volle che ci fosse proprio una famiglia di rosarnesi. Il figlio grande telefonava a casa per due motivi: il primo, informarsi del risultato del Milan; il secondo, sentire se a casa sua stavano anche loro a sparare a quei negracci di merda. "Mi raccomando, fatene fuori qualcuno!"; e rideva, e chiedeva se aveva segnato Pato o Inzaghi.
Vorrei essere non fraintendibile. Una rivolta, in questo come in decine di altri casi, non dovrebbe avere niente a che fare né con la vendetta e né con la giustizia. Dovrebbe solo avere a che fare con la logica. Trovo pienamente logico che a Tunisi, al Cairo e a Tripoli la gente si sia rivoltata, anche se ci sono molti punti che non mi sono pienamente chiari e sento parlare un po' troppo di ciclamini, di gelsomini e d'altri fiorellini che mi ricordano i "colori" d'altre parti; così come ci sono un po' troppi obami e mogli di spompinati dalle stagiste che intervengono. Ma le situazioni imponevano una rivolta, e una rivolta c'è stata. In questo paese pure s'imporrebbe; stop. Anche senza andare a scomodare il defunto Monicelli (che, peraltro, non credo abbia mai venduto sedani su un carretto, e che s'è dato la morte a 95 anni e non a 23).
Siamo proprio bravi, qui. Si dedicano le strade a Jan Palach, ragazzo praghese che si diede fuoco per far sì che, proprio nelle stessa piazza, sorgesse un giorno il sol dell'avvenire dei McDonald's; lo si ricorda come eroe contro il barbaro comunismo, e intanto si danno fuoco gli ambulanti marocchini perché sono vessati da due o tre vigili urbani di merda, regolamenti alla mano. Potessi avere la macchina del tempo del dottor Zapotec, la prima cosa che farei sarebbe tornare nella Vaclavské Namestí il 16 gennaio 1969, pigliarlo da una parte e suggerirgli in qualche lingua del cavolo di fare un diverso uso di quella tanica di benzina; qualsiasi uso, ma non su se stesso. E così farei per il ragazzo tunisino, e per Nur ad-Din: magari in un più comodo francese, suggerire loro di dare fuoco non a se stessi, ma al comando dei Vigili Urbani. Qualcuno ci dovrà pur pensare, una volta o l'altra. Qualcuno dovrà fare un bel falò di ordinanze, regolamenti, permessi, blocchetti delle multe e quant'altro. Qualcuno dovrà dare fuoco a queste città militarizzate, telecamerate, sicurezzate, sceriffate, pattugliate, ammazzate. Per questo s'ha una gran paura di quel che accade di là dal mare.
Paura e basta. Non ce ne importa mica una sega, a noi, se si abbattono dittature, se si chiede democrazia e libertà, se si vuole semplicemente vivere un po' più degnamente o se si vuole ancora più semplicemente vendere ortaggi e carabattole senza che nessuno si azzardi a rompere i coglioni; a noi importa che, con tutto questo, non arrivino migliaia e migliaia di Nur ad-Din. Tutti col loro carretto, con le loro famiglie, con le loro vite. Ci importa di questo e basta. Così come inneggiavamo alla grande rivoluzione rumena che aveva abbattuto il Vampiro della Transilvania, finché i rumeni non hanno cominciato a arrivare in massa. O al ritorno della democrazia in Albania, per cui finalmente si poteva tornare a pregare Gesù, la Madonna e Allah, finché un bel giorno non sono state avvistate carrette stracolme al largo di Otranto. E così i Nur ad-Din arrivano, dopo qualche anno si sistemano in una via Basile, e vendono verdura. Magari raccolta da altri disperati a Rosarno, chissà, o in qualche piana siciliana. E arrivano i Vigili, e per mezzo metro quadrato o per mezz'ora di orario ti appioppano una multa agghiacciante. E poi c'è il fuoco. E chi di fuoco ferisce.