domenica 28 aprile 2013

Quasi una risata



In questa domenica di fine aprile abbiamo appreso delle cose parecchio importanti.

Prima di tutto, che a un disperato sono concesse soltanto due possibilità:

a) Il suicidio. Luigi Preiti, calabrese di Rosarno (si direbbe un posto a caso!), anni quarantanove. Muratore emigrato in Piemonte da circa vent'anni; lavoro perso da poco, separazione dalla moglie. Caduto in preda ai videopoker, così come la pensionata al minimo che compra cento euro a botta di Gratta e Vinci. Come dire: il suicida paradigmatico. Di quelli perfetti per le làgrime e per i cordogli preconfezionati a base di "crisi". Poniamo che, oggi, Luigi Preiti si fosse buttato sotto il classico treno, o infilato in bocca la canna del gas; testimonianze dei vicini, accuse dei conoscenti, qualche articolo di giornale e/o di blog, la commossa omelia del sor parroco e gli immancabili applausi alla bara. Dimenticavo: l'articolo serio & sentito di Repubblica, naturalmente relegato chissà dove dato che oggi giurava il governo e si giocava un'importanta giornata del campionato di calcio.

b) La strage familiare (con o senza suicidio). Luigi Preiti, calabrese di Rosarno (si direbbe un posto a caso!), anni quarantanove. Muratore emigrato in Piemonte da circa vent'anni; lavoro perso da poco, separazione dalla moglie. Caduto in preda ai videopoker, così come la pensionata al minimo che compra cento euro a botta di Gratta e Vinci. Come dire: lo stragista familiare paradigmatico. Di quelli perfetti per le giustificazioni a base di "crisi". Poniamo che, oggi, Luigi Preiti si fosse presentato a casa dell'ex moglie e l'avesse ammazzata assieme ai due o tre figli; testimonianze dei vicini, una famiglia tranquilla, maledetta crisi, accuse dei conoscenti, l'articolo di Repubblica seguito dal tormentone ("Stop al femminicidio"), la ricerca se gli fosse stato dato o meno il porto d'armi.

E' successo invece che Luigi Preiti, anni quarantanove di Rosarno, oggi ha sparigliato le carte in tavola. Niente suicidio. Niente famiglia.  Luigi Preiti ha deciso di puntare al cuore del problema.

Così abbiamo imparato la cosa fondamentale:

Che se ti ammazzi, oppure ammazzi i tuoi cari (poi suicidandoti o meno) sei un povero disperato degno della massima comprensione, schiacciato dalla "crisi", "senza più un futuro", divorato da (mercato - banche - Equitalia / barrare con una X), eccetera; che se, invece, vai a sparare dichiaratamente a dei politici beccando due tizi il cui mestiere è servire lo Stato, ivi compreso proteggere una mànica di stronzi anche a costo della vita, sei un folle. Uno squilibrato. Uno da schiacciare per terra, ferito. Uno da edizioni straordinarie perché poco più in là c'erano loro coi loro governi e i loro ministri. Uno che passerà in galera, probabilmente, il resto della vita o perlomeno la maggior parte.

Abbiamo anche imparato le querule cacatine nelle mutande dei suddetti politici, ai quali il signor Luigi Preiti -mi sa- deve aver messo una bella fifa addosso. Come erano belli i suicidi quotidiani, gli imprenditori che si impiccavano oberati! Che figo il disoccupato che si dà fuoco, quale supremo atto d'accusa! E i tre parenti stretti col loro suicidio seriale? Tutte cose fantastiche per un'infinita serie di cose, dal Papa all'Angelus al blog indignàdo, da una puntata della Vita in Diretta alla commozione di Nichi Vendola. Oggi, invece, le reazioni sono molto, molto diverse. Ci sono persino fascisti come Alemanno e La Russa che insorgono contro il "clima di esasperazione contro il palazzo".

L'ha combinata davvero bella, Luigi Preiti. Per combinarla s'è pure messo il vestito della festa, in giacca e cravatta; mica voleva presentarsi vestito poco bene a quell'appuntamento cruciale. Quello in cui la disperazione si tramuta in rabbia, in distruzione; ma non contro se stesso o contro persone vicine. Contro chi ce lo ha messo, in questa situazione. Ed è questo che, oggi, venuto finalmente allo scoperto, fa una paura terrificante a lorsignori.

E hanno ragione i colleghi dei carabinieri feriti, quando urlano: "La gente non ne può più e se la prende con noi." Hanno individuato un problema che non farà più dormire sonni tranquilli. Lo hanno espresso a chiare lettere. Mancherebbe solo che, un bel giorno, questi eroici servitori si stufassero di servire e di proteggere, e di fare da bersagli (sia pure, va detto, bene armati). 

Perché a quelli lì vai bene solo quando colpisci te stesso oppure la tua famiglia, dei vicini di casa, persino degli sconosciuti che passano per la strada; quando invece individui dove stiano davvero le cause di tutto questo, allora non vai più bene e l'unica cosa che ti aspetta è essere schiacciato sul selciato e portato via mentre il professorone, la campionessa olimpionica e il banchiere giurano davanti al Presidente. Per questo ti metti il vestito della domenica, e nonostante tutto, seppur ridotto a un oggetto senza valore da calpestare coi piedi, trovi il tempo per un sorriso. Quasi una risata, come si vede nella foto.

Lo avevano detto che una risata vi distruggerà!

sabato 27 aprile 2013

Venticinqu'aprile




Veramente, non sto a farmi tante filosofie del cazzo. Debbo dirlo. C'è da occupare una casa sfitta da dieci anni e rotti? Vo, piglio e do una mano. Ci resto a dormire la notte su un materassaccio lurido, con una scala a pioli appoggiata a una finestra al secondo piano, pronto a scappare via se quelli del borgomastro arrivano a sgomberare. Roba del genere; così il venticinqu'aprile che lascio parecchio volentieri a chi si diletta delle bloggate da giorno dopo dopo essersi stato a grattare i coglioni o la pòtta. Non lo so se il venticinqu'aprile sia morto, se sia o meno "liberazione", se lo si debba anarcare o snobbare, cantare o rilanciare, festeggiare o chissà cos'altro; solo che, il ventiquattro, m'è capitato di vedere su parecchi muri di Firenze scritte di dieci metri che inneggiavano ai "caduti" della Repubblica Sociale Italiana, altresì detta Repubblica di Salò, e a me, che sarò fatto a modo mio ma è mio e me lo tengo senza tanti proclami di "essere me stesso", tanto basta. 

Tanto basta, ad esempio, a farmi pigliare un treno la mattina del venticinqu'aprile per andare in un dato posto più o meno sul cocuzzolo di una montagna, in un posto dove della gente è riuscita a morire anche la mattina di un venticinqu'aprile lontanissimo. Senza aspettare nemmeno qualche ora. E' vero, certo, le retoriche le conosco bene, e so bene che dovunque vada, in una piazza o in cima a un monte, me le beccherò; mi beccherò qualche immancabile congrega di stronzi, la mammina cui ho sfanculato la figlia e che arriva imperterrita a farsi sfanculare pure lei (si chiama democrazia!) e quant'altro; ma mi beccherò anche qualcosa che non è facile definire oggigiorno, e che non pretendo nemmeno di raccontare o spiegare. Ognuno, se vorrà, ne riporterà le sue impressioni; o anche no. Però quella mattina, lontanissima, avrei voluto esserci. Avrei voluto avere delle illusioni, per poi vedermele naturalmente triturare. Per questo, forse, le ho ancora; non si sa mai, prima o poi il tritatutto si potrebbe anche guastare.

E tanto basta per farmi, appunto, montare su quel treno. Che, poco dopo la stazione di Rifredi, si è fermato. Guastato. Ed è stato soppresso, così, tante scuse. Tutti giù, dirottati su un povero treno per Pisa e Livorno che era già strapieno di turisti giapponesi e americani che andavano a Pàisa. E, così, vorrei farvi vedere il venticinqu'aprile in Italia, duemilatredici; su una specie di carro bestiame, o di treno dei deportati, ultima fermata Auschwitz. Tra le giovanissime "girl scouts" che si divertono come matte in mezzo al pigia-pigia, i finestrini che non si aprono, quella puzza mista di sudore, patatine Pai e ferraglia, il controllore che viene massacrato di insulti, i borsoni ammassati e la campagna che scorre verso chissà cosa.

mercoledì 24 aprile 2013

Proserpina



Martha Wainwright è la figlia di Loudon Wainwright III e di Kate McGarrigle. E questa canzone sul mito di Proserpina l'ha scritta proprio Kate McGarrigle, poco prima di morire.

Andrà a finire che sarà l'unica cosa per la quale mi toccherà ringraziare "Controradio", che una mattina d'inverno l'ha mandata in onda, non si sa come, in mezzo alla sua usuale paccottiglia.

Questa canzone è, semplicemente, un miracolo. Non troverei altro da dire.

Me la sto cantando da stamani, non so perché. E oggi è stata una giornata fortunata. Non grandi cose; piccolissime. Cinque euro trovati per la strada; un autobus arrivato quando sembrava che dovessi aspettare mezz'ora. E una calma assolata d'aprile.

domenica 21 aprile 2013

Astratti pensieri parecchio concreti



" D'altra parte l'opposizione oggi ha i grillini a far da guida, qui da noi uno dei loro leader si è fatto rimborsare i viaggi in valle di Susa, al costo di 4,35 euro, dalla regione. Credono nelle istituzioni e questi sono i risultati. Sono convinto che l'opposizione si fa fuori dal palazzo, per le strade ed in modo tangibile. Il problema del lavoro ha bisogno di fabbriche occupate, quello del precariato di sedi di lavoro interinale chiuse per sempre, i caporali di terrore per il lavoro che fanno, degli sfratti di famiglie che occupano i condomini e cose così. Il resto non conta. Lasciateli ai loro giochetti, ma impeditegli di vivere tranquillamente. "

Mario, naturalmente. 

sabato 20 aprile 2013

Sfrizzola il vilipendulo



Almeno una magra consolazione c'era: s'era, finalmente, levato dai coglioni.

E invece NO.

Mi viene quasi la voglia di tornare alla monarchia.

Così, almeno, si potrebbe tornare a organizzare un regicidio. Cosa vuoi organizzare, ora, un napolitanicidio? Ma sarebbe serio? Ve lo immaginate Bresci che va a sparare a questo qui mentre fa un appello alla coesione? Morirebbe Bresci, casomai; dalle risate.

Siamo nati per marciare sulla testa dei re. Invece ci tocca marciare sulle teste di cazzo.

Marciare si fa per dire.

venerdì 19 aprile 2013

Larghe intese



Intanto oggi ha preso un voto.

Domani...chissà!

Sondaggi !



mercoledì 17 aprile 2013

La Botteghina



Non che ci andassi spesso, in quel posto; anzi, proprio poco. Era lontanissimo da dove abitavo, come lontanissimi cominciano ad essere quegli anni. Livorno, gli ultimi frammenti di un millennio intero; non c'è più niente, forse nemmeno quel posto. O non lo so; ci capitavo una volta ogni tanto, alla “Botteghina”.

Era un posto strano, particolare. La mattina era, grosso modo, una latteria; la sera diventava una tavola calda e un'osteria. Perlomeno me la ricordo così; pochi tavoli di legno, seggiolacce, ancora non c'era il divieto di fumo nei locali e il posto era pieno di libri, riviste e gente strana. Una volta ci trovai, del tutto straniti, tre orientali che poi si rivelarono essere funzionari del Partito Comunista del Vietnam in visita a Livorno; un'altra ci capitai durante i miei ultimi mesi a Livorno, quando ero di fuori come una balconata e quasi costantemente briaco. Credo di essermi puntigliosamente e coscienziosamente preparato l'infarto di anni dopo, in quel periodo; a forza d'ogni sorta di troiaio che mangiavo, di tre o quattro pacchetti di sigarette al giorno, e di litri di vino e altri alcolici. Litri, questi sono i termini esatti. Capace di sortire di casa alle dieci la sera e di tornare alle due del pomeriggio del giorno dopo senza essere cercato, tanto non c'era nessuno cui gliene fregasse. Quando ci capitai quella volta, alla “Botteghina”, non c'era assolutamente nessuno e me ne stetti da solo tutta la mattinata. Era morto anche il commesso, o cameriere; ma non lo sapevo. Me lo disse il padrone. Non mi ricordo se, inconsciamente o meno, c'ero andato proprio perché volevo scambiarci due parole, con quella persona. Non me ne ricordo.

Il padrone, non ho mai saputo bene come si scrivesse il suo cognome. A Livorno si diceva “Franco Abrans”, ma poteva essere “Abrams” o “Abrahams”, o qualcosa del genere. Ebreo per forza, quindi livornese dei più antichi; non saprei dire altro. Nelle poche volte che sono stato alla “Botteghina”, o non c'era, o ci avrò scambiato due parole in croce. Non ero certamente un habitué del posto; eppure, sentendone parlare in giro (e in quegli anni non facevo praticamente altro che due cose: girare senza meta per Livorno, e scrivere), mi ero fatto persuaso che si dovesse trattare d'un posto quasi mitologico. Fiorivano leggende; la più diffusa, quasi una “vox populi”, era che “Franco Abrans” la tenesse aperta quando cazzo gli pareva, e che fosse comune andarci in orari normali per tornarsene subito indietro perché la porta era sprangata; oppure che uno ci si ritrovasse davanti alle tre e mezzo di notte di gennaio e trovasse tutto aperto, spalancato. Le volte che ci sono andato, a dire il vero, l'ho sempre trovata aperta; ma sono solito rispettare le mitologie.

Quanto a questo Franco Abrans (Abrams, Abrahams), i livornesi ne parlavano generalmente come una persona talmente famosa da non dover specificare nient'altro; così non ne ho mai saputo nulla e mi son dovuto immaginare. A giudicare dal posto, dai libri e dalle riviste che ci si trovavano, ci doveva avere avuto qualcosa a che fare col “sessantotto”, o comunque con “quegli anni”; quelle volte che torno a Livorno, tra una federazione anarchica e qualcosa del genere, mi riprometto sempre di fare qualche domanda a Pardo Fornaciari o a qualcun altro che per forza lo deve conoscere (o avere conosciuto, non so nemmeno se è ancora vivo); ma, poi, o me ne scordo, o mi trattengo. Come se avessi deciso che Franco Abrans deve restare così, una specie di ombra che la mia sconosciutezza ha attraversato. Una volta ci entrai dentro a un'ora quasi normale, di sera, per farmi un litro di vino in santa disperazione senza forse rendermi più nemmeno conto che, in una tasca dello spigato che portavo sempre (e che poi ho perso, era stato di mio nonno), ci avevo un'altra bottiglia quasi piena. E non pensiate che stia facendo folklore; le mie condizioni di allora erano quelle, e lo sa bene Filippo Thiery di Roma che, una notte, mi ha visto rotolare tutte le scale del sottopassaggio della stazione. Era un sei di marzo, e il sei di marzo...

Non era un sei di marzo. Era un tardo pomeriggio d'autunno del mille e novecentonovantaqualcosa. Il litro di vino me lo portò un tipo magrissimo, alto, già parecchio anziano mi sembrava. Scavato in viso era dir poco; sembrava che su quella faccia avessero tirato una bomba. Per motivi che non sto a spiegare, le mie condizioni di allora mi avevano donato una voglia e una capacità di osservare gli altri che non credo di avere più, sebbene rimanga una delle mie attività preferite; insomma, capii immediatamente che quella persona doveva averne passate parecchie. Inoltre, mi hanno sempre colpito i posti dove ci sono dei camerieri anziani e silenziosi; oltre alla “Botteghina”, mi è successo soltanto un'altra volta di vederne uno, in una trattoria di quart'ordine nel sestiere di Castello a Venezia. Ci scendevo di nascosto per andare in Calle Catapan, là vicino; ma anche questa è un'altra storia, come il sei di marzo.

Mi piacerebbe quindi poter dire d'aver perlomeno scambiato qualche parola con quell'uomo, anche banale. Che so io, un commento sul tempo che faceva. O sul vino. O su non so cosa; ma quella persona non aveva la benché minima voglia di parlare e, in fondo, nemmeno io. C'era soltanto una cosa, in mezzo ai miei pensieri; mi parve, a un certo punto, d'averlo già visto da qualche parte. Non nel locale, perché le altre volte che c'ero stato, non c'era; lì dentro era la prima volta che lo vedevo. Portava una semplice camicia abbottonata e un paio di pantaloni scuri; non so se rivedrò mai una persona più tremendamente magra. Prima che il litro fosse finito, mi ero quasi deciso a chiedergli come si chiamasse; ma se ne stava da una parte a leggere non so cosa. Entrarono altre due persone chiedendo di Franco; fu risposto loro, me ne ricordo come fosse due ore fa, che in quei giorni non ci sarebbe stato. Si misero a sedere e ordinarono qualcosa da mangiare, un piatto d'affettato e di formaggio. Dopo un po' pagai, salutai e me ne andai; un litro, duemila lire.

Una bomba sul viso, sembrava gli fosse passata; invece la bomba l'aveva tirata lui. Era dal parrucchiere all'angolo tra via Palestro e via Garibaldi, dove andavo sempre a farmi i capelli quando ancora me li tagliavo. Una copia del “Tirreno” in cui si parlava di uno che era uscito di galera, sia pure in semilibertà; e c'era la foto. Era stato preso a lavorare come cameriere della “Botteghina” e si chiamava Gianfranco Bertoli. E il parrucchiere mi vide tirare il giornale sulla sedia accanto e starmene lì, senza dire nulla.

Gianfranco Bertoli, nato a Venezia nel 1933. Il diciassette di maggio del 1973 avevo quasi dieci anni d'età, e a dieci anni i fatti si ricordano anche fin troppo bene senza nessun bisogno d'essere “precoci”. Era il primo anniversario dell'uccisione del commissario Calabresi, e nel cortile della Questura di Milano si stava scoprendo un busto in sua memoria; scoppiò una bomba. C'era il ministro Rumor presente, che rimase illeso; morirono quattro persone e quarantacinque rimasero ferite. La bomba la aveva tirata Gianfranco Bertoli, dichiaratosi anarchico individualista. Rileggo queste parole dall'articolo Wikipedia, ma mi ricordo che all'epoca, alla televisione e sui giornali, l' “individualista” non c'era. C'era soltanto “anarchico”, come Valpreda. Qui bisognerebbe che cominciassi un discorso su che cosa potessero significare quelle parole per un bambino; mio fratello era un avidissimo lettore di gialli, in casa c'erano caterve di “Gialli Mondadori” e, fra questi, quasi tutti quelli dell' “87° Distretto” di Ed McBain. Uno di questi gialli mi ricordo benissimo come cominciava: “L'inverno arrivò con l'irruenza di un attentatore anarchico”. Doveva essere la prima volta che leggevo quella parola e imparai che gli anarchici sono attentatori.

Venne fuori dopo un po' che Gianfranco Bertoli non era affatto anarchico, anche se era senz'altro un attentatore. Si scoprì una poltiglia puzzolente fatta di servizi segreti, neofascisti, SID, SIFAR, informatori, soggiorni in Israele. Poi venne fuori anche Gladio, ma anni dopo. Drogato marcio lo era già, Gianfranco Bertoli; fu messo all'ergastolo. In galera tentò di ammazzarsi; intanto scriveva su riviste anarchiche, particolarmente della situazione nelle carceri. Dei suoi articoli furono raccolti in un volume pubblicato dalle edizioni “Senzapatria”, che pure anarchiche dovevano essere; sto continuando a leggere e a trascrivere dall'articolo Wikipedia, nessuna intenzione di barare con ricordi e conoscenze che non ho. Agente del SIFAR, nome in codice “Negro”; infiltrato nel PCI; poi, ancora, agente del SID. Fascista? Anarchico? Un infame? Un disgraziato? Forse tutte queste cose; o, forse, nessuna. Me lo rivedevo nella “Botteghina” dove gli era stato dato lavoro; da una parte, o, forse, nessuna. Come le sue cose. Come la sua vita. L'unica cosa che capivo bene, era il suo scarso desiderio di parlare con un estraneo; pensai con orrore a che cosa, magari, gli avrei detto o chiesto senza sapere chi fosse. Dopo quella volta là, sono tornato ancora alla “Botteghina” soltanto una volta, quella mattina in cui il padrone mi disse che il cameriere era morto. Poi, più niente; e, del resto, mi mancava poco a dovermene andare via da Livorno, anche se non lo sapevo ancora. Lontana da casa, certo; ma c'era un moto di ripulsa, anche. O di paura.

Torno a leggere dall'articolo Wikipedia. Gianfranco Bertoli è morto il diciassette dicembre del 2000 a Livorno; a Livorno c'era perché stava in galera alle Sughere, nient'altro. Era tornato, come leggo, a farsi d'eroina. Credo che comunque, se mai fossi tornato in quel posto, me lo sarei rivisto davanti anche da morto. Rivisto chiedendomi delle cose; se fosse un lurido pezzo di merda di fascista, o se fosse doppio. E, se fosse stato doppio, o addirittura multiplo, di che genere fosse quella sua doppiezza, quella sua molteplicità. Se fosse stata dettata dal calcolo e dall'infamia, o se fosse qualcosa di diverso e di inconfessabile. Se l'infiltrarsi a comando gli avesse infiltrato dentro anche l'incrocio infinito dei contrari che attraggono e avvolgono. Se fosse entrato dentro dei recessi dai quali, poi, non è più possibile uscire. O se fosse nient'altro che un topo di fogna vestito da cameriere in uno strano posto, a Livorno, in una sera d'autunno, non molto prima del suo appuntamento con il Nero che lo avrebbe inghiottito via.

A mille albe



Finalmente ci sono arrivato, a dimenticarmi completamente d'avere scritto qualche cosa. Quella che segue risale addirittura al 12 luglio 2005.  Non soltanto quasi otto anni fa; incalcolabili circostanze fa. Ci sono ricapitato per puro caso su questa cosa che avevo scritto, ed in un modo decisamente pittoresco che, forse, merita d'essere brevemente raccontato. Oggi, dopo pranzo, m'è presa la voglia di farmi una bicchierata d'acqua e effervescente; mentre tiravo fuori il barattolo, m'è venuto chissà come in mente l' "effervescente Tortoroglio", che avevo visto qualche volta in una lontana cucina francese. Non so mai come spiegarmelo: molto spesso mi restano fissati nella mente particolari insignificanti, oggetti comunissimi di cui mi ricordo però perfettamente a distanza di anni e anni; e quel barattolo di effervescente trovato in una cucina di un posto distante e improbabile, in un altro paese, mi doveva aver colpito. Forse anche per il nome, perché sono uno estremamente sensibile alla consistenza fonetica di una parola; quel "Tortoroglio" doveva avere questa caratteristica. Così è andata; e mentre mi bevevo il bicchierone con l'effervescente "Crastan", sono andato su Google a cercare l'effervescente Tortoroglio. Trovandolo nominato in una cosa scritta il 12 luglio 2005 da tale Riccardo Venturi sul newsgroup di Francesco Guccini. E così mi sono ritrovato davanti alla lotta in Valsusa di otto anni fa. Alle battaglie di Venaus. Eccola qui, proveniente da anni che si allontanano, e da un barattolo di effervescente; ma, forse, servirà a ricordare qualcosa.

Ci sono stato una volta sola, in Val di Susa. Mi ci portò a fare un giro, tantissimi anni fa, una persona che allora mi era molto amica, e che adesso fa il fisico nucleare. Vorrei poter dire che non mi sono dimenticato di quei luoghi, ma non sarebbe vero; o meglio, ne ho sì dei ricordi, ma molto labili, e che sfumano sempre di più. Sono passati più di vent’anni, ventidue per l’esattezza. Era una giornata d’aprile, ma grigia e piovosa. Nessuna primavera. Ma, ogni tanto, la Valle di Susa, come molte altre cose, tornava a fare capolino dalle cose più impensate, come un barattolo di granulato effervescente nell’armadietto di una cucina. Effervescente “Tortoroglio”, prodotto in Val di Susa. Con gli ingredienti tradotti persino in olandese. E così mi ricordai d’aver percorso, seppure per una sola e remota giornata, quelle strade; me ne ricordai per cercare di digerire qualche cena pesante.

Le strade della Val di Susa, oggi, sono percorse dalla sopraffazione e dalla violenza dello Stato. Si incrociano con quelle di Avola, con quelle di Napoli, con quelle di Genova. Su di esse giace il corpo schiacciato e sconciato di Giannino Zibecchi. Ci vogliono far passare un treno. Ma il vero treno che ci passa è l’Italicus. E’ il rapido Milano-Lecce. E’ il treno di uno Stato che ai suoi cittadini riserva distruzione e morte, ora in forma di bombe, ora in forma di cantieri, di foreste cancellate, di montagne crivellate in nome del “superiore interesse”. Lo stesso “superiore interesse” che ora si manifesta come ferrovia, ora come guerra. E’ lo Stato che, come sempre, fa la guerra ai suoi soggetti preferiti: i propri sudditi. Il termine “cittadino” diventa privo di senso, se mai lo ha avuto. Bisogna parlare in termini di sudditanza. Di chinare il capo. Valsusino, togliti di torno e taci. Della tua valle, del tuo bosco, della tua montagna noi facciamo quel che vogliamo. Non vuoi la ferrovia? Non ce ne importa nulla, assolutamente nulla. La ferrovia s’ha da fare. E decidiamo anche che non hai nulla da temere, perché abbiamo fatto studi approfonditi. Abbiamo stabilito quale sia l’ “impatto ambientale”. Abbiamo deciso anche il tipo di impatto che ti sarà riservato se non la smetti di bloccare l’inizio dei lavori, e se ti ostini a considerare tua quella valle. E’ un impatto affidato ai carabinieri, alla polizia. E’ un impatto che scatta all’alba. E’ l’impatto con il fascismo. E’ questo, l’ambiente. Questo è l’impatto ambientale che ti spetta.

E il suddito si riunisce con altri sudditi, decidendo di voler tornare ad essere un cittadino, di voler gridare la sua opposizione. Il suddito osa reclamare delle cose impensabili: il suo territorio, la sua vita. A contrastare il suddito vengono mandati uomini in armi. E il suddito non può neppure minimamente pensare di fare altrettanto; opporsi in armi, anche se fossero soltanto dei randelli contro fucili, mitragliatrici e autoblindo, sarebbe una rivoluzione. E la rivoluzione è una cosa brutta e cattiva. C’è chi l’ha fatta con dei sassi contro dei carri armati, e tutti sappiamo com’è stato chiamato: terrorista. Tra le numerose galere del suddito c’è la “legalità”, guai ad uscirne. La protesta deve sempre essere “pacifica”, e schiere di politici, di preti, di intellettuali e di giornalisti son sempre lì a ricordarlo e predicarlo ogni giorno, ogni momento. Il suddito deve agire “nella legalità”, altrimenti è un terrorista; è la stessa “legalità" rappresentata dagli sbirri dello Stato che li sta cacciando via, pestando, ammazzando a colpi di manganello e di ruspe. E così, il suddito si ritroverà ad essere sfrattato dal padrone, condannato magari ad essergli grato perché, tutto sommato, gli permette di stare ancora lì. Ma sì, in fondo mica sta costruendo una diga sopra Longarone, questa volta. Com’è buono lo Stato. Com’è comprensivo. Com’è legale. Ha inventato anche l’impatto ambientale: suddito, siigli riconoscente. Guarda come ha cura di te. Guarda quanto bello sgobbo ti va a produrre. Guarda pure la grande “Cooperativa rossa” cui sono stati affidati i lavori, e che non si dica mai che lo Stato è condizionato da pregiudizi politici. Valsusino, ritirati in buon ordine. Vedrai che, un giorno, a lavori ultimati, non te ne accorgerai neppure. Vedrai che erano tutte falsità di quei maledetti ambientalisti, anarcoinsurrezionalisti, terroristi. Vedrai come sono belli i treni veloci, velocissimi. Lo Stato può tutto. Lo Stato è legale. Lo decide per te. Lo Stato ti possiede, tu e i tuoi luoghi.

E se, nonostante tutto questo, ancora non ti va bene, lo Stato ti manda la truppa. A sloggiarti e a reprimerti all’alba, a dieci albe, a mille albe. Oggi, domani e sempre.

martedì 16 aprile 2013

Bombe



Non so come mai, ma non mi stupirei se, per le bombe di Boston, saltassero fuori cose bizzarre e tremendamente americane.

Tipo: la vendetta di un maratoneta portoricano dilettante convinto di poter battere gli etiopi o roba del genere, e invece escluso dalla corsa per un motivo o per un altro (di motivi per essere esclusi dalle corse ce ne sono a camionate).

Oppure il gesto solitario di qualcuno che voleva protestare per l'estinzione delle foche monache, oppure contro i medici abortisti, oppure contro gli antiabortisti, oppure.

Oppure gli ordigni sono stati piazzati da Michael Moore per dimostrare quanto sia facile, negli Stati Uniti, fabbricarsi una bomba da solo con materiale in libera vendita al supermercato, piazzarla alla maratona e farla esplodere tranquillamente al traguardo.

Oppure da un membro della Congregazione Pentecostale Apocalittica Palingenetica Presbiteriano-Metodista in solidarietà con il proprio sommo sacerdote arrestato per molestie ad una cavalla minorenne (labile citazione a memoria da un vecchio film di Woody Allen, credo Provaci ancora Sam ma non ne sono sicuro).

Oppure dal quindicenne solitario e asociale che non ha nemmeno una pagina Facebook (cosa fatta planetariamente rimarcare in occasione di una qualche recente strage a scuola o al cinema).

Oppure, ancora, per una serie di motivi per i quali si può anche decidere, perché no, di mettere qualche bomba in mezzo ai maratoneti.

Senza contare che tutto questo può tranquillamente andare, almeno per qualche tempo, sotto il nome di "Al Qaeda".

Mi spiace solo per quel bambino di otto anni che magari voleva farsi una corsa e basta, e che ha sbattuto un po' troppo presto in un groviglio di merda che esplode.

lunedì 15 aprile 2013

Stèi iuman (meibì)


Oggi sono due anni che Vittorio Arrigoni è stato ammazzato. Scusate ma dico così, perché secondo me non è bene edulcorare la crudezza dei fatti. E' stato ammazzato, Vittorio Arrigoni, e male, in modo atroce e schifoso. Non è asceso tra i semidei perché muor giovane colui che agli dèi è caro, e credo che a 36 anni avrebbe pure lui preferito campare ancora un bel po'. Tutto sommato si tratta di una cosa parecchio umana.

In questi due anni di sua morte, Vittorio Arrigoni ha ricevuto:

a) Un numero imprecisato di lettere postume a lui indirizzate, scritte dal giornalista professionista fino all'ultimo dei blogger, ed in tutte le lingue del mondo. Impossibile sfuggire alle lettere post mortem, e tutti i migliori morti ci sono passati: mi ricordo, ad esempio, che per parecchio tempo hanno imperversato le lettere a Carlo Giuliani. Questa cosa, però, segue a volte logiche che mi sfuggono un po'; ad esempio, sono state molte, molte meno le lettere postume indirizzate, che so io, a Dino Frisullo. Addirittura ultimamente dubito parecchio che la maggior parte delle persone se ne ricordi tout court, di Dino Frisullo.


b) Parecchie canzoni, ugualmente in una pletora di lingue diverse. Principalmente in arabo, italiano e inglese; e qui ne so qualcosa direttamente, occupandomi da anni anche di un sito di canzoni. Grazie a queste canzoni abbiamo tutti imparato come si dice "restiamo umani" in parecchi idiomi, compreso l'italiano; diffuso l'inglese "stay human", mentre in arabo tutti hanno visto la scritta ma nessuno sa come cazzo si pronuncia. "Restiamo umani" si intitolano direttamente canzoni di Agnese Ginocchio (di professione "cantautrice per la pace"), Fedez e Filo Monilo;  a "Stay human" si sono invece dedicati Milo Brugnara, Marina Pizzo, Blake e Michael Franti & Spearhead. C'è stato qualcuno che ha scritto una canzone su Vittorio Arrigoni insieme a Peppino Impastato, con la speranza che non si sia sbagliato e abbia fatto morire Arrigoni esploso su un binario della ferrovia e Impastato a Gaza per mano dei "salafiti" o roba del genere.

c) Magliette. Magliette a sfare. Ultimamente si sta preoccupando anche il Che Guevara, ma ha parato il colpo comparendo all'improvviso con la famosa foto di Korda e, sotto, la scritta "Quedémosnos humanos". Improvvisa impennata anche dei tatuaggi in arabo, ovviamente facendo a fidarsi di chi li fa e sperando che invece di "Resistenza" non ti ci abbia scritto "W la fica" (che sarebbe, peraltro, una cosa umanissima).

d) Merda spalata addosso, in tutte le possibili configurazioni e declinazioni. Da quella di "Libero" e del "Giornale", che a rigore è anche logica e attendibile, a quella -forse più inattesa ma, in fondo, altrettanto logica- di meravigliosi "rivoluzionari" che sono andati persino a spulciare nel blogroll del blog di Vittorio Arrigoni per controllare la purezza ideologica dei suoi link, le sue "coerenze" e tutto il resto. La giovane età ha risparmiato a Arrigoni di essere tacciato di aver preso a manate qualcuno in un'assemblea alla Statale di Milano nel 1972, emmenomale perché l'Arrigoni ci aveva un paio di bicipiti da fare impressione.

e) Varie ed eventuali, ivi compresa la percezione del nome "Arrigoni". Fino a due anni fa era generalmente associato ai pomodori pelati ed altre conserve ortofrutticole (incluso il famoso slogan della "scatola chiusa"), ora è associato a Gaza. 

L'unica cosa, mattiamola così, è che ancora non si è visto nessuno che abbia preso e sia andato a Gaza a fare, più o meno, quel che faceva Vittorio Arrigoni. Compreso io e te, naturalmente. E, probabilmente, si tratta di un'altra cosa umanissima.

Ma vi immaginate tutti noi che abbiamo scritto lettere, composto canzoni, indossato magliette e che, ancora oggi, ricordiamo quel maledetto quindici aprile di due anni fa, ora pigliamo, piantiamo tutto e andiamo a Gaza? Umanamente, io non ci penso nemmeno, finalmente è arrivata la primavera e non ci avrei nessuno che mi guarda il gatto mentre sto lì a aiutare i pescatori e i bambini col rischio concreto che arrivi il salafita di turno, o la bomba israeliana, o tutte e due le cose insieme.

Temo che il famoso invito a "restare umani" si esplichi maggiormente così che nell'andare a farsi un culo disumano e a morire perché si crede in qualcosa e lo si porta avanti fino alle estreme conseguenze, diventando icone. E le icone hanno l'inguaribile vizio di morire parecchio male, prima di finire sulle magliette di tutto il mondo.

Per questo, forse, siamo rimasti tutti umani.
Ma ho come l'impressione che Vittorio Arrigoni lo sapesse benissimo, e che prima di essere ammazzato ci abbia pure tirato sopra, umanamente, una salva di bestemmie in brianzolo.

Beh, ciao e chissà a chi toccherà la prossima volta.
A me e a te, no di sicuro.

domenica 14 aprile 2013

Mille (e uno)



A dire il vero, non è questo. Sarebbe stato quello prima, quello dove davo a dei generici Valsusini di "fave lesse" perché mentre una discreta parte di loro si dà ànema e core al Movimento delle Du' Palle con tanto di comico e gurunascòsto, questi ultimi propongono tra i "presidenti della repubblica" uno che si è distinto per la generosa distribuzione di galere proprio tra il movimento No-TAV (sì, proprio lui, Casellon de' Caselloni). Che ganzi che sono! Ma, insomma, il caso ne ha combinata una delle sue proprio su quel post; ne ha fatto, si pensi un po', esattamente il millesimo post pubblicato su questo faro della bloggosfera. (*)

Da qui il titolo di questo post, che è infatti il numero 1001. Ho detto "pubblicato", perché in realtà ce ne sono stati non so quanti che sono stati cancellati; le "bozze" mai arrivate, per un motivo o per un altro, al fatidico clic su "pubblica". Però le statistiche non sbagliano mai, e hanno detto che alle fave lesse grillate (e non solo a quelle valsusine) è toccato questo "onore". Si sa bene che non sono per nulla propenso alle "commemorazioni", e massimamente per quel che riguarda la bloggheria tenuta dal sottoscritto; però, ogni tanto, ci sta pur bene un'eccezione. Tocca a tutti: per aver raggiunto, ad esempio, una data età (alla quale si conclude immancabilmente di non riuscire altro che ad essere se stesso; e poiché tra qualche mese dovrò suonare la campanella dei cinquant'anni, mi è venuta una discreta voglia di dichiarare che 'sto "essere sempre se stesso" è parecchio, ma parecchio palloso -oltreché squisitamente falso- e che in una vita, in realtà, si è non so quante persone differenti). Così, in fondo, ha funzionato per questo blog: è stato, e continua ad essere imperterrito, molte cose. Spero che sia uno dei motivi per i quali alcuni lo seguono; ma, lo devo dire, sarebbe così anche se non lo seguisse assolutamente nessuno. 

Sembra che, per raggiungere 'sti mille post, mi ci siano voluti quasi sei anni. Sei anni fa non ero quello che sono ora. Il primo post di questo blog è stato pubblicato da un luogo dove sono ripassato, casualmente, pochi giorni fa; non c'è più niente. Un bandone tirato giù, da anni, e un fondo vuoto. Così, e spesso da un giorno all'altro, cambiano le cose; e di mutamenti repentini ne ha visti nemmeno un solo, questo blog. Assolvendo alla sua funzione primaria, che non cessa: quella di diario. E' la versione moderna di una cosa antichissima, ed è anche per questo che non ho mai rinunciato a raccontare me stesso, ed i modi in cui mi sono rapportato ai fatti e alle persone giorno dopo giorno; non riconosco altra funzione ad un diario. Ma stoppo immediatamente questo abbozzo di "filosofia blogghesca"; nel bel mezzo del suo cammino, un paio d'anni fa circa, c'è stato anche un episodio che avrebbe potuto rappresentare il termine di ogni cosa, l'interruzione definitiva. Anche e soprattutto stante questa cosa, mi sono fatto persuaso che si racconta soltanto un percorso, e non dei princìpi immutabili. Un percorso non è fatto di "coerenze", ma di distacchi, ritorni, deviazioni, imprevisti, salti, fughe all'indietro e fughe in avanti. 

Credo che sarà così per mille e mille altri "post", perché in quel che si scrive esponendolo poi deliberatamente alla percezione altrui c'è e ci deve essere soltanto tutto questo. Arriverà ovviamente un dato giorno, ineluttabilmente, in cui la parola "fine" sarà scritta; nel frattempo si continua a raccontare. 

(*) Uso non di rado questa definizione "sarcastica", che non è mia. E' stata creata, qualche tempo fa, da un tizio che se ne è servito in termini, ovviamente, dispregiativi. Per una specie di contrappasso, mi è piaciuta e me ne sono, per così dire, "appropriato" senza però dimenticare le circostanze in cui si è materializzata; in pratica, la uso sia in modo del tutto autoironico, sia perché ho, da sempre, un debole per i fari. Tant'è vero che un faro compare subito nel blog.

Ehi Valsusini !







Ehi Valsusini!

Ma avete visto chi vi ha messo tra i presidenti della repùbbria il Beppegrillo vostro? Lo avete visto?

Ma sì che lo avete visto: CASELLI !

O brave fave lesse!

venerdì 12 aprile 2013

Cattivi bidelli


Chissà da quant'era che non c'entravo, dentro qualcosa di universitario; nemmeno una facoltà, poi, iersera. Una casa dello studente. Nemmeno "a suo tempo" c'ero mai entrato dentro, a una casa dello studente; non avendo studiato fuori sede, non ne avevo mai avuto né l'occasione, né la necessità. Non saprei dire nemmeno che impressione mi abbia fatto, anche perché non si parla certo d'impressioni o di sensazioni del cavolo; la ragione per cui ieri sera sono andato alla casa dello studente del viale Morgagni era ben altra. Un film documentario, intitolato "Bianco e Nero", girato nel 1974 da Paolo Pietrangeli. Sembra che coloro che hanno organizzato questa cosa abbiano penato parecchio per averne una copia; introvabile presso gli archivi della RAI, introvabile ovunque, tranne che in casa di un altro cantautore, che la ha gentilmente messa a disposizione. Dico "un altro" cantautore, perché quel Paolo Pietrangeli che girò il documentario nel '74 è lo stesso che ha scritto e cantato "Contessa". Cinque giorni dopo tale difficoltosa consegna, qualcuno ha pensato bene di ficcarlo su YouTube; è un viaggio nel neofascismo italiano dal dopoguerra ai tentativi di golpe, dagli appoggi missini ai governi democristiani fino alle stragi di Piazza Fontana, di Brescia, dell'Italicus, dalla rivolta di Reggio Calabria e dai suoi treni di lavoratori fino alla Rosa dei Venti. Contemporaneità. Dura un'ora e ventisei minuti, il documentario di Pietrangeli; forse sarebbe bene che gli deste un'occhiata.


La serata, organizzata da un collettivo studentesco, prevedeva una specie di introduzione "teatrale". Nessuna velleità da parte mia; non sono mai stato, né mai sarò, un teatrante. Nemmeno volendo.  Un breve testo, scritto da una persona che conosco e che mi è cara, nel quale sono stato chiamato a fare come da "spalla" per leggere alcune piccole parti, forse perché non c'era un impianto microfonico nell'auditorium dello studentato, e ho una voce che si sente bene. O forse, chissà, per quelle misteriose alchimie che, di recente, mi hanno persino portato a recitare per due minuti (nella parte di un autentico imbecille) in un film indipendente girato da un regista che conosco; ma tanto non vi dico come si chiama, e quindi va bene così.  L'introduzione teatrale parlava, in grandissime linee, di guardare attraverso gli occhi di vittime del neofascismo e dello stragismo di stato italiano; come, ad esempio, l'operaio tedesco Horst Mader, che ebbe l'intera famiglia sterminata nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. Una delle cose che dovevo fare era appunto gridare la frase: "Guardate con gli occhi di Horst Mader!"; mi è venuto da pronunciare correttamente quel nome, Hoasht Mààda o qualcosa del genere, e pensavo magari che quella correttezza poteva avere un indesiderato effetto comico. Chissà. Ma dire "Horrrst Màderrrr" all'italiana non mi viene. Infine, l'autore dell'introduzione ha recitato la famosa poesia "A chi esita" di Bertolt Brecht; è morto, Brecht, lo stesso anno in cui lui è nato. Poco più di un mese dopo; lui nato il tre di luglio, e Brecht morto il quattordici d'agosto del '56.

Poi, il documentario. Non lo avevo mai visto. Me lo sono guardato non tra le file dell'auditorium; casualmente ho scovato una sedia vuota, una sola, su una specie di rialzo che dava sulla porta del giardino; e c'era pura una bella ringhiera per poggiarci sopra le gambe. Davanti a certe cose, Almirante e Junio Valerio Borghese che parlano in francese, o a Mario Scelba, ho bisogno di starmene ragionevolmente da solo. Però quando, ad un certo punto, ho sentito la voce di quel pezzo di merda di Luciano Lama intervenire ai funerali dei morti della bomba di Piazza della Loggia, non ce l'ho fatta; ho berciato un "ma vaffaculo" e me ne sono uscito nel giardino a fumare un mezzo sigaro. Dev'essere stato lì che m'è venuto in mente di fare il cattivo bidello, dopo.

Dopo il film, il dibattito. Pare che questo classico sia sopravvissuto a tutta una serie di "mutate condizioni", e poi la serata era stata organizzata dagli studenti per gli studenti tant'è vero che la sala era piena...di sessantenni. Il dibattito doveva consistere, come detto da un giovanotto che studia, nell'individuare "analogie e differenze"; così mi sono, all'improvviso, trasformato in cattivo bidello. 

Logico che io non possa nutrire nessunissima ambizione, o velleità, o possibilità di fare da "cattivo maestro"; prima di tutto perché non avrei nulla da insegnare né da addurre come esempio. Non ho "fatto" niente; non ho rovesciato autobus né impedito comizi missini; non giravo in motorino mentre arrivava la notizia della morte di due compagni in una rapina; non ho sognato di fare la rivoluzione quando sembrava là dietro l'angolo ed era dato crederci. Nulla che possa "comunicare" direttamente, insomma; solo brandelli, esperienze a volte strampalate e sotterranee, disiecta membra rimessi insieme, e parecchio male, con lo sputo. All'università, beninteso, c'ero negli anni '80; quel che ho vissuto là dentro significava che all'ingresso si vedevano già, e indisturbati, i banchetti e le stronzate degli Studenti Cattolici, e persino un enorme manifesto a collage degli stessi all'ingresso in Piazza Brunelleschi, che riproduceva "Guernica" di Picasso con la scritta "La prima politica è vivere". Ma andassero in culo! E io lì come un cretino a studiare antichi poemi islandesi e roba del genere, nelle mani di un pezzo di merda che girava in Mercedes ma che diceva di votare per il PCI. 

Non sono abilitato a nessun tipo di "insegnamento", quindi;  e me ne tengo rigorosamente lontano. L'unica cosa che credo di aver sviluppato, nella mia vita, è legare pezzi di ricordi (perché ad esempio, della cacciata di Lama dall'università di Roma mi ricordo davvero, quattordicenne e puzzolente), un vero e proprio puzzle, all'apprendimento dai libri e dalle persone che hanno realmente partecipato a determinati avvenimenti e che hanno recato con sé modi di pensare e di agire. Avendo a che fare con me si deve tenere presente questa cosa, che si è incrociata con la mia capacità mnemonica, che non so nemmeno come definire. Provengo da tutto questo, ed è stata una strada maledettamente accidentata; dico soltanto che, probabilmente, le persone che più mi hanno influenzato, e continuano a farlo, per un motivo o per l'altro hanno finito col detestarmi o addirittura col cancellarmi dalla loro vita. Ma poiché mi sono imposto di essere oggettivo sempre e comunque, non posso fare a meno di dire questo. Può darsi che succederà ancora, e magari anche con persone che attualmente mi sono carissime.

Tutto ciò ha fatto emergere in me, però, una specie di "spirito di servizio". E' un'espressione veramente orrenda, ma non so se potrei trovarne di migliori. Non posso "insegnare" in alcun modo, nemmeno con una semplice testimonianza o una partecipazione, ma metto a disposizione quel che so e che ho elaborato da ricordi diretti, pagine e racconti. Cerco di spazzare la scuola frequentata da una parte dai giovani cui non posso certo più dire di appartenere, a cinquant'anni; e, dall'altra, da quelli della generazione precedente alla mia, in cui ho cercato spesso di entrare abusivamente finché non mi son reso conto, non di rado in modo amaro, che si tratta di una cosa la quale mi ha alienato nel senso più vasto del termine. Però c'è un terzo lato, che poi è quello che più sento. Sia andata come sia andata, alla fine le cose mi sono apparse chiare e con tutto il loro carissimo prezzo, e dalla parte da cui mi sono messo non si torna più indietro. Indi per cui mi sono messo a fare, in quella "scuola" di cui parlavo prima, l'unica attività che ritengo mi sia consentita: quella del cattivo bidello. L'inserviente che dà una mano sia all'alunno che all'insegnante. Quello che rimette a posto le cose e si azzarda a dare qualche utile suggerimento, ma sempre mettendo in chiaro di non essere altro che un bidello. Mi si scusi per questo fluviale preambolo, ben più lungo di quanto seguirà.

Così, ad esempio, prendendo la parola mi son permesso, da bidello, di suggerire agli studenti di venti o venticinqu'anni che, essendo stato girato il documentario nel '74 non si faceva ancora menzione di una cosa, o di una scelta, o di un'opzione, o di una strada; la si chiami come si vuole. Il 18 aprile 1974 le Brigate Rosse rapivano il giudice Mario Sossi, a Genova; un ragazzo a breve distanza da me ha fatto una faccia un po' strana, mezza stupita e mezza spaventata. Bisognava legare tutti i fatti e tutte le figure presenti nel documentario di Pietrangeli a ciò che è anche venuto dopo, tenendo presente del fatto che tra gli studenti presenti nell'auditorium ieri sera ve n'erano alcuni che hanno ammesso candidamente di non sapere a quale "episodio" ci si stesse riferendo nell'introduzione quando parlavamo dell'operaio tedesco Horst Mader e della sua famiglia sterminata. Il documentario non ci arrivava, al 1980. Non poteva arrivarci.  

E così, mentre qualche sessantenne "che c'era" scuoteva la testa e i ventenni o poco più facevano facce bizzarre, il dibattito ha preso una strada attuale, chiamiamola così. E' intervenuta una ragazza di ventiquattro anni, C., la quale ha parlato della sua generazione.  Ne è venuta fuori una serie di cose agghiaccianti. I desideri ideali compressi nell'inutilità, detto in sintesi. Tutto vanificato sia dallo scarso numero, sia dalla mancanza di un qualsiasi punto di riferimento ideale e ideologico. La riduzione di tutto ad azioni e iniziative effimere. La memoria sfracellata. La "comunicazione" impossibile; e visto che C. insisteva tanto su questo punto, mi son permesso di domandarle -infilandoci anche un par di bestemmie- com'era possibile tutto questo nell'odierna orgia "comunicativa" che mette a disposizione strumenti che tre o quattro decenni fa erano pura fantascienza. Le ho chiesto se aveva mai visto, anche in fotografia, un ciclostile. Ne è venuta fuori un'ammissione: l'ipercomunicazione non serve a nulla. L'ipercomunicazione non crea interesse, idee e azioni: è semplicemente e totalmente fine a se stessa. Si autoriproduce. Ne è venuta fuori, soprattutto, una generazione già disillusa e schifata a molto meno di trent'anni, immobile, bloccata. Incapace di spastoiarsi dalla pania dove per metà l'hanno infilata, e per l'altra metà si è infilata da sola. "Noi ci proviamo, ci proviamo, ma non ci ascolta nessuno", diceva la ragazza. E domandava: Come possiamo fare? Come possiamo fare?

Sarebbero dovuti intervenire i "maestri", credo; e io sarei dovuto tornare a spazzare e a riporre le cose, da buon bidello cattivo. Ma siccome i maestri, a parte uno che ha ricordato d'andare in una certa piazza il venticinque aprile, stavano zitti, mi è venuto di dare qualche possibile risposta. Alla buona, come si conviene a un bidello. Così, ad esempio, alla ragazza che chiedeva "quale linguaggio si dovese parlare" ho ricordato che -a volte- un modo opportuno di "comunicare" consiste nel tirare una bella pattonata nel muso a certa gente. E' un linguaggio di immediata comprensione, specialmente per certa gente; ed a volte occorre davvero parlare il linguaggio degli altri, tipo a nemmeno duecento metri di distanza da quella piazza Dalmazia del signor Casseri di Casapound. Ci si va in nemmeno cinque minuti a piedi, da lì dov'eravamo, in piazza Dalmazia. Naturalmente c'è il linguaggio e il metalinguaggio; il linguaggio della pattonata (tirata bene, forte, a far male) che stavo nominando sottintendeva ovviamente il metalinguaggio del rifiuto della "legalità" di un regime che ti manda in galera, oramai, per aver tirato due uova o ti affibbia sette anni per un sampietrino. Nemmeno con le leggi speciali votate dal PCI (sì, ho ricordato anche quello, sì) succedeva tanto.

E poiché la cosa, dal primitivo "antifascismo" si stava spostando decisamente sul famoso "futuro", o meglio sulla sua "mancanza" che è uno dei cavalli di battaglia sia della generazione interessata, sia dei loro padri e nonni che la stanno distruggendo senza nemmeno ricorrere alla galera e all'eroina, ho provato a dire alla ragazza, e a tutti i ragazzi presenti, che magari sarebbe l'ora di finirla con tutto questo "futuro", e di mandarlo una buona volta affanculo. Una generazione intera massacrata a colpi di futuro; non si era mai visto. Succede quando il "futuro" è interamente circoscritto nel circolo prefissato del "lavoro", del "mercato", dell' "occupazione", della "famiglia"; oramai non sono capaci neanche più di offrire un avvenire da schiavi. Così, ecco il linguaggio dell' Andare Oltre. Di spezzare questo cerchio, sia riprendendo vecchie cose, sia immaginandone di nuove; e il bidello deve aver fatto due grammi di breccia, avendo visto qualche sorriso sulla faccia di quei baby-disillusi. Il fatto gli è che io mal sopporto i disillusi coi capelli bianchi, figuriamoci quelli che hanno passato da poco l'adolescenza (o non l'hanno ancora passata). Il "futuro" di lorsignori e delle loro strutture deve essere semplicemente distrutto, prima che distrugga voi. Anzi, che distrugga tutti noi.

Sarei dovuto, se fossi stato un bidello completamente cattivo, andare più in là. Non l'ho fatto.  Altri volevano parlare, giustamente. So ancora riconoscere il limite, spesso sottile, che passa tra l'espressione di idee e di fatti, e lo show personale. Niente di tutto questo; avevo solo voglia di gettare dei sassi nello stagno che mi sembrava di aver percepito, uno stagno che -peraltro- chiedeva quasi disperatamente che qualcuno finalmente si decidesse a buttarci dentro qualcosa. Però, qua sopra, quasi alle quattro di mattina, c'è un'ultima cosa che mi preme dire. Chissà se qualcuno di quei ragazzi mi leggerà, e se mi leggerà anche qualcuno di quei sessantenni e oltre con l'impieghino statale o qualcosa del genere.

Mi preme dire che quel cerchio dentro al quale sono imprigionati quei ragazzi e quelle ragazze, e nel quale siamo probabilmente imprigionati tutti noi, ha un nome. Si chiama: Borghesia. 

Nulla esce fuori, se ci pensiamo, dai desideri e dalle aspirazioni borghesi. Se una data generazione è stata capace, pagando un prezzo mortale, di spezzarlo almeno un po', è perché proveniva da una situazione storica, sociale e economica molto diversa da quella di adesso. L'apprendimento di quella generazione, avvenuto che sia nelle aule universitarie o nelle fabbriche, nelle strade o nelle assemblee, negli scontri o nei momenti di riflessione e introspezione, è stato fatto con un desiderio fondamentale, e comune a tutti: cambiare il mondo. Il mondo è quella cosa che può andare dalla strada di casa fino al bar al termine dell'Universo. Quello e null'altro. I desideri attuali, sia pure spinti dalle migliori intenzioni, si fermano alla soddisfazione delle proprie vitucce borghesi di merda. Questo il risultato perfetto di trent'anni e più di sterminio; i giovanotti che, dopo aver sbattutto contro il muro insanguinato di Genova, affollano le sfilate a base di donciotti e di magistrati "democratici", gli stessi che non esiterebbero un istante a dar loro un 270 bis per un petardo. Gli "antagonismi" ridotti a ghetti. La disperazione indotta soltanto dall'impossibilità di omologarsi. Si capisce quindi molto meglio perché sia stato concesso il palliativo della finta "comunicazione universale", la cui natura è invece soltanto quella di una capillare (e ferrea) forma di controllo. Quelli credono di "comunicare", mentre invece è come se avessero una telecamera personale fissa addosso. Se non "ce la fanno" da queste parti, fanno i "cervelli in fuga", e per fuggire dove: in una borghesia che parla un'altra lingua, ma ha gli stessi meccanismi perversi di tutto quanto il capitalismo. Magari sarebbe acconcio specificare che le "fughe" di quarant'anni fa avvenivano invece per due motivi solo apparentemente diversi: l'emigrazione delle masse a fare i Gastarbeiter nell'Europa del Nord, oppure scappare dall'esser presi e ingabbiati dallo Stato. Ora fuggono i "cervelli", prima fuggivano braccia e gambe. Alle quali, però, era collegato un cervello che, spesso, pensava cose parecchio più grandi di questi ragazzi che iersera, a un certo punto, sorridevano e mi salutavano a guancia guancia bacino bacino senza che li avessi mai visti prima. 

Chissà.

Certo che non c'è mica da illudersi troppo; figuriamoci.

A questo punto, in questo lunghissimo "post", ci starebbe bene la classica immaginetta simboleggiante la "disillusione"; facciamo conto che ci sia.

Sono stati, naturalmente, ragionamenti da cattivo bidello. Più ci rifletto, e più penso che davvero non mi riuscirebbe andare più in là. Concetti base, niente di più; probabilmente assai rozzi. Ciononostante, è quello a cui sono arrivato nella mia vita. Altro non mi riuscirebbe oramai fare. Buonanotte.

martedì 9 aprile 2013

Nove aprile. Uno nacque, uno morì.



 = Gian Maria Volonté =
9 aprile 1933 - 6 dicembre 1994




Fammi vedere una prigione, fammi vedere una galera,
Fammi vedere un prigioniero con la faccia impallidita
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.

Fammi vedere il vicolo, fammi vedere il treno,
Fammi vedere il vagabondo che dorme fuori, sotto la pioggia,
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.

Fammi vedere le macchie di whisky sul pavimento,
Fammi vedere l'ubriaco che inciampa fuori dalla porta,
E io ti farò vedere un ragazzo, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel ragazzo non sia io o te, io e te.

Fammi vedere la carestia, fammi vedere la debolezza,
Occhi senza futuro che mostrano i nostri fallimenti,
E io ti farò vedere dei bambini, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quei bambini non siamo io o te, io e te.

Fammi vedere il paese dove son dovute cadere le bombe,
Fammi vedere le rovine degli edifici una volta tanto alti,
E io ti farò vedere un giovane paese, e ci son molte ragioni
Che, solo per caso, quel paese non siamo io o te, io e te.



Avete visto le grazie della signora di ferro,
gambe d'acciaio, cuoio sulle braccia
che porta un uomo a morire,
occhio per occhio e vita per vita
e la morte è la signora di ferro sulla sedia

"Porre fine agli omicidi, deterrente per il crimine,
solo uccidere mostra che uccidere non paga",
certo, questo è il genere di legge che porta
anche se facciamo qualche errore
e qualche volta mandiamo l'uomo sbagliato sulla sedia

Nel braccio della morte a aspettare il loro turno
senza tempo per cambiare, senza una chance per imparare
a aspettare che qualcuno li chiami
dicendo: è finita, dopo tutto
non dovranno affrontare la giustizia della sedia

Appena prima gli servono l'ultimo pasto,
gli rasano la testa e gli chiedono come si sente
poi il secondino viene a dirgli addio
arrivano i giornalisti a guardarlo morire,
guardarlo morire mentre lo legano alla sedia

E il cappellano legge l'ultima preghiera,
"Abbi coraggio, figlio mio, il Signore ti attende lassù,
oh, uccidere è sbagliato, lo vedi,
e la Bibbia concorda coi tribunali
che lo Stato ha il permesso di uccidere sulla sedia"

E in tribunale attento al piatto della bilancia,
se il prezzo è giusto c'è tempo per ulteriori appelli
allentano le cinghie e spengono l'interruttore
vengono pagati gli onorari dei migliori avvocati
e un ricco non è mai morto sulla sedia

Avete visto le grazie della signora di ferro,
gambe d'acciaio, cuoio sulle braccia
che porta un uomo a morire,
occhio per occhio e vita per vita
questa è la signora di ferro sulla sedia.


= Phil Ochs =
19 dicembre 1940 - 9 aprile 1976 

Privatizzazioni







Come dovremmo onorarla [la Thatcher, ndr] dunque, si è chiesto il regista. «Privatizziamo il suo funerale. Lo mettiamo sul mercato e accettiamo l’offerta più economica. È quello che avrebbe voluto».

= Ken Loach =

lunedì 8 aprile 2013

E ora vai all'inferno !


Questa, naturalmente, è una sedia elettrica.

Negli Stati Uniti, viene chiamata "The Iron Lady", la signora di ferro. Esiste anche una (terribile) canzone di Phil Ochs che si chiama così. 

L'identità tra la sedia elettrica ed il pezzo di merda che oggi è deliziosamente crepato mi sembra assolutamente totale. Che vada all'inferno assieme al suo amicone Pinochet, e con tanto di presenza del loro altro amichetto, Karol Voitila detto Le Sbavateur.


venerdì 5 aprile 2013

Lectura Dantis


"Quell'ex BR non canti il Paradiso!"

Così ieri ha tuonato, sembra, tale Valerio Vagnoli, dirigente del "Saffi". In pratica, il preside di una scuola superiore di Firenze, il quale si è accorto che nel prossimo mese di maggio, nell'ambito della "Lectura Dantis", una di esse sarà tenuta dal professor Enrico Fenzi, ex docente di letteratura italiana presso l'università di Genova nonché, attualmente, studioso di rinomanza internazionale del Petrarca e, per l'appunto, di Dante. Ed anche ex membro delle Brigate Rosse.

Come si legge sul Corriere Fiorentino, il preside Vagnoli è ferocemente avverso al fatto che un ex brigatista legga Dante; chiede "rispetto per le vittime degli anni di piombo" ed accompagna questa sua richiesta con un'autentica "lezione morale": «Provo fastidio a vedere personalità che hanno contribuito a dare all’Italia anni di inferno elevarsi al ruolo di educatori. E leggere uno dei poeti che sulla libertà non ha detto delle banalità».

Ho pensato allora di riequilibrare un po' la cosa, peraltro certo del fatto che qualche Vagnoli del XIV secolo avrebbe trovato assai da ridire sull'importanza attribuita al poema di un fuoriuscito scacciato ignominiosamente dalla città di Fiorenza, sobillatore, fiero odiatore dell'ordine costituito e spregiator di tutte le istituzioni: cosi ho contattato Dante Alighieri (non ci credereste, ma ci ho alcune entrature) e gli ho proposto di leggere, lui, un comunicato delle Brigate Rosse.

L'Alighieri si è dimostrato entusiasta della cosa; mi ha fatto sapere che accettava di buon grado, ha voluto informarsi sommariamente sul professor Enrico Fenzi e, una volta edotto, si è spinto ad esclamare: " 'E fece dimolto bene!" Unica condizione che ha posto, è che il comunicato delle Brigate Rosse fosse da lui letto a modo suo, vale a dire in regolari terzine. Dantesche, giustappunto; sennò che divin poeta sarebbe?

Gli ho sottoposto quindi il secondo comunicato delle BR del 15 dicembre 1980 relativo al rapimento del giudice D'Urso (che fu poi liberato il 15 gennaio 1981). Ovviamente Dante, essendo occupatissimo, non ha potuto leggerne dantescamente che una parte; ma, comunque, la cosa renderà l'idea e, soprattutto, un po' di giustizia alla faccia del preside del "Saffi".

A mo' di confronto faccio precedere il testo originale della prima parte del comunicato:

SMANTELLARE IL CIRCUITO DELLA DIFFERENZIAZIONE.
COSTRUIRE E RAFFORZARE I COMITATI DI LOTTA.
CHIUDERE IMMEDIATAMENTE L’ASINARA.
Ogni operaio, ogni proletario che non si arrende, che continua a combattere contro i padroni, per una società senza sfruttamento, pone la lotta per la distruzione delle carceri imperialiste al centro degli interessi della sua classe.
La borghesia vuota le fabbriche e riempie le galere
Lo Stato borghese e il suo regime per sperare di sopravvivere deve assolutamente annientare qualunque espressione della lotta di classe. Dalla fabbrica dai quartieri proletari deve essere cancellata ogni volontà di lotta, ogni presenza antagonista, ogni traccia di organizzazione proletaria. All’interno di questa strategia di controrivoluzione preventiva la borghesia assegna al carcere un ruolo fondamentale: annientare politicamente e fisicamente l’avanguardia del proletariato metropolitano, neutralizzare e rendere impotente una intera fascia di proletariato emarginato dalla produzione.

Questa invece la Lectura Dantis di Dante stesso:

Organizzar de' proletari la liberazione
che ne le carcere istanno pregionieri;
e lo circuïto della differenziazione

smantellar, e costruire co' pensieri
e rinforzar della lotta i comitati;
e serrar oggi domani ed anco ieri

l'Asinara; onne operajo e tutti i salariati
che non si rendan e la lutta trànno avanti
contro i patroni ché più 'e non sien sfruttati

da essi in societade d'uguaglianti;
e posta fia la base al sagrificio
delle galere imperialiste e sudditanti.

Empie la carcere e svota l'opificio
la borgesia insieme al su' regime;
lotta di classe induce a veneficio

e la presenza antagonista opprime.
Onne traccia dell'organizzazione
de' proletari sparisce e si comprime;

e la galera ha inver dominazione
e'l fisico annientar dell'avanguardia
del proletar della cittade impone.

Il disertore del lavoro



Da cantarsi sull'aria del "Disertore" di Boris Vian. Ultimamente ho saputo che si dice "détournement" e che era una specialità dei situazionisti; o sta' a vedé che so' situazionista pure io!

In piena facoltà,
egregio direttore,
le scrivo con il cuore,
e spero leggerà.
'Sta letterina qui
la manda un po' a cacare, *
smetto di lavorare
da questo giovedì.
Ché io non sono qui,
stimato direttore
per dare le mie ore
a questo o quel padron;
io non ce l'ho con lei,
ma le dico sul viso:
è un pezzo che ho deciso,
diserto dal lavor.

Non se ne pòle ** più
di morir giorno giorno,
mi levo un po' di torno
e non ritornerò;
non me ne frega no
di economia e mercati,
consumi e consumati,
e disoccupaziòn.
Per tutta la mia vita
mi sono fatto un mazzo,
e mi son rotto il cazzo
di questa schiavitù;
domani mi alzerò,
addio allo sgobbo infame,
le lascio il suo letame,
non mi riguarda più.

Come vivrò 'un si sa,
ma sono cazzi miei,
meglio di quei babbei
che crepano ogni dì;
e a tutti griderò
di smetter di affannarsi,
di smetter d'ammazzarsi
per non importa chi.
Non mi suiciderò,
niente disperazione!
Ma vacci te, coglione,
a buttarti sotto al tren;
e dica pure ai suoi
se vengono a cercarmi,
non possono trovarmi,
ho spento il cellular.

* I fruitori settentrionali possono leggere qui "cagare".
** "Può". Toscanismo spaventoso.

mercoledì 3 aprile 2013