mercoledì 29 agosto 2012
Quattrocento metri
A quattrocento metri da
casa, qua sopra, c'è il bar. Quello delle pastarelle fresche, del
grondino con il tuo amico, quello della barista carina ma un po' con
la puzzetta sotto il naso. C'è, a quattrocento metri, la pizzeria
napoletana anche abbastanza poco cara; e il supermercato dove vai a
fare la spesa, cercando le offerte speciali, utilizzando i buoni
sconto, facendoti segnare i punti fragola sulla tesserina. A
quattrocento metri da casa ci sta la tua ex pischella del liceo, che
è sposata, ha due figli e è in cassa integrazione col marito
precario a cinquantaquattr'anni; e c'è il giornalaio dove ogni
mattina arrivi trepidante per le notizie fondamentali, quelle sul
calciomercato. Lo venderanno Jovetic, oppure resta? A quattrocento
metri c'è l'ufficio postale, quello dove ti danno la pensione al
minimo; c'era, una volta, la sezione del Gran Partito de' Lavoratori,
dentro alla Casa del Popolo dedicata al partigiano o alla pace
mondiale, e a quattrocento metri ci sono i lavori d'un cantiere che
non finisce mai e che non si sa più nemmeno icché ci stiano a fare.
A quattrocento metri gira il gatto, la notte, e la notte dei gatti è
un mistero che nessuno potrà mai sapere; c'è il tabaccaio aperto
ventiquattr'ore, con la sequela di ogni forza dell'ordine possibile e
immaginabile che va a pigliarsi il caffeino durante le ronde
notturne. Carabinieri, polizia, guardia di finanza, vigili urbani,
una volta ci ho visto persino le guardie forestali e una guardia
zoofila; ci manca solo la compagnia del capitano Frans Banning Cocq
con pittore fiammingo al seguito. E sono quattrocento metri per le
strade o in linea d'aria, che non si percorre mai perché l'aria non
ha linee ma solo vento. Impercettibile, ma vento che soffia, e sta a
noi cogliere sempre ogni suo movimento e sommovimento.
A quattrocento metri là
sopra le nostre teste c'è la collina che ti garberebbe tanto averci
una casetta sopra, con l'orto e i paperi, con il pergolato e un po'
di pace; da andarci quando in città si schianta dal caldo, oppure a
pigliarsi qualche fiocco di neve che non diventi immediatamente una
poltiglia nera d'idrocarburi. C'è il pappagallino cocorita che è
volato via dalla gabbia, e non lo senti più cantare; eppure te lo
dicevano, uccello in gabbia non canta per amor, canta per rabbia. E,
infatti, a quattrocento metri non si sa in quale direzione c'è anche
la galera, muri alti, ringhiere invalicabili, torrette di guardia e
una morte quotidiana a buon mercato. A quattrocento metri, sopra, può
arrivare un palloncino colorato sfuggito dalle mani di un bambino; i
suoi resti, poi, precipiteranno dimenticati ma dopo aver donato un
minuto di contentezza. A quattrocento metri svetta l'antenna della
radio, con le sue onde che si perdono nell'etere; e la pieve a mezza
costa, che prima si vedeva da ogni parte ma che ora è stata coperta
dalla scuola degli sbirri in costruzione, da quella specie di
metastasi tumorale spuntata dalla piana. E sono quattrocento metri
dal suolo verso lo spazio infinito, quattrocento metri fino al bar ai
confini dell'Universo. E anche lì, sembra, c'è la barista carina ma
con la puzza sotto il naso; però, per andarci, bisogna fare
l'autostop con la guida galattica.
A quattrocento metri
sotto, invece, ci sono terra, roccia, acqua e fuoco. C'è un caldo
infernale. Qualcuno, ci dicono, ci ha scavato dei buchi; e ci sono
impalcature, scale, binari, lampade per fendere le tenebre,
macchinari, ascensori. Ci sono guantiere di paste portate, chissà,
dal bar distante altri quattrocento metri, ma pochissimi di noi sanno
quale differenza passi tra l'orizzontale e il verticale. Ci sono
telefoni e interruttori; ci sono sudori e puzzi d'ogni cosa, di terre
e zolfi, di pisciate e sostanze, di livori e di esseri umani. Ci
sono, quattrocento metri là sotto, le fini e gli inizi di cento,
mille, diecimila storie. C'è il diavolo che sa assumere la forma
d'un gas o d'una silicosi. Ci sono facce che dicono tutto con un
cenno degli occhi; ci sono accenti duri e grida di chi, un giorno,
non è più tornato sopra. Ci sono le paure declinate affermando la
loro assenza per una lotta che dovrebbe essere di tutti noi, in
qualsiasi senso volessimo e dovessimo percorrere i quattrocento metri
d'ogni giorno che ci sta portando all'annientamento; ci sono durezze
che traspaiono e che sarebbero capaci di bucare l'oscurità anche
senza una lampadina attaccata ad un copricapo di lavoro. C'erano, un
tempo, gli uccelli che facevano scappare tutti quando stramazzavano
morti; ci sono brividi che non sanno fermarsi, perché quando i
minatori sono disposti a chiudersi là sotto, nei budelli della
crosta terrestre, significa che là sopra c'è qualcosa che sta
cercando uno sfiato. E ci sono, quattrocento metri là sotto,
quattrocento chili di roba che scoppia. Non sembra che alla cosa sia
stato dato ancora il debito risalto, fra governi, equitalie e leggi
espettorali; eppure, la miniera, prima o poi, salirà.