lunedì 27 agosto 2012

Aspettando un altro autunno


"Ehi, cazzo, ma li hai visti i minatori del Sulcis?..." No, non li ho visti. Non credevo nemmeno che ci fossero ancora dei minatori, né in Sardegna e né in Italia in generale. Le miniere di questo paese, che peraltro non sono mai state tante, appartengono per me alle prime classi elementari, quando sul sussidiario si leggeva ancora che l'Italia era "il primo produttore di mercurio del mondo"; e che orgoglio, accidenti. A parte i termometri per la febbre, nessuno sapeva che diavolo ci si facesse col mercurio; eppure l'Italia era in testa, ci aveva la medaglia d'oro del mercurio. Lo si estraeva qui in Toscana, fra l'altro, sul monte Amiata; e quando venni a saperlo, un po' più tardi, altre bordate d'orgoglio fra i ragazzi di classe mia. I minatori dell'Amiata; e c'erano altre miniere in Toscana, in Val di Cecina, a Ribolla; ne sa qualcosa Luciano Bianciardi, di Ribolla, che fece in tempo a vederne morire a decine di minatori, il 4 maggio 1954, prima di andarsi a fare la sua vita agra a Milano, a spiegare l'etimologia germanica di "Brera" e a voler far saltare in aria il "Corriere della Sera" con tutto il suo carico di Montanelli e di altri pezzi di merda del genere. I minatori, ora, non ci sono più; finito il mercurio dell'Amiata, finito ogni cosa, finite le viscere di una terra che, a pensarci bene, da queste parti è tutta viscere. Un'immensa cava di budelli messi a nudo. E così, mentre anche oggi ci viene ammannita la nostra repressione quotidiana, gli ultimi minatori, in Sardegna, scendono nella fossa portandosi dietro esplosivo e rabbia, e non si sa quale debba scoppiare di più. Ci spiegano, ora, come è stato ammazzato quell'ultimo rimasuglio di attività mineraria in questo paese, e i minatori scendono là sotto a minacciare di fare un Germinale alla rovescia. Lo avete letto tutti, vero, il Germinale di Emilio Zola? Pare che lo scrittore, che amava essere realista al massimo grado, per sei mesi prima di cominciare a scrivere quel libro fosse sceso anche lui in miniera, mescolandosi ai minatori e condividendo la loro vita; a me, invece, è toccato per un po' di condividere la loro disoccupazione decennale. Coi ricordi che sbiadivano e si smangiavano nelle nebbie, l'alcool a fiumi, le famiglie disgregate, l'immigrazione, il Fronte Nazionale al 35%; ho visto il dopo e le schiere di corons trasformate in casette quasi chic, appetibili dal ceto impiegatizio o dai giovani intellettualini alla moda; rimaneva qualche canzone, rimanevano i terrils. Nel Sulcis? C'è una città, fondata durante il fascismo, che si chiama "Carbonia". Col carbone del Sulcis sembrava di aver trovato chissà cosa; ora i minatori, gli ultimi, sono lì con l'esplosivo. Tre quintali e mezzo, sembra, a 400 metri di profondità, sottoterra. 2000, 4000 posti di lavoro a rischio, e di un lavoro che non sarebbe mai dovuto nemmeno esistere, e che ha chiamato in un profondo senza ritorno decine di migliaia di vite, così come continua a fare in Cina e dovunque le miniere esistono ancora.  Eccoci qua, allora, a aspettare ancora un altro autunno.

Perché ogni anno lo si aspetta; ogni anno, in autunno, c'è la rivoluzione. Comincia sempre verso la fine dell'estate, ancora col caldo africano e coi primi temporali, che da quest'anno ci hanno pure dei nomi uno più cretino dell'altro. La rivoluzione, ogni anno, è assolutamente certa; arriverà l'autunno e non ce ne sarà più per nessuno. La faremo finita una buona volta; le avvisaglie ci sono tutte. I carburanti a prezzi spaventosi, i prezzi in ascesa vertiginosa, le utenze oramai insostenibili; la situazione sociale deteriorata, lo scontro che monta, le lotte senza paura, la fabbrica che avvelena da una parte e che rischia di buttar fuori migliaia di lavoratori dall'altra. I "giovani senza futuro", i quali però per un periodo più che discreto sembra che abbiano giocherellato a non avere più un passato preferendo trastullarsi di inutili scemenze e di fughe, i centomila che vanno a riempire la fiera di Roma per fare i dottori, le Pussy Riot e i giochini in Rete con le "situazioni complicate", i flash mob e decine di altre stronzate del genere. Ma, tanto, non c'è da temere: da quest'autunno si farà sul serio. Siamo al consueto "punto di non ritorno" annuale, perché ogni anno non si può tornare indietro, almeno fino a Natale. Per questo l'autunno ha questo suo fascino immarcescibile, e tutta una simbologia sempre pronta all'uso. Tipo l' "autunno caldo", derivato da dei lontani ottobri e novembri quando parve che una classe intera, in Italia, avesse cessato di voler lavorare sotto un padrone. Poi sappiamo com'è andata, e conosciamo pipe accese, erre mosce, concertazioni, marce dei quarantamila e tutto il resto. E pensare che ci si stupisce ancora, a volte, di ritrovarci le Camusso quando ci abbiamo avuto i Lama e i Trentin. 

Via il governo degli affamatori! Beh, ci penserà l'autunno. Proprio quest'anno, è assolutamente impossibile che non se ne occupi; e quando si è mai vista una rivoluzione in maniche corte, in mezzo al sudore e agli anticicloni africani da quarantadue gradi? Per la rivoluzione ci vogliono i cappotti, le sciarpe che coprono il viso, le tute pesanti col collo alto del maglionaccio che spunta dall'apertura. La rivoluzione è stata d'Ottobre, che poi era Novembre, e mica di luglio; no, dev'essere d'autunno. D'autunno scoppiano le bombe nelle banche, mentre l'estate è riservata ai treni e alle stazioni dei lavoratori che vanno in ferie. L'autunno reca foglie morte e assemblee, apporta nebbie sulle pietrose contrade dello scontro sociale che avanza, nutre speranze e desideri, trasforma ogni passo in antagonismo e persino in pantomime di cospirazione. L'autunno ha l'odore della Questura che si muove nella notte e all'alba; ha il rumore delle masse che si agitano incontenibili mentre il termometro scende e soffia un vento gelido, ha il sibilo delle sirene e il fuoco degli spari. Poi succede che ti tira una fregatura, come l'anno scorso che si bollì dal caldo fino al venti di ottobre; quando uscii dall'ospedale, il trenta di settembre, c'era un sole estivo. D'autunno, la rivoluzione è sotto la pioggia battente, e qui non piove mai e c'è l'Arno che sembra oramai una pozzanghera verde maleodorante. L'autunno dovrebbe smetterla, una buona volta, di preannunciarsi e di farsi aspettare.

Ma non se ne può fare a meno. Ci si immagina già sulle barricate, senza pensare che le barricate oramai non servirebbero più a uno stracatacazzo di nulla e che sarebbero spazzate via in due minuti. Sulle barricate, poi, dovremmo gettare tutti i nostri cari oggetti, quelli che hanno sostituito la vita, e non sono sicuro che saremmo pronti a farlo. Si dovrebbero assaltare le galere, ma ci si dovrebbe armare decentemente; poi non serve sbavare davanti all'inizio del film Giù la testa, dove si ricorda che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ma un atto di violenza. Perché, ogni autunno, si vorrebbe la rivoluzione automatica. Senza violenza, e magari, perché no, pure nella legalità. La rivoluzione delle manifestazioni e delle solidarietà a profusione. La rivoluzione basata su orge di "comunicazione", di "scambi", la rivoluzione su Facebook e su Twitter, ed in effetti in Siria e altrove c'è proprio una "situazione complicata". Con una bella spolverata d'autunno, è fatta; per questo lo aspettiamo tanto. Quest'anno non potrà mancare. Qui ci stanno, in effetti, ammazzando tutti; e ci ammazzano perché ci odiano. La avete vista la faccia della Fornero? E le pappagorge della Cancellieri? Le cravatte di Passera? L'umorismo di Monti? Ci odiano e ce lo dicono ogni momento, in ogni loro gesto, in ogni loro parola. Non basterà, stavolta, il campionato di calcio a fermarla, poi con quel Milan che farebbe inorridire anche Vincenzina davanti alla fabbrica e rimpiangere lo zero a zero anche ieri e 'sto Rivera che ormai non mi segna più. E gli studenti? Gli studenti, quest'anno, saranno ancora più incazzati, tranne stigmatizzare quelli che si decideranno a fare un altro quattordici dicembre. Che, peraltro, cronologicamente è ancora in autunno.

Poi arriverà Natale, e ci diranno che quest'anno sarà dimesso e povero, e che non potremo fare tanti regali. Ci ammanniranno gli indici dei consumi al ribasso stabile, perché Cristo ha trovato oramai la sua collocazione definitiva: quella di fungere da cartina di tornasole della situazione economica. Meno regalini si fanno per la sua nascita nella mangiatoia, e più si è in crisi; e sicuramente bisognerà vedere com'è messo il prezzo lordo dell'incenso e della mirra (l'oro è già stato venduto tutto ai "compro oro" per comprarsi la versione mensile dell' iPad). Ci saranno gli esami; qualcuno percorrerà i sentieri della Valsusa sotto la neve come pochi mesi prima li ha percorsi nel bollore, il non-cantiere continuerà a noncantierare e Caselli scriverà un altro libro andandolo a presentare in qualche libreria dove, in qualche angolo dimenticato, giacciono tuttora i Dannati della Terra di Frantz Fanon. Cose da autunno, certamente; sta per arrivare. Ci vediamo il ventuno di settembre, che per me è pure un certo anniversario non particolarmente gradevole; ma non potevo di certo crepare, no. Mi sarei perso quest'altro autunno, quello che sta per incominciare, dove tutto cambierà. Certo che tutto cambierà. Cambierà senza ombra di dubbio e, quando torneranno quelle poche rondini che ancora hanno voglia di venire da queste parti, vedrà un mondo nuovo.

E chissà che botto fanno tre quintali e mezzo di esplosivo a 400 metri di profondità.