giovedì 23 agosto 2012

Fetóvǫjokviða in grœnlenzka


Ci sono cose che sono state consuete per qualche tempo, familiari, di tutti i giorni; poco meno di trent'anni fa, ad esempio, avrei dato non so che cosa per vedere anche una sola volta un libriccino annerito dal tempo e dal fumo, conservato sotto una teca di vetro in una lontana isola boreale. Va sotto il nome di Codex Regius 2365 IV-to, o di Konungsbók, e quel che c'è scritto dentro, ce lo avevo in mano tutti i giorni o quasi; e quel che c'è scritto dentro, è l'Edda Antica.

L'Edda Antica sono i carmi di Odino, di Thor, di Loki, degli eroi Völund e Helgi, di Sigurðr (forse più noto come Sigfrido) e dei Niflungar (forse più noti come Nibelunghi); sono le vicende di Attila, le domande poste al nano onnisciente Alvíss, sono i consigli pratici dello Hávamál (il "manuale del perfetto Vichingo", come qualcuno lo ha chiamato), è la cosmogonia e l'apocalisse della Völuspá, la "predizione dell'indovina" dalla quale derivano tutte le storie sul crepuscolo degli Dèi. Sono tutte queste e altre cose; l'intera mitologia di una stirpe conservata in quell'unico libro, e soltanto in quello. Studiavo, allora, una bizzarra cosa che si chiama filologia germanica; ad essere sincero, non mi ricordo nemmeno più come mi fosse punta vaghezza di dedicarmici, e di voler imparare lingue come l'islandese antico. Ecco, l'Edda Antica è scritta in islandese antico (che, a rigore, non è molto diverso da quello moderno; una lingua rimasta pressoché cristallizzata nella sua forma medievale). Comunque la si voglia vedere e pensare, quel libriccino che desideravo tanto di poter vedere almeno una volta, è uno dei libri più importanti dell'umanità; dalla musica alla pittura, dalle storie romanzate ai film, dalle canzoni ai fumetti. Da Wagner al mitico Thor della Marvel Comics. Da Tolkien al nazionalsocialismo. "Importante" non significa necessariamente "positivo"; ci hanno pescato tutti quanti, da quel fiume. Magari senza nemmeno aver letto due righe intere di un carme, magari soltanto grazie a perifrasi, magari soltanto perché ogni tanto ne parlava Borges, quello che voleva rifare le kenningar in castigliano d'Argentina; il qui presente "Asociale", Venturi Riccardo di fu Alberto e Pasticci Luciana, da ragazzotto qualsiasi di diciannove o vent'anni, ne sapeva a memoria pezzi interi in lingua originale, e più che altro ci si era tuffato dentro. Come nel Ginnungagap, l' "abisso primordiale" delle prime strofe della Völuspá: Ár var alda, þar er ekki var / voru sandr né sær, né svalar unnir; / jörð fannsk æva, né upphiminn / gap var ginnunga en gras hvergi... 

Alla sua scoperta, il vescovo islandese si rese conto di aver trovato qualcosa di parecchio antico. Ci mise sopra una sorta di "ex libris", con le iniziali "LL" della traduzione latina (Lupus Loricatus) del suo nome di battesimo (in islandese, Brynjólfur vuol dire "lupo corazzato"). Poi comincia la storia della sua automatica attribuzione ad un erudito di quattro secoli prima, Sæmundr inn Fróði (Saemund il Saggio), talmente colto che gli erano stati attribuiti enormi poteri magici; e poiché un altro celebre erudito islandese, Snorri Sturluson, aveva scritto un'Edda (praticamente una "ars poetica" per i poeti cortesi locali, i cosiddetti scaldi) dove venivano citati brani interi di quegli antichi carmi perduti, al loro ritrovamento il vescovo pensò che non potessero essere di altri che del vecchio Saemund. E ce lo scrisse sopra, sempre in latino: Edda Saemundi Multiscii. Cosicché, ancora oggi, molti chiamano quei carmi "Edda di Saemund", anche se Saemund non c'entra assolutamente nulla. Non si sa nemmeno che cosa voglia dire esattamente "Edda", che poi si è trasformato in un nome di donna; certuni pensano che derivi da un sostantivo dal significato di "ava, vecchia", altri che sia una deformazione del latino edo "io pubblico, rendo noto" (così come da credo derivò in islandese kredda, il nome del Credo cristiano); altri ancora dicevano che Edda avesse a che fare col nome della fattoria di Saemund il Saggio, che si chiamava Oddi (il genitivo Odda vuol dire "di Oddi"). Il Codex Regius fu scritto in Islanda alla fine del XIII secolo, finendo presumibilmente tartassato per secoli; al suo interno è presente una grossa lacuna, otto o nove pagine scomparse, che ha inghiottito la metà di un carme chiamato Sigrdrífomál e ha lasciato un frammento ("Brot") di un altro carme che parla di Sigfrido. Non molto tempo dopo il suo ritrovamento, il vescovo islandese lo donò al Re di Danimarca, noto antiquario, che lo rinchiuse nella Biblioteca Reale di Copenaghen; da qui il nome di Codex Regius. Fu studiato e ristudiato, particolarmente da un famoso letterato islandese chiamato Arni Magnússon; la cosa è piuttosto ovvia, dato che solo un islandese poteva essere in grado di capire bene che accidente ci fosse scritto in quella lingua infernale con sessanta e rotte declinazioni diverse e tutte le sue metafore descrittive (le kenningar, appunto: kenna eitt við eitt, "conoscere una cosa da un'atra") basate su fatti mitologici alcuni dei quali sono tuttora controversi. Nel 1970, dopo 305 anni, il Codex Regius riprese la via dell'Islanda; nel quadro di un accordo tra di essa e la Danimarca, quest'ultima si era impegnata a restituire all'Islanda tutti i reperti che facessero parte inalienabile del suo patrimonio culturale. Il primo di essi fu quel libriccino scassato e mutilato. A Reykjavík, il governo islandese fece costruire un edificio apposito, l' "Arnagarður", per conservarlo; non l'ho mai visto. E poi, col tempo, cessò di essere una cosa consueta; la vita prese altre strade, e con essa i suoi libri.

La storia potrebbe anche finire qui; senonché, qualcuno dei miei settantasette lettori (non me li invento gigionescamente come i venticinque del Manzoni; che sono 77 lo dicono le statistiche ufficiali del blog) potrebbe ragionevolmente chiedersi che cosa ci faccia, sotto un titolo in ostrogoto o roba del genere, la foto di una spiaggia che, palesemente, non è in Islanda. Non che non lo è; è la spiaggia di Fetovaia, all'Isola d'Elba. E' una spiaggia che fa parte della mia personale, di mitologia; ci ho visto mio padre, quand'ero piccolo, brutalizzare di prese per il culo un turista tedesco che faceva il bagno con un cappello di paglia enorme quanto ridicolo, mi ci sono preso un paio di sbronze colossali, ci ho portato gente di notte in pieno gennaio e ci ho fatto persino terminare un racconto che aveva come protagonista un cantautore livornese resuscitato dai morti. Bene. A Fetovaia c'ero anche pochi giorni fa, per il fatidico ultimo bagno dell'anno. L'ultimo bagno è quello che deve servire per tutto l'inverno, quando si gela e si ha bisogno di scaldarsi a un ricordo mentre si desidera una nuova estate; il fatto è che quest'estate, non so proprio che cosa mi sia preso. Prima di partire per l'Elba, su uno scaffale ho visto l'Edda Antica, impolverata e non aperta più da vent'anni o giù di lì; e l'ho tirata giù. Una traduzione italiana, certo; il testo originale, quello che sapevo a memoria a pezzi e bocconi, è una fotocopia che dev'essere ancora a casa di mia madre. Edizione di Andreas Heusler, quella "standard"; solo che il libro originale costava più di 150.000 lire, all'inizio degli anni '80, e allora presi proditoriamente la copia della biblioteca universitaria e me la fotocopiai da cima a fondo. 

E così, a Fetovaia, mi sono portato l'Edda. Odino, e Thor.  L'Indovina. Gli Insulti di Loki, che gliene disse di tutti i colori agli Asi a banchetto, compreso dar di invertito a uno di essi (mik muno Æsir argan kalla); e a Loki bisognerebbe fare attenzione, perché quando riuscirà a slegarsi dalla scomoda posizione in cui un incazzatissimo Thor lo aveva sistemato, sarà l'inizio del Ragnarök, del Crepuscolo degli Dei o fine del mondo che dir si voglia. Altro che profezia dei Maya, queste sono cose serie; però qualcuno, a suo tempo, avrebbe dovuto dire a Hitler e compagnia che la fine del mondo sarebbe stata scatenata da uno, Loki appunto, che si divertiva a rinfacciare alle dee e alle valchirie di essere delle gran puttane, e agli dèi loro mariti di essere dei finocchi e degli impotenti. Tutto questo è contenuto nel Lokasenna; mi si perdoni l'estrema scorrettezza politica, ma così è nel testo.

Così, a Fetovaia, eccomi su una sdraio con quel libro in mano. Riaprirlo dopo decine d'anni, quasi a bocca spalancata. Rivedere tutto quanto, e rivedere un altro me; dell'Edda Antica sono state fatte due traduzioni complete in italiano, da tre persone. Le ho conosciute, di persona, tutte e tre. Il primo traduttore, nel 1951, fu il professor Carlo Alberto Mastrelli; quello della copia che avevo in mano sulla spiaggia. Con lui ho dato il primo esame universitario in assoluto, e una volta mi fece i complimenti perché conoscevo lo scioglilingua in cèco Strč prst skrz krk (il link wikipediano posso farlo, perché l'articolo lo ho scritto io). Gli altri due traduttori, in coppia, sono stati il professor Piergiuseppe Scardigli e il dottor Marcello Meli, nel 1982 per la Garzanti. Del professor Scardigli, il quale è peraltro defunto da un pezzo, preferisco non parlare; di Marcello Meli mi ricordo che era un giovane assistente baffuto, estremamente simpatico, che insegnava allora alla facoltà di lingue di Verona. Sua caratteristica era che sapeva formulare la domanda "soffri il pizzicorino?" in trentotto lingue diverse, compreso il sanscrito. Piaciuto il gossip eddico? Beh, anche se non v'è piaciuto ve lo tenete, perché ci pensavo su quella sdraio a Fetovaia. Poi mi sono messo a leggere l'introduzione del Mastrelli, 101 pagine fitte come rena. E, infine, i carmi. 

Piano, piano. 

Tornando a immergermi in quel mare lontanissimo, con davanti il mare cristallino di un altro luogo e di un altro tempo. 

Le abbreviazioni che mi tornavano a mente. I titoli sono complicati, e bisogna indicarli con delle sigle; la Völundarkviða è "Vkv.", l'Atlakviða in grœnlenzka è "Akv.", e così via. Ecco, pensate: è il "Carme groenlandese di Attila". Attila in Groenlandia, sicuramente a pigliare il fresco; e siccome uno non bastava, è seguito dallo Atlamál in grœnlenzko, il "Cantare groenlandese di Attila" (Atm.), che racconta le stesse vicende ma impoverendole, ingrigendole. Il fatto è che, con tutta probabilità, fu composto davvero in Groenlandia; ad un certo punto vi si trova un orso bianco. Attila e l'orso bianco. E vi si trova, soprattutto, una povertà da tagliare col coltello. La reggia del re Unno trasformata in scarna fattoria in mezzo ai ghiacci con oggetti di legno al posto degli ori e degli argenti. E il Cantar di Grótti, il Gróttasöngr, che però è conservato in un altro manoscritto; due disgraziate gigantesse schiave, Fenia e Menia, che giravano la mola Grótti con il quale un mitico re macinava di tutto, permettendo al mondo di vivere una sua "età dell'oro" sulla pelle, appunto, degli schiavi. Ricorda qualcosa? Finché le due gigantesse non si ribellarono, spezzando le macine e mandando in culo il re, la sua "età dell'oro" e tutto il resto; ma Goebbels, forse, non lo aveva mai letto.

Piano, piano; con lo sciabordare del mare e la ragazzina accanto che gioca a pallavolo con gli amici. E la signora milanese che legge il best-seller. E il Venturi che c'era e non c'era. Là e altrove. In diverse età, e con qualcosa di simile a due o tre minuscole lacrime agli occhi.

Così m'è venuto di scrivere questa cosa che, palesemente, non c'entra nulla con nulla. 

Le ho dato un titolo in islandese antico; significa Carme groenlandese di Fetovaia (Fkv.); intanto quel libriccino che non ho mai visto se ne sta in un'altra lontanissima isola, nella sua teca, col suo fumo nero e col suo tempo. E mi assomiglia, sempre di più.