sabato 26 aprile 2014

Uno sbarco in casa





Quante volte ne avrò sentito parlare, fin da quando ero piccolissimo. Lo sbarco alleato del 17 giugno 1944 all'Elba. Sì, d'accordo, all'Elba per gli storici, o comunque per tutti coloro che non fanno, e non possono fare, nessuna differenza tra un punto o l'altro dell'isola. Per me la fa. Qualche volta ne devo aver fatto cenno su questo blog, fra un attentato all'onore e al prestigio e l'altro: non tutti possono dire di avere avuto un intero sbarco alleato in famiglia. Perché per me non si tratta del semplice "sbarco all'Elba", ma dello sbarco a Fonza.

A Fonza abitava tutta la mia famiglia, all'alba di quel 17 giugno 1944, in una casa e in un magazzino. Mia nonna, che era vedova di un operaio morto sul lavoro; mia madre, che non aveva allora nemmeno undici anni e che era stata letteralmente sfamata da un soldato tedesco che la aveva come adottata; i miei zii e le mie zie, tranne uno che era già morto in guerra a capo Matapan e una che era emigrata in Argentina; i miei bisnonni.

Sulla spiaggia sassosa di Fonza fu gettata la testa di ponte dello sbarco, all'alba di quel giorno. L'Operazione Brassard, partita da Bastia in Corsica e affidata in massima parte alle truppe coloniali, i tirailleurs senegalesi comandati dall'ammiraglio De Lattre de Tassigny. Il motivo per cui, nel vecchio cimitero di Marina di Campo, a San Mamiliano, si trova tuttora una lapide in arabo con la mezzaluna e i versetti del Corano.

E fu così che la mia famiglia si ritrovò un esercito intero in casa, quella mattina. Non sarà stato lo sbarco in Normandia, ma uno sbarco era e fu una carneficina, come tutti gli sbarchi. Prima, raccontava mia mamma, raccontava la mia bisnonna, raccontavano i miei zii, era stata messa fuori uso la batteria del Capo Poro, con certi strani accidenti che i libri di storia non raccontano; poi i traccianti, e infine, tra le quattro e le cinque di quel mattino di giugno, lo sbarco vero e proprio sulla testa di ponte.

Tutto raccontavano. Le navi e i pontoni. Il fumo irrespirabile. L'altra batteria del Monte Tambone, alle spalle di Fonza, che sparava. Zio Mario che apriva la porta del magazzino, che era stato requisito per metterci dentro i feriti. I morti che venivano portati via sulle navi. La bandiera francese piantata sul tetto del magazzino. I muli in mare. Le truppe che salivano su per le cóte dietro Fonza. Lo sbarco vero e proprio sulla spiaggia di Marina di Campo, verso le dieci del mattino; e la spiaggia era minata. Una strage. Una parte del paese distrutta, coi feriti sistemati anche nell'unica osteria del paese, il Sor Elio.

Mi mancavano diciannove anni a nascere. Tutte cose che avrò sentito decine e decine di volte nel portico di casa, da mia madre, dalla zia Clara, dagli altri zii che non ci sono più; e anche la Clara se ne sta per andare, oramai in un mondo tutto suo. Dicevo sempre: come esserci, da quei loro racconti. Non sapevo che qualcuno aveva messo in rete, su YouTube, tutto il filmato di quel giorno, girato dagli alleati durante lo sbarco. Me ne sono accorto oggi. Ventisette minuti.

E allora mi sono fatto quei ventisette minuti di brividi. Tutti i racconti della mia famiglia che diventavano immagini. L'alba a Fonza, i traccianti, i muli, Capo Poro, i soldati, i prigionieri; forse ci sarà stato anche quel tedesco, Galfe Gustalfe, o Gustav Galf, che sfamava mia madre, che la chiamava Luzia e le insegnava il tedesco. I Babacar, i Mamadou e chissà chi che morivano all'Elba dopo esser venuti dalla Casamance o chissà da dove, e che si preparavano a due giorni di saccheggio libero e di stupri, come da usanza bellica concessa dai comandi; mia nonna reagì e ne prese uno a secchiate sul capo, decisa piuttosto a farsi ammazzare. Ma il senegalese scappò via, forse più che altro sorpreso dalla reazione inattesa.

Il magazzino "con la porta mezza aperta": lo aveva aperto zio Mario, che era il figlio maschio più grande disponibile (zio Mamiliano era in fondo al mare, e zio Ulisse era soldato). Ad un certo punto del filmato si vede il magazzino, con la porta mezza aperta; e s'intravede qualcuno sulla soglia. Dev'essere mio zio. Può esserlo, perlomeno. La bandiera francese sul tetto, accanto al "comignolo di forma strana"; tra virgolete metto tutte quelle espressioni che ho sentito dire così, fin da quando mi son cominciati i ricordi. Si vede ogni cosa.

Mentre guardavo per la prima volta quel filmato, ho telefonato a mia madre; ha ottantuno anni, ora. Le ho fatto una specie di telecronaca al telefono, in attesa di pigliare il computer e portarle a vedere tutto. A un certo punto anticipava il film; mi diceva, "Guarda, ora si deve vedere questo, si deve vedere quest'altro", e si vedeva. Per lei sono cose viste coi suoi occhi di bambina, cose di un'altra epoca e di un altro mondo. La guerra che arriva in una casa e in un magazzino, su una spiaggia dimenticata da Dio vicino alle vigne, al gatto che dormiva, al somaro, ai fratelli, alla mamma. Da quello sbarco in casa, da quella Normandia in sedicesimo, da quei reticolati, da quei ragazzi di ogni parte mischiati nella macelleria. Tedeschi, senegalesi, francesi, elbani, elbane che furono prese e stese gridando in mezzo a un campo o fra le macerie di una casa.