lunedì 14 aprile 2014
La dolce vita
Stiamo venendo fuori da
trent'anni di niente. Giusto, forse ci abbiamo provato tredici anni
fa, dalle parti di Genova; siamo stati massacrati due volte. La prima
dallo Stato e dalle sue polizie, la seconda dall'insipienza che ci
portiamo addosso, insipienza che ha avuto la sua consacrazione il 15
ottobre 2011 a Roma e che ha trovato la sua fine naturale nella
delazione e nell'accettazione sempre più passiva della legalità.
Le famose uova sono figlie di tutto questo; ebbene sì, kein Ei ist
illegal. Andrà a finire che, alle manifestazioni, ci andremo
direttamente con le galline; persino a quelle dove la partenza della
bambola è ampiamente preannunciata. Continueremo a “concordare
percorsi” con le Qvestvre, tunnel compresi, aspettando che
l'Angelino di turno non si lasci sfuggire la ghiotta occasione per la
“prova di forza”. Lo abbiamo già visto come va, no? La
preparazione è sì capillare, senz'altro, ma non ha alcun elemento
nuovo. Tutto vastamente prevedibile. Prima si mettono in azione i
media, per creare allarme nella preoccupata popolazione e nella maggioranza silenziosa;
si manda in avanscoperta il Tempo
di Roma e merda del genere, che però è ben conosciuta. Poi si
impone un percorso, tappando scientificamente ogni via di fuga con
duemila ringraziandi da Angelino; e poi si parte verso il macello,
naturalmente festosi.
Certo, dopo trent'anni di niente è lecito aspettarselo. E c'è
persino chi ancora blatera di infiltrati,
i “bloc” da neri so' diventati blu, e compagnia brutta; noi
saremo tutto, noi vogliamo tutto,
ma a mio parere sarebbe opportuno, ora come ora, essere un po' meno e
volere qualcosa. Per esempio: essere più organizzati e volere dei
servizi d'ordine decenti. Essere non scoperti ai lati durante i
cortei e volere non essere sempre alla più totale mercé degli
sbirri. Perché questo è successo sabato 12 a Roma; che lo vogliamo
o meno, come sempre sono stati loro a fare il bello e il cattivo
tempo. A permettere e a bloccare. A attaccare e a fermarsi. Hanno
dettato loro i tempi e gli eventi; e noi tutti dietro, con le nostre
ovette e le verdurine. Del resto, è vero, non si possono lanciare ossi di bistecca; e chi la vede più, la bistecca.
Da
questo punto di vista, l'importanza di quel terrificante tunnel che
abbiamo dovuto
percorrere dopo piazza Barberini potrebbe essere molto grande. Una
specie di tunnel di coscienza, nel quale tutti siamo stati obbligati
a porci certe domande e a darci delle risposte nell'urgenza della
paura e doloranti da tutte le parti per le botte prese. Forse,
chissà, ci avevamo bisogno di un'altra conferma; si passi pure che
il ricordo di Genova sia sfumato, ma dopo Genova non è che le cose
siano andate diversamente. Nelle uniche occasioni in cui si è visto
qualcosa di diverso, il 15 ottobre e il 14 dicembre, sono fioccati
distinguo, prese di distanza, “condanne della violenza”,
delazioni organizzate; e questa non è una bella premessa per “essere
tutto”. S'avesse finalmente a prendere atto che un “confronto”
con questo Stato e con tutte le sue “istituzioni” di merda non
soltanto non è possibile, ma che ha come unico risultato sempre più
repressione indiscriminata. Mi auguro che quel tunnel abbia schiarito
le idee a tutti, e non importa stare a vedere se alla manifestazione
prima s'è in sessantamila e a quella dopo in ventimila. Non è più
questione di numeretti da dare in pasto all'illusione di turno, ma di
organizzazione e di chiarezza estrema per quanto riguarda i rapporti
di forza e gli obiettivi concreti da porsi, obiettivi da raggiungere
non roboanti ma efficaci. A partire dal fatto che manifestare non
deve essere un “diritto” benevolmente concesso e regolato secondo
le loro modalità, ma qualcosa che ci prendiamo e basta. Senza
“percorsi” e altre stronzate che portano alle piazze Barberini
del cazzo, ma -ad esempio- comunicando un percorso e facendone un
altro preparandoci ben bene all'evenienza senza tanti “obiettivi
simbolici” da prendere a verdurate ricavandone cariche affrontate
come se la Lodigiani volesse impegnare il Barcellona. E basta anche
con tutine, k-way, stronzate monocolori, “bloc” e puttanate del
genere; riscoprire la valenza e l'efficacia delle magliette
qualsiasi, delle camicine del mercato e dei capi d'abbigliamento del
tutto anonimi, come certe magliette a strisce che, a suo tempo,
fecero vedere i sorci verdi ai celerini. Penso che, dopo trent'anni
di niente, ci sia di nuovo bisogno di dire queste semplicissime cose
in circostanze che tornano a giustificarlo. Io non sono tutto e non
voglio tutto: sono uno in mezzo a cinquanta, a mille, a ventimila o a
sessantamila “uni” come me che sono fatti, come tutti gli altri,
oggetto di distruzione e di odio da parte del potere capitalista.
Quindi è mio dovere difendermi e contrattaccare in modo efficace; e
non ci si difende, né si contrattacca, con gli slogan “tuttistici”
e obbedendo alle regole imposte e ai tunnel post-mattanza. Si
rischia? Certo, Si ha paura e persino terrore? Certo. S'andrà a
finire in galera? Certo, possibilissimo. “Repressione” non è un
concetto astratto, anche se oramai te l'hanno inculcata dentro come
normalità, mascherandola sotto ridicoli nomi (come quello di
“legalità”). Repressione è avere coscienza del nemico.
Repressione è farla una buona volta finita con le baggianate della
“nonviolenza” e altre stronzate del genere; per la violenza
quotidiana dello Stato che ti attacca con le sue istituzioni, le sue
leggi e le sue polizie, le puttanate “nonviolente” sono manna dal
cielo, occasioni perfette per farti ridere addosso e per farti
prendere a calci steso a terra. Basta con le “vittime”. Non siamo
vittime, così siamo soltanto “festosa” carne da macello votata
all'eliminazione; ed è il momento di prenderne atto senza ritorno e
senza ambiguità. Non è nemmeno più questione di non andare più a
partecipare a qualsiasi farsa elettorale, locale, nazionale o
“europea” che sia; è questione di andare oltre, un bel pezzo
oltre, senza più il lusso della disorganizzazione, dei “simboli”,
dei percorsi concordati, dei tunnel. Ok, ora li hai visti all'opera,
Matteino, Angelino e Marino; l'individuazione precisa dovrebbe essere
avvenuta. Se ancora non lo hai capito, allora accomodati a vatti pure
a votare la tua lista Zipirillas o come cazzo si chiama. Vieni al
corteo, come ho visto coi miei occhi, con la bandierina di Ingroia
(“vostro onore, sei un figlio di ingroia”, come verrebbe da dire
parafrasando un famoso genovese); accontèntati del questore Pansa che “stigmatizza” il comportamento del “cretino” che prende a calci la ragazza a terra protetta dal fidanzato, e di Roberto Saviano che ci parla dei bravi carabinieri tra i quali vive, e per i quali sarebbero “senza onore” coloro che compiono atti del genere.
Acconténtati delle solite “mele marce”, da bravo. Credi nella
tua bella “democrazia” e tanti auguri; tu sì che “sarai
tutto”. Ma come vogliono loro.
E
fin qui erano le critiche da fare, che non sono più rimandabili. Un
altro corteo, o qualsiasi altra manifestazione, condotta a questa
maniera potrebbe portare alla fine di tutto. Come è successo, del
resto, a Genova. La repressione preventiva per stroncare sul nascere
un movimento nel quale si comincia a vedere qualcosa al di là del
niente. Può darsi che sia troppo ottimista, certamente; oppure che
non sia troppo “disilluso”. Del resto, come io la pensi sui
“disillusi” vari l'ho già detto troppe volte per dover
insistervi ancora sopra. Le critiche sono da fare, come è da
prendere atto di qualcosa che mi sembra profondamente diverso.
Esistono le potenzialità come esistono i limiti; e proprio per
questo sarebbe importantissimo chiarire bene entrambe le cose allo
stato attuale. Chiarire le contraddizioni e gli errori. Chiarire le
cose positive e le possibilità graduali; è bene ricordarsi sempre
che la repressione di questo genere è messa in atto proprio per
stroncare tali possibilità; è un segnale ben preciso che non va
lasciato affogare né nel vittimismo, né nell' “io lo avevo
detto”, né nell'indifferenza prerogativa di parecchi e inutili
palloni gonfiati.
In
quella piazza, in quel corteo, ho rivisto un'autentico desiderio di
conflittualità aperta, senza più mediazioni. Alla buon'ora,
verrebbe da dire; c'è voluto che la “democrazia liberale” si
decidesse finalmente a liberarsi di tutte le maschere, e che le
“istituzioni” apparissero per quello che sono. Anche per questo
motivo non ci devono più essere equivoci nella piazza, a costo di
essere duri e chiari con singole persone che possono essere anche in
buonafede. In una piazza che si pone in conflittualità e che si
organizza bene per esserlo e per rappresentare davvero un'alternativa
sistemica, gli ingroianti non ci devono stare e devono essere
allontanati senza riserve. Non ci devono stare gli “tsiprioti”
(“Tsipras, Tsipras, sarai un bel ragazzo / Ma a noi delle elezioni
/ Non ce ne frega un cazzo”: il migliore slogan della giornata). A
un certo punto pare che, da qualche parte del corteo, ci fossero pure
una decina di “Forconi” con le bandiere del “9 dicembre”; ma
non li ho visti di persona. Così non va una sega. Mucchioni e
confusioni, no bbuono.
Fuori dai coglioni e andate coi vostri nell' “altra Europa” o
dove minchia vi pare.
La
possibilità di una vera conflittualità, e di tornare finalmente sui
duri sentieri dello scontro sociale, passa anche dalla fine delle
tenere velleità, quelle a base del “tutto” per intenderci.
Altrimenti “Noi saremo tutto, ma alla fine non siamo una sega”.
Oppure, “Noi vogliamo tutto, specialmente le manganellate pe' 'un
dì' di peggio”. Fine delle “parole d'ordine”, delle
rivendicazioni ad hoc, dei “beni comuni”, della “casa” e di
quant'altro; se da un lato è certamente giusto agire nei quartieri e
nelle situazioni sociali specifiche, senza una sintesi politica e
senza una riconduzione delle rivendicazioni ad un'alternativa molto
più vasta non si caverà mai un ragno dal buco. Il che non
significa, a mio parere, “essere tutto”. Peraltro, prima di
piazza Barberini, ho fatto parte anch'io dello spezzone del corteo
che così si intitolava; e ci ragionavo sopra perché ho il
disgraziato vizio di riflettere bene su quel che sto facendo. Almeno
finché i bravi poliziotti non decidono di schiacciarmi.
Riflettevo
sul fatto che, prima di essere “tutto”, bisogna urgentemente
ricominciare a essere davvero Qualcosa. Di ben definito, di chiaro,
di non fraintendibile. Ricomiciare ad essere un Soggetto politico
totalmente al di fuori di certe logiche che, ancora, disperatamente
si vedono dove non ci dovrebbero più stare. Su tutto questo,
sicuramente, l'analisi della Militant è molto interessante e merita
di essere letta ammodino; ma con juicio.
Torno a dire che siamo in una fase in cui siamo ripartiti veramente
da zero, e tra difficoltà inenarrabili. Quel che ho visto in quella
piazza, però, mi incoraggia pur in mezzo agli errori e alle
disorganizzazioni. L'eterno tentativo stesso, del resto, di
distinguere tra una “piazza buona” e una “piazza cattiva” lo
testimonia: fa paura che, invece, di distinzioni del genere proprio
non ce ne siano state. Che anche le persone normalissime che
manifestavano, pur lontanissime dalla militanza antagonista attiva
e quotidiana, si siano ben accorte della repressione. Che gli sbirri
avessero come gli occhi iniettati di sangue e che si fossero
scatenati in una sorta di amok, lo diceva anche il pensionato con la
cravatta o la ragazzina qualsiasi. Che questi siano degli assassini
ben istruiti, lo dicevano e lo urlavano tutti. E com'è lontano tutto
questo dalle stronzate dei loro giornaletti e delle loro televisioni.
A
tale riguardo, e lo dico con estremo rammarico perché quei due
poveri ragazzi presi a calci stesi a terra i calci se li sono presi
sul serio, e il loro sangue era sangue, bisognerà pur far presente
che tutto il “battage” attuale, con tanto di Pansa e Saviano (lui
sì, che “è tutto”!), è del tutto logico e strumentale. I due
ragazzi stanno avendo la stessa funzione del pupazzetto di pelouche
fotografato tra le macerie del terremoto. Sono utilizzati per creare
commozione da un lato, e “democrazia” dall'altro. Cessano di
essere due fra le tante persone picchiate, ferite, insanguinate,
schiacciate durante la macelleria renziana, e diventano pupazzetti
per permettere al sor Questore di fare il magnanimo “democratico”
e a carta da culo come “Repubblica” di apparire “vigilante
sugli abusi”. Sarà bene tenerlo presente sempre, e non cadere pure
noi nel “simbolo”. La repressione è stata generale. Decine di
persone sono state pestate come e peggio di quei due ragazzi. Ancora
non si sa nulla dei fermati. Tra gli insanguinati c'è persino il
segretario del Partito Comunista dei Lavoratori, Ferrando. E questo bisognerà tenerlo a mente per le prossime volte.
Non
vorrei apparire ripetitivo, ma correrò il rischio. Quel che hanno in
testa questi signori, nell'interezza del loro agire politico e
istituzionale, è la nostra totale distruzione. A tale cosa non va
opposto più nessun vittimismo, nessuna vuota “lamentela” e
neppure nessuna “denuncia”. Non c'è più niente da denunciare e
le cose sono oramai chiarissime. Chi non le vede, è soltanto perché
si rifiuta di vederle; e se si rifiuta di vederle, è a un brevissimo
passo dall'essere loro complice. Passo che certa cosiddetta
“sinistra”, peraltro, ha già compiuto da tempo. A tale cosa,
adesso, va opposta la coscienza piena dello scontro in atto, scontro
che necessita di strumenti, tattiche e organizzazioni adeguate, e di
una preparazione totale. Lo scontro non è un “happening” o una
“performance”; eppure ci aveva provato già Sergio Leone a farci
presente che la rivoluzione non è un pranzo di gala eccetera. Lungi
da me, chiaramente, dal parlare di “rivoluzione”; ma anche lo
scontro sociale ha molto poco del pranzo di gala.
Continuerò
a ripetere che le critiche organizzative non possono essere
sottaciute e sminuite. Il problema tecnico e organizzativo non è di
poco conto, perché comporta dei rischi che possono essere evitati.
E' pur vero, d'altro canto, che si tratta di problemi risolvibili e
che non soltanto la coscienza, ma anche l'organizzazione, maturano
nelle lotte. A differenza della conclusione della Militant, io penso
che la definizione degli obiettivi politici rivesta la stessa
importanza dei modi per gestire la lotta al meglio; si tratta di due
cose che devono andare di pari passo specialmente in un momento come
questo. Nelle piazze, ad esempio sabato, non c'erano soltanto persone
abituate alla militanza antagonista attiva e alle sue modalità;
c'erano anche tante persone che andavano a un corteo per la prima
volta in assoluto, e che sono scese in piazza per una volontà fino a
quel momento mai espressa. La definizione degli obiettivi politici è
sacrosanta, anche perché si tratta di obiettivi che stanno
finalmente travalicando la pura e semplice sopravvivenza; ma la
definizione delle modalità di gestione va affrontata in modo
ugualmente adeguato. Altrimenti, a forza di dire che si tratta di
“problemi risolvibili” si continuerà imperterriti a fare coccodè
con le ovette. Risorvìbbili er quindici d'ottobbre, risorvìbbili er diciannove, risorvìbbili er dodici d'aprile, però nun se risòrveno. Ce volemo decide, porcoddìo...?!?
In
questi giorni, sui media di regime, sta furoreggiando un'altra cosa.
Sto parlando, naturalmente, della “guerriglia nelle strade della
Dolce Vita”, in riferimento al famoso film di Federico Fellini.
Come dire: ci abbiamo pure, tra le altre cose, pure il reato di lesa
cinematografia. Visto che lorsignori sono sempre a caccia di
“simboli”, sarà quindi bene dargliene un'altro con la speranza
che gli piaccia almeno un po'. La vita amara, anzi amarissima, è
irrotta in quella “dolce”; ché, in quel corteo, di vite amare ce
n'erano a migliaia. S'era giusto a manifestare per quello, con tanto
di “dolce vita” militarizzata. Del resto, se non erro, il film di
Fellini è del 1960; ma nel 1960, a Roma come a Genova, a Reggio
Emilia come in tutta Italia, non si gettavano uova e sedani contro il
Ministero del Lavoro. Si crepava e si sparava. Si resisteva e si
cacciavano governi fascisti. E si veniva caricati a cavallo dai
carabinieri Olimpionici, gonfi di “onore” come quelli che garbano
tanto a Robbert' 'o Gomorrista. Tra tutte le meraviglie di Roma,
comunque, via Barberini fa piuttosto schifo; e anche la piazza, in
fondo, non è un gran ché. Via del Tritone, poi, è diventata via
del Tritello. Un tritello assolutamente “democratico”. Ma
l'amor mio non muore è stato
pure un film, del 1913.
Nella foto: due festosi manifestanti, M.M. e A. E., prima di essere presi a manganellate e calci nelle strade della Dolce Vita.