Chi scrive, anche se a livello puramente dilettantesco come il sottoscritto e senza proprio nessuna velleità che sia una, ma soltanto per il puro piacere di farlo, non ha a mio parere il diritto di formulare criteri estetici o graduatorie. Non mi piacciono affatto le "analisi" che autori sia pur grandissimi hanno fatto delle proprie opere; caso tipico, il "Corvo" di Edgar Allan Poe. Non amo parlarsi addosso. Chi scrive può, al massimo, esprimere il piacere più o meno grande di avere scritto una data cosa, e parlare dei ricordi che, a distanza di tempo, tale cosa può generargli. Questa cosa che leggerete, o rileggerete, è una di quelle che più mi fa piacere avere scritto. Stasera, così per caso e senza nessun motivo, me n'è presa un po' di nostalgia.
È una storia che nasce un po' da una canzone, un po' da uno sbaglio e un po' dal luogo dove vivevo quando l'ho scritta: la Svizzera. Stranissimo posto, dove andavo continuamente alla ricerca dei "grains de folie". La canzone è "Sally" di Fabrizio de André; abbastanza noto l'episodio in cui De André, durante un concerto, ne sbagliò il testo mettendo nel bosco degli svizzeri al posto degli zingari. Mi venne da costruirci sopra una breve storia; il suo titolo, nel dialetto alemannico che si parla da quelle parti, significa appunto "Gli svizzeri nel bosco". Stando allora lontano dalla Toscana, tendevo a scrivere usando parole e forme dialettali (ad esempio, "doventate" per "diventate"); non era un vezzo, ma una lieve forma di sopravvivenza. Vista l'ambientazione, la cosa può creare un effetto un po' comico, o fors'anche ridicolo; ma mi veniva così, allora.
Kohlrabi, Re dei Topi, de müüser syn chünig, aveva qualche problema di respirazione. Tutta colpa di quei maledetti copertoni bruciati da non si sa chi; il fumo denso gli provocava degli irrefrenabili accessi di tosse che gli facevano sputare il cervello e i polmoni. Il fatto era che doveva vivere in quel bosco, braccato, da quando i gendarmi erano venuti a cercarlo sulla Via Mala, lontanissima da lì; attorno a lui quel poco della banda che gli era rimasta, un ammasso d'invecchiamenti, di rughe, di fucili antiquati, di vestiti laceri di tela grezza. Gli era rimasto quel soprannome di Re, che s'era guadagnato da quando comandava gli assalti alle automobili che s'avventuravano per quei postacci di pietre dalle strane forme, di ponti del diavolo, di gallerie scavate nella roccia, di acuminatezze spaventose.
Se n'era parlato tanto, negli anni del dopoguerra, della banda del Re dei Topi, quando Kohlrabi era ancora un giovane alto più d'un metro e novanta e con du' bracci che sembravano quercioli; si dice che avesse imparato il mestiere da suo padre, ch'era arrivato a rapinare da solo tutti i passeggeri della diligenza del San Gottardo tendendo un agguato sulla Tremola con un finto fucile, fatto di legno, ma così bene da sembrar pronto a sparare da un momento all'altro. Poi s'era aggregata la banda, che nei momenti d'oro, attorno alla metà degli anni '50 e all'inizio degli anni '60, poteva contare su quasi venti compari pronti a tutto. E non c'era stato mai verso di pigliarli, quei maledetti; sempre più temerari, sempre più strafottenti, sempre più negli incubi dei bravi cittadini che desideravano legge e ordine. E la Via Mala era tornata a tener fede al suo nome.
Della banda faceva parte Wilhelm Tell, che non era un soprannome. Si chiamava veramente Wilhelm di nome, e Tell di cognome. Poi c'era Hartmann Goldfischli. Uomo duro e Pesciolino d'oro, questo volevan dire il suo nome e il suo cognome; ma per tutti era soltanto il Pesciolino d'Oro, d goldfischli come si leggeva persino sugli avvisi di ricerca nelle stazioni della polizia e della gendarmeria. La specialità di questi due era semplicissima, poiché gran finezza non c'era da attendersi da quelle parti; se un passeggero si ribellava, o tentava di fare il furbo, lo stendevano a cazzotti. Poi lo ripulivano. Di tutto, fuorché della macchina o della moto; perché prendergli il mezzo di trasporto significava condannarlo a morte, e non avevano mai ammazzato nessuno. E come faceva rabbia a lorsignori, che non ci fosse mai scappato il morto; anche perché, come logica vuole, coloro che erano rapinati ci dovevano per forza avere qualcosa da farsi rapinare.
Alla banda di Kohlrabi era toccato imparare un po' d'inglese e di francese, e persino qualcosa in tedesco normale, perché le vittime preferite eran doventate i ricchi turisti stranieri che s'inerpicavano per quella strada attirati dai dépliants delle agenzie che magnificavano "la selvaggia e inquietante bellezza dei luoghi". C'era poi Pilar, che non faceva affatto, come spesso accade in queste storie, la donna di qualcuno o di più d'uno. Era una bandita come gli altri. Portava le armi come gli altri. Tirava cazzotti come gli altri. Si divideva il bottino come gli altri. Alle cronache giudiziarie è passata come Pilar dei Meli, perché la sua famiglia coltivava mele e pere, producendo fra le altre cose un ottimo "birnel"; ma si chiamava Pilar Bergschänzli e doveva quel suo nome esotico al padre, divoratore di romanzi di avventure. Lo aveva ripreso dalla "bella Pilar" di una storia di Karl May, che era stato anche, non per colpa sua, lo scrittore preferito da Adolf Hitler. Karl May vestito da capo pellerossa in una celebre immagine. E questi eran quelli che erano restati con Kohlrabi in quel bosco lontano, di rara pianura, ai bordi d'una strada battuta da automobili sempre più veloci, sempre più potenti, sempre più rumorose. Nessuno osava più fermarle, ora che gli anni eran passati e non era rimasto altro posto per nascondersi. Chi mai avrebbe pensato che quella gente di montagna sarebbe andata a rifugiarsi in una piana?
E nella piana erano spuntate le case, e le strade, e linee elettriche e telefoniche e capannoni industriali; soltanto quel pezzo di bosco era rimasto, sebbene fosse certo che, prima o poi, lo avrebbero abbattuto per farci qualcosa. C'erano arrivati scappando, quando la banda, nell'aprile del 1968, era stata sgominata dalla polizia per un tradimento. Era stato uno degli ultimi arrivati, un intellettuale zurighese di città che, convinto della portata rivoluzionaria delle azioni della banda del Re dei Topi, aveva voluto unirsi per condividere quella che vedeva come una lotta contro il sistema borghese. A qualche commentatore non era sfuggito il quasi perfetto parallelismo con Régis Debray, l'intellettuale francese che s'era immischiato nell'avventura boliviana del Che Guevara, e che con le sue stronzate aveva contribuito non poco alla sua cattura, seppure un ben preciso tradimento non sia mai stato appurato. E così l'intellettuale zurighese, Karl Wolfschwanz, s'era accorto che la banda di Kohlrabi non lottava proprio per un bel nulla, ma rapinava. Che la vita era durissima, in clandestinità. Che Pilar non gliel'avrebbe data nemmeno se l'avesse implorata in usbecco. Che di notte faceva un freddo boia anche d'estate, a quelle quote. Che il sano mangiare di montagna gli aveva rotto i coglioni dopo un mese. E che a Kohlrabi e ai suoi, di certi discorsi gliene importava il giusto, ovverossia nulla.
C'era già chi cominciava a pensare a come sbarazzarsi di Wolfschwanz senza fargli del male, quando quest'ultimo fece male a loro e andò a spifferare tutto alla polizia di Coira con la promessa dell'impunità e con il conforto di un caffè caldo e di un piatto di salsicce con patate. S'era accorto di quanto siano carogne quei proletari nel nome dei quali si combatte. Aveva raccontato tutto quel che sapeva: nascondigli, abitudini, descrizioni; e la polizia, una mattina ancora freddissima, aveva prima chiuso la Via Mala dai due lati, e poi era arrivata in forze. Di ventisette membri della banda, ne erano stati catturati ventitré; tra di loro anche un italiano di Genova, uno di cui si diceva scrivesse canzoni e poesie, ma che era lestissimo di mano e che aveva saputo, pur nato marinaio, adattarsi a quella vita con sorprendente rapidità. Si chiamava Fabrizio; fu condannato a quindici anni di galera, ma evase dopo meno di un anno imbarcandosi poi con falso nome su un cargo inglese, la London Valour. Di lui si son perse le tracce dopo il famoso naufragio di quella nave, proprio sul porto di Genova, a due passi da casa sua.
Quattro scapparono. Kohlrabi, il Re dei Topi. Pilar dei Meli. Il Pesciolino d'Oro e Gugliemo Tell. Non si sa come, qualche tempo dopo gli operai che, per una manutenzione, stavano svuotando un laghetto artificiale alle pendici del Bernina, il Rotensee (così detto perché le sue acque si coloravano a volte di rosso per l'azione di un batterio), videro spuntare dalla melma un braccio. E poi una gamba. E poi un altro braccio. E poi un cadavere che fu identificato a fatica con quello di tale Karl Wolfschwanz, di Zurigo, di professione giornalista per un quotidiano di destra dal quale aveva preso a tuonare contro i nemici dello stato borghese scrivendo degli epici articoli contro gli studenti francesi ed in favore del generale De Gaulle. Da allora il Rotensee, il lago rosso, divenne il Totensee, il lago del morto.
Avevano continuato a scappare per mesi e mesi per tutto il paese, nascondendosi nei posti più impensati. Il Re dei Topi, de müüser syn chünig, aveva mangiato topi assieme ai suoi; e Pilar scherzava chiamandolo cannibale, e Guglielmo Tell sognava russando, e il Pesciolino d'Oro voleva per la prima volta nella sua vita andare verso il mare, invidiando Fabrizio quando s'era diffusa la notizia della sua evasione dal carcere (al suo posto, in cella, i secondini avevano ritrovato un pupazzo impiccato a un chiodo, fatto con la paglia del materasso e con le lenzuola). Alla fine avevano trovato quel bosco quasi dimenticato. C'erano funghi. A dormire all'addiaccio erano abituati. Un giorno era persino arrivata una capra, perdutasi da qualche ovile o da chissà dove. E le armi si arrugginivano, e il tempo arrugginiva, e non ebbero infine nemmen più la paura d'arrugginir'essi stessi, ché forse li avevan dimenticati e li credevano all'estero o morti. Un giorno, diceva il Re dei Topi agli altri, torneremo sulla Via Mala. Un giorno torneremo lassù. Non ci tornarono mai.
E forse questa storia dovrebbe finire qui, dovremmo lasciare il Re dei Topi e i suoi tre compagni in pace, a finir la loro vita come alberi nel bosco. Perché con gli alberi avevan preso a discorrere, e che conversazioni facevano; e gli alberi ascoltavano ed annuivano cortesemente con le fronde primaverili e con gli scheletriti rami invernali. Sì, dovremmo finirla proprio qui, se non fosse per quella bambina. Abitava, con la famiglia, in una villetta prefabbricata sulla nuova viabilità ad est del bosco. Cittadini incampagnati, i suoi s'eran ritrovati di nuovo quasi in città quando la zona s'era pian piano inurbata. La madre lavorava in un biscottificio della zona, mentre il padre scriveva recensioni televisive per la rivista Teleschauer. E a forza di sorbirsi ogni sorta di programma, s'era appassionato all'opere del sapone e alle telenovelle americane, argentine, brasilere, messicane; la figlia, una bimbetta biondissima di sette anni, aveva deciso di chiamarla Sally dalla protagonista di Febbre di passione, una telenovella colombiana che, una volta terminata dopo undici anni, stava proseguendo da altri otto con il titolo di Vento d'amore.
Essendo l'unica figlia della coppia, Sally era terribilmente viziata, coccolata, rimpinzata, antipaticissima. Un'autentica fair-haired rompicoglioni. Ma aveva anche lo spirito d'avventura e di contraddizione di tutti i bambini, e più i genitori le dicevano di non andare a giocare nel bosco, più lei ci andava. Nel bosco, s'alternavano ad ammonirla il babbo e la mamma, c'erano gli zingari. E oltre agli zingari c'erano i terroristi islamici che le avrebbero fatto mettere il burka e poi l'avrebbero imbottita di esplosivo e fatta saltare ad un posto di frontiera della striscia di Gaza. E oltre ai terroristi islamici c'erano i ladri, gli assassini e gli stupratori. L'avessero sbarbato finalmente, quel maledetto bosco; del resto era questione di poco, la Zschokke e il Batigroup ci avevan già messo gli occhi addosso per un bel megacentro commerciale di cui si sentiva tanto il bisogno in quella zona dove ne esistevano già altri ventidue. Non devi giocare con gli zingari nel bosco, dicevano; e lei ci andava sempre a giocare. Anche se non erano zingari, ma quattro strani tipi, tre uomini e una donna, che raccontavano storie ancora più strane in un dialetto che Sally non capiva sempre.
Una volta tornò a casa e, ai rimproveri del padre, rispose che aveva incontrato Guglielmo Tell. Il padre corse alla polizia a chiedere informazioni su di lui. E così Sally si divertiva con quella gente, che aveva preso quasi a volerle bene e che le faceva fare quel che voleva, compreso arrampicarsi sugli alberi e sporcarsi come una porcilaia. Le avevano preparato il piatto del bosco, funghi con contorno d'altri funghi e insaporiti con i funghi. Ogni tanto Sally, tornando dal bosco, si fermava a salutare una puttana di mezz'età che viveva in una roulotte con targa 44 di Nantes e che si faceva chiamare La blanche biche. Quella poi, se ne raccontava di storie strane, pure d'essere stata una volta squartata dai cani del fratello e mangiata in sala da pranzo dai commensali. I genitori non sapevano più che pesci pigliare e avevano cominciato a subodorare qualcosa. In quel bosco doveva esserci per forza qualcuno. Non saranno stati né gli zingari, né i terroristi islamici, ma dei ladri o dei banditi di sicuro; chi altro può vivere in un bosco?
Avevano preso a fare a Sally delle domande a trabocchetto, nelle quali la bambina non cascava mai perché i suoi amici le avevano insegnato quel che doveva rispondere e lei s'ingegnava anche d'aggiungere panzana a panzana; ma con una tale naturalezza che sembrava tutto assolutamente vero. Nel bosco, diceva Sally, ci vado a giocare a tamburello con gli alberi perché la palla rimbalza da un tronco all'altro e inseguirla senza farla cadere a terra è uno sballo. E nel bosco, diceva ancora Sally, ci vado perché ho incontrato un pesciolino d'oro e il re dei topi che mi raccontano le loro storie; ed era tutto vero, solo che i genitori non ne avevan mai sentito parlare. Quale soddisfazione dir bugie raccontando la verità. Non ne esiste di migliore.
Nelle storie passan presto gli anni, e la nostra non fa nessuna eccezione. Ne passarono altri cinque o sei, forse dieci o dodici. Forse il passato ha superato l'oggi e s'è spinto nel domani. E chi lo sa. E chi lo vuole sapere. Sally aveva già quasi finito il liceo e era diventata una di quelle ragazze bellissime di tutti i giorni, quelle che s'incontrano per la strada in maglietta o intabarrate nei giubboni. Una di quelle che rendono bello il mondo senza saperlo. Era sempre curiosa. Sempre antipatica, ma solo con chi le andava però. S'era messa con due o tre ragazzi che aveva scoperto uno più idiota dell'altro. E siccome i genitori le avevano raccomandato di studiare per una professione solida e sicura, e d'iscriversi a economia o scienze bancarie, lei s'era fissata di voler laurearsi in letteratura greca e leggeva di nascosto Esiodo, Euripide, Sofocle e Luciano di Samosata, come se fossero dei pericolosi autori di libri proibiti. Non lo sapeva nessuno tranne i suoi quattro amici del bosco; ogni tanto arrivava coi libri e si metteva a leggere; a Pilar piaceva particolarmente la Storia vera di Luciano, perché le ricordava la sua vita e quella dei suoi compagni.Fu un brutto giorno di prim'ottobre che Sally, arrivando nel bosco coi libri e col tamburello, trovò il Re dei Topi, de müüser syn chünig, il Pesciolino d'Oro e Gugliemo Tell in lacrime.
Dov'è Pilar?, chiese. Le risposero che era morta. Che l'avevano ritrovata accoltellata vicino a un ponte, e che non si sapeva chi fosse stato. A Sally caddero i libri e il tamburello di mano. Domandò dove fosse. Le dissero che la polizia l'aveva portata via, forse per fare l'autopsia alla morgue. Le dissero piangendo che non l'avrebbero mai più rivista. Le dissero che l'avrebbero tagliata a pezzi. Sally tornò a casa di corsa; il padre guardava professionalmente la telenovella Anche i porci amano; la madre, nel corridoio, stava baciando l'idraulico polacco del quale era amante da sei anni senza che il padre se ne fosse mai minimamente accorto. Andò in camera sua e prese uno zaino, mettendoci dentro le cose che aveva più care. Poi se ne andò e non disse neppure a sua madre che non sarebbe tornata. Del resto era già in camera a fare l'amore con l'idraulico. Suo padre era passato all'analisi di costume dell'ultimo reality show, L'isola dei condannati, basato su un vecchio romanzo di Stig Dagerman, dove dei vip venivano rinchiusi all'Isola del Diavolo e costretti a vivere nelle stesse condizioni di Dreyfus e di Guillaume Seznec. Vinceva chi riusciva a evadere, ma già due calciatori, una top model e un cantante erano stati divorati dagli squali facendo schizzare l'audience a livelli mai visti prima.
Tornò nel bosco. E disse loro che era ora di raccogliere le forze e di riprendere il passo duro, quello di montagna. Lo dovevano a Pilar. Dovevano tornare sulla Via Mala. Dovevano insegnarle come si rapinano le automobili. E comprare delle armi nuove, ché quelle che avevano non servivano ormai più a niente. Si sentirono degli scricchiolii d'ossa e dei mugugni. Si sentirono degli E se ci riconoscono, e se ci prendono; ma Sally, nello zaino, aveva infilato pure la Smith & Wesson del padre nascondendola nella custodia delle commedie di Aristofane.