martedì 28 febbraio 2017
Enne
Non so, e
non ho mai saputo, se questa storia io la abbia sentita nel portico,
quand'ero ragazzino, o se me la sia sognata in qualche recesso del
tempo; forse, tutte e due le cose. Forse anche il portico è un
sogno, e i sogni sono fatti magari anche di portici, in qualche primo
pomeriggio d'estate, quando i racconti delle donne e dei parenti sono
una specie di diversa declinazione del sonno. Non c'è quasi più
nessuno, del resto; sono passati quasi cinquant'anni.
Si diceva, e
si sognava, che c'era stata una ragazza in paese. Il paese non lo si
diceva mai. Poteva essere quel paese lì, a cinque minuti di una
strada che allora era sterrata, polverosa e senza nome, e buia come
l'inferno, la notte, se non c'era un po' di luna; o poteva essere un
altro paese dell'Isola, Capoliveri, il Poggio, Marciana Marina. Si
escludeva Portoferraio, perché Portoferraio non era un paese; c'era
questa giovane ragazza, chissà quando, che era un po' strana. Quando
si diceva “strana”, c'era sempre qualche risatina e qualche
“eeeh...”; io, che ero piccolo, non ne capivo il perché, e non
lo avrei capito nemmeno sognando. Dicevano che portava addosso non si
sa quante gioie di bigiotteria, e che cosa fosse la bigiotteria
dovevo cercare di immaginarmelo perché alla mia età il lessico non
è molto, e tutte le parole sono nuove. Il nome lo dicevano, ma non
mi riesce proprio di ricordarmelo per quanti sforzi faccia;
cominciava, mi sembra, con la N...o qualcosa del genere che mi
dovette suonare bizzarro, qualche anno dopo avrei detto “esotico”
dopo aver imparato anche quella parola. Forse, mi dicevo, non era
dell'Isola; le ragazze e le donne, all'Isola, avevano o nomi semplici
di sante (Maria, Antonia, Caterina), oppure dei nomi unici scovati
dal ghiribizzo dei genitori. Ce n'era una, famosa, che si chiamava
Eneide; un'altra, concepita di sicuro al ritorno di un soldato dal
fronte, si chiamava Guerramondiale e non si immagina come dovessero
chiamarla da piccola, tipo “monta su, Mondi...”. Il nome di
quella ragazza non doveva rientrare in quelle due categorie;
altrimenti me lo sarei ricordato. “Enne”.
Non portava
soltanto le gioie di bigiotteria, si diceva. Aveva sempre anche delle
calze verdi, che dovevano fare chissà quale impressione. Si
peritavano, nel portico, a dire che era probabilmente molto bella; in
un posto dove le calze erano sempre e solo nere, in una specie di
lutto continuato al pari dei vestiti, una ragazza di paese con le
calze verdi proprio la si notava, e la si scansava. Viveva, dicevano,
da sola non si sa in quale stanza, o tugurio; nel prosieguo degli
anni, diventato grande, mi capitò di leggere, a proposito di
un'antichissima canzone, che le “maniche verdi” erano come il
segno distintivo di una donna di facili costumi. Lo avessi saputo
allora, avrei capito, anzi non avrei capito lo stesso perché non
sapevo di certo che cosa fossero, i “facili costumi”. Io, a
cinque anni, ero innamoratissimo di una giovane sposina della casa
accanto, di quando il portico non era ancora diviso prima da una
grata, e poi da un muro. Si chiamava, e questo me lo ricordo
benissimo, Iliana; non “Liliana” o “Ileana”, proprio Iliana,
e avrà avuto, chissà, ventidue o ventitré anni. Ora ne dovrà
avere più di settanta. L' “amore” consisteva nell'immaginarmi un
uccellino, e andavo sempre a mettere il capo sotto il suo braccio per
“dormire”; dev'essere stata anche la prima volta che ho
appoggiato il capo su un seno di donna. E mi ricordo anche del
marito, un giovanottone simpatico che, anche quello lo avrei imparato
tempo dopo, portava un cognome identico a quello di un famoso
musicista d'opere liriche.
Portava
calze verdi, Enne, e viveva da sola. Insomma, faceva la puttana ma
io, quando sentivo raccontarne, cercavo di figurarmi la bigiotteria e
le calze verdi. Quasi di sicuro, se ero presente, si ingegnavano a
non farmi venire strane idee in testa, i bambini piccoli devono
essere tenuti nel loro limbo di uccellini innamorati. Mi sono chiesto
tante volte, poi, da dove sarà piovuta, la Enne, arrivata magari
alla deriva come succede non di rado nei posti a cui la sorte e la
geografia hanno riservato d'essere circondati dal mare. O forse no;
nel villaggio ci sono sempre lo scemo e la puttana.
Però si
diceva, a volte, che quella ragazza aveva avuto un padre. Si nominava
quasi sempre, a quel punto, una cosa, un “palazzo di giustizia”
che, porco pionòno, nemmeno quello sapevo che accidenti fosse. Il
palazzo, d'accordo; ma la giustizia? Che diavolo era, la giustizia? E
che ci faceva in un palazzo? Poi dicevano che il padre di quella
ragazza era innocente, e terminavo anche di fare domande.
Ripensandoci, non mi veniva nemmeno da bambino di interrompere sempre
a chiedere che cosa volesse dire una parola; ero già impegnato a
fabbricarmele da solo, le parole, e quelle le sapevo solo io.
Era
innocente. Non aveva fatto nulla. Poi partivano sempre col “Palazzo
del mistero”, ma quello lo conoscevo anche se non c'ero ancora mai
stato. Era una grotta a mare tra Pomonte e Chiessi, che ci si
arrivava giù per un viottolo scosceso che avrei fatto solo a
diciassette o diciott'anni, quand'ero allampanato e secco come un
chiodo. Chissà chi glielo aveva dato, quel nome così poetico; anche
perché, in fondo, di misterioso aveva poco. Era una grotticella come
ce ne sono tante, neanche un po' delle dimensioni d'un palazzo, e si
apriva su una spiaggetta di sassi. Non c'era quasi niente nel Palazzo
del mistero, dicevano, e giù ancora risatine; e quel “quasi”, mi
sa, voleva significare che la Enne se ne serviva per portarci
qualcuno a fare chissà cosa al sicuro da sguardi indiscreti. Beh,
giù, chissà del resto cosa ci andavo a fare, io, da ragazzotto;
allora erano già passati i tempi dell'uccellino con la testolina
sotto l'ala, come natura vuole.
Poiché, e
lo dico sempre con dieci benefici di quindici inventari, il mio
temperamento (o indole, una
parola difficile che all'inizio pronunciavo indòle)
è sempre stato romantico con qualche frequente spruzzata di
ridicolo, io m'immaginavo sì qualche piccola cosa; ma doveva essere
per forza amore. La
Enne era innamorata di tutti, portava le calze verdi e andava al
Palazzo del mistero (che ci doveva durare, poveraccia, una fatica non
di poco conto, specie al ritorno su per quelle pènte). Qualche cosa
se la lasciavano sfuggire, però; per esempio, che “dormiva con
tutti”. Ecco, andava a dormire. E faceva proprio bene, un bel
riposino in compagnia di tutti, del ciabattino, del maresciallo e
magari anche del prete. Chissà, forse anche di quel mio zio, che
all'epoca era un bel ragazzo e che è morto un mese fa quasi a
novantott'anni, con la bara portata fuori davanti all'Isola che si
vedeva chiarissima in una mattinata gelata ma che si sarebbe vista
anche l'Australia, da Piombino. Era innamorata di tutti, sì, e
quindi ci dormiva. Un bel sonnellino di quelli che, di sicuro, a quel
punto andavo a fare anch'io, lasciandoli tutti lì nel portico a
raccontarsi le storie.
Una
volta non andai a dormire. E allora sentii la fine di quella storia.
Non la avrei voluta sentire, però. Le storie dovevano essere buffe,
divertenti; i fatterelli,
come li si chiamava (la parola “storia” la conoscevo, ma per me
voleva dire soltanto di quando mi dicevano “su mangia e non fare
storie!”, e io non le facevo per niente, figurarsi). Quella non
finiva per nulla bene, non era buffa, non era divertente. Dicevano
che la Enne, un giorno, la avevano trovata morta affogata, non si sa
dove. Forse vicino al Palazzo del mistero, forse da qualche altra
parte, ché all'Isola non mancano di certo posti per affogare. A
riva, con le sue calze verdi, sbattuta un po' dalla risacca, con dei
brutti segni sul collo. Dicevano che aveva i capelli sciolti, e non
li portava quasi mai così; erano lunghissimi. Aveva una macchia di
sangue “giù”, e quel “giù” no, non sapevo che cosa volesse
dire. Tanto era morta affogata, e tanto bastò. Mi chiedo ancora
perché, quella volta, davanti a me che non avevo ancora sei anni, mi
avessero voluto raccontare quella fine, senza mandarmi a dormire; e
chissà che, quella volta, non abbia cominciato, non so dire come, a
ingrandire. Dal che, tempo tempo dopo, mi è venuto a volte da
pensare che un bambino lo si ingrandisce facendogli prendere un po'
coscienza con l'esistenza della morte. Magari raccontando una storia,
il fatterello d'una povera ragazza che aveva cambiato sonno sulla
riva del mare.
Non
era sincero nessuno. Chissà chi la aveva ammazzata, la Enne, magari
per non pagarla, per non darle quei miserandi e pochi soldi che
chiedeva. Dicevano poi che la avevano presa, e che le avevano fatto
fare un funerale alle sei di mattina, non in chiesa, in fretta e
furia, e seppellita in una tomba senza nome in un cimitero lontano, a
Portoferraio, che poi è rimasto bombardato dai tedeschi nel '43. Me
ne andai via, o forse mi rintanai in qualche sogno mentre la mi'
mamma s'arrabbiava con chi non aveva tenuto la bocca serrata davanti
a un bimbo. Me la vedo a fare
dei gesti a tutti gli altri e le altre, “giù...! giù...zitta!
Zitto!”
Nel
sogno era notte.
C'era
la Enne, bellissima, forse le davo pure la faccia della sposina della
casa accanto, quella dell'uccellino. Arrivava una persona, che mi
vedevo con l'aria triste, sperduta; e magari mi vedevo io stesso, già
grande, ché i bimbi se lo mirano nella loro nebulosa, a volte; ché
i bimbi, assieme all'esistenza della morte, imparano automaticamente
anche quella del tempo, cioè imparano tutto quel che serve della
vita e non esiste nessuna “minore età” se non per i fabbricatori
di leggi e di galere. Facciamo che ero io, quello che arrivava, nella
notte; o facciamo anche che eri tu, non importa. Era così contenta,
la Enne, che stavi arrivando; mi chiamava, o ti chiamava, persino
amore. Sono contenta che sei venuto.
E
siccome i sogni hanno il vizio di restare inalterati, e di non essere
proprio nessuna realtà parallela, ma soltanto una diversa proiezione
della realtà reale, la gratitudine che provo verso la Enne, verso
quella ragazza strana con le gioie di bigiotteria e le calze verdi, è
rimasta pari soltanto a quel granello di felicità da quattro soldi
di aver ricacciato via la sua schifosa morte, che mi avevano voluto
raccontare. Di esser passato oltre, di averla presa con me in quella
notte come ce ne sono state non poche, e nella maggior parte delle
quali me le sono dovute patullare da solo, la tristezza, la
solitudine, la cattiva coscienza o una cena di pane e rinoceronte.
Di
essere, per questo, sempre pronto a fermare ogni pensiero, a ore che
voialtri spesso non concepireste neppure, e a fare immediatamente la
Enne anche se vi toccherebbe, malauguratamente, di avere a che fare
tutt'altro che con una bella ragazza con le calze verdi e disponibile
a dormire con voi. Non si dorme affatto. Però io sono lì, e sono
contento che sei venuta, sono contento che sei venuto. Nel tuo buio
della notte, col tuo tutto e col tuo niente, col tuo bello e col tuo
brutto, con la tua indifferenza e con la tua putrescenza, con la tua
minuscola piccineria o col tuo alito all'immenso. E' questo che la
Enne mi ha mandato a dire quella volta, in mezzo a un sogno con
Paperino e a un'altro coi calciatori, mentre il portico si svuotava e
tutti se ne saranno tornati alle loro case.
Mi
sarò svegliato verso le sei del pomeriggio, sudato fradicio, ci sarà
stato lo scirocco, quel tremendo scirocco dell'Isola che trasforma
tutto in una ragnatela grassa e soffocante. Poi ci sono state le
canzoni, tanto tempo dopo, quelle non me le aspettavo di certo. La
Enne si deve essere infilata, con le sue calze verdi, nei sogni di
altri bambini lontanissimi, che però non stavano nel portico e che
la storia non la conoscevano troppo bene. Una canzone la aveva
scritta un genovese e diceva che la Enne s'era buttata dal terzo
piano col telefono rotto; l'altra era addirittura di un canadese
ebreo, e diceva che invece s'era sparata con una calibro 45. Però in
tutte e due le canzoni c'erano le calze verdi, il Palazzo o la Casa
del mistero, c'era che dormiva con tutti. E c'era, sì, che era
contenta che sei venuto. I sogni viaggiano, e i sogni sono storie,
sono fatti. Sono la realtà che si traveste, anche lei con le calze
verdi, da immaginazione. Sono isola e sono terra. Sono notte, e in
quella notte stai arrivando. E in quella notte tutto arriva, nel buio che potrebbe non avere fine come potrebbe non avere avuto inizio.
sabato 18 febbraio 2017
Via Taddea

Via Taddea è una delle più antiche strade del quartiere di San Lorenzo, a Firenze. Sembra che prenda nome da una famiglia Taddei, che qui aveva il suo palazzo dove soggiornò pure il pittore Raffaello.
Via Taddea.
E' una di quelle strade fiorentine strette, ombrose, in alcuni angoli persino buie ma che inaspettatamente si aprono in sprazzi di sole. Il palazzo nobiliare è accanto alle case della gente comune e alle vecchie botteghe e ai fondi, senza soluzione di continuità, in un'unica severità. Al numero 21 di via Taddea nacque, il 24 novembre 1826, Carlo Lorenzini detto il Collodi, l'autore del Pinocchio. Da questo vicolo partì il Burattino senza Fili per il suo giro del mondo.

A brevissima distanza dal Palazzo Taddei dove soggiornò il pittore Raffaello (al numero 17 della strada), una vecchissima e modesta casa popolare che ancora oggi è tale, coi panni stesi e le mutande a asciugare al filo sopra la breve lapide dedicata al "padre di Pinocchio".
In cima alla strada, invece, al numero 2, nel 1921 si trovava il Sindacato dei Ferrovieri.
Come ricorda la lapide, la sera del 27 febbraio 1921 la sede del Sindacato fu assalita da una squadraccia fascista, durante un'intera settimana di situazione insurrezionale a Firenze e di scontri sanguinosi. La Resistenza antifascista fu particolarmente dura proprio nei quartieri di San Lorenzo, di Santa Croce e di San Frediano, da parte degli Arditi del Popolo e delle Formazioni di Difesa Proletaria.
Durante l'assalto al sindacato dei ferrovieri in via Taddea, fu ucciso il sindacalista comunista Spartaco Lavagnini.
Quante cose in una vecchia e buia strada. Quanta gente. Il pittore, lo scrittore di fiabe, il sindacalista ammazzato dai fascisti. Mi piacerebbe, a volte, poter scrivere la storia di ogni strada, di ogni vicolo.
Ma poiché la Storia è anche fatta di immaginazione e fantasia, mi piacerebbe poter immaginare un burattino di legno, col suo vestitino di carta a fiori e il berretto di mollica di pane, che la sera del 27 febbraio 1921 sente confusione in capo a via Taddea e scende le scale di corsa per cercare di andare a dare una mano contro quegli assassini neri, proprio come quelli che lo avevano impiccato alla Quercia Grande.

Coi sui gomiti di legno e i suoi piedacci duri. Forse non ce l'avrebbe fatta a salvare il sindacalista, ma qualche stinco rotto e qualche dente fuori posto a quei maledetti glielo avrebbe assestato ben bene. Mentre, dal numero 17, accorreva il grande pittore a ritrarre il sindacalista ammazzato, nella sua morte in un vicolo della decrepita Firenze attraversato dall'Imponderabile Intrico.
giovedì 16 febbraio 2017
Surrealismo e Solitudine
L'ambientazione è stata perfetta.
Lavagna straziata dal dolore. Sembra una vecchia classe scolastica. I gessetti che piangono disperati e la cimosa piegata in due dal magone. Il parroco. Non si nega a nessuno un parroco, nemmeno a un ragazzino suicida. Un tempo, va ricordato, gli sarebbe stata negata degna sepoltura in terra consacrata, come al Miché della ballata di De André che era pure di lì vicino.
A Lavagna, fra due o tre giorni non gliene fregherà più una sega a nessuno.
Gli striscioni. Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta. Non funziona propriamente così. Bisognerebbe una buona volta abolirlo, codesto cuore. Nel cuore, che è una pompa a durata scadenziale, non vive niente e nessuno. Tutto, casomai, vive nel cervello; ma il cervello non va molto di moda, sotto questi chiardiluna.
C'è pure Guccini, tra gli striscioni. Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi. Però quello era un incidente stradale, se ben mi ricordo. Con gli incidenti stradali, ora più che altro si consumano le vendette dei gladiatori innamorati. In questo caso, in questo ennesimo fatto di cronaca nel quale m'ingaglioffo, le modalità mi sembrano tanticchia differenti.
Uno a uno. Stavolta il ragazzino sedicenne non ammazza i genitori. Stavolta il ragazzino sedicenne s'ammazza per sé. Ha in tasca dieci grammi di fumo. Arriva a casa una delle tante declinazioni di sbirri, e il ragazzino si butta dalla finestra. Non è che ci si ammazza così per giocherellare, neppure a sedici anni. In un dato momento, si preferisce la morte a qualcosa che si paventa; ed è una cosa che esigerebbe perlomeno un granello di rispetto, quello dovuto ad ogni essere umano. Il minimo sindacale, per così dire. Almeno quello.
Oltracciò, quel che sto scarabocchiando ha il grave limite di essere, per forza di cose, mediato da una qualsiasi carta da deretano che riporta "i fatti"; in questo caso, Repubblica. Si tratta di un limite desolante, qualcosa che obbliga ad una scelta. O ne parli, o stai zitto. Se ne parli, occorre accettare la mediazione di una qualche spazzatura.
Detto questo, mi corre l'obbligo di rassicurare chi eventualmente stia leggendo. Non ho la benché minima intenzione di accusare chicchessia. Non desidero spargere odio. Non mi schiero da una parte o dall'altra. Sono perfettamente conscio che il mestiere di genitore è spaventosamente difficile, tant'è vero che proprio non mi sono sentito all'altezza d'intraprenderlo nella mia vita pur essendo i miei spermatozoi regolarmente funzionanti. Mi sarebbe piaciuto, a volte, parlare un po' del mestiere di adolescente; ma, quando lo ero, i blog non esistevano. Ora che invece esistono, e sono persino passati alquanto di moda, l'adolescenza risale per me circa al tempo delle guerre puniche. Destino cinico e baro.
Quel che mi preme, invece, è attribuire ad una persona ben precisa, almeno da quanto mi è dato leggere e con il beneficio di una decina di inventari, un riconoscimento ed una sorta di premio. Il premio universale per il Surrealismo. La persona destinataria di tale premio è la madre del sedicenne lavagnese suicidato per essere stato trovato in possesso di grammi dieci di un qualche cannabinoide.
La madre del sedicenne lavagnese autodefenestratosi ha tenuto, all'altare della parrocchia in occasione del funerale del ragazzo, il discorso che riporterò tra breve e che merita assolutamente di essere tramandato ai posteri come vetta inarrivabile del Surrealismo. Impallidiscano André Breton, Luis Buñuel, Tristan Tzara, René Magritte, Antonin Artaud, Max Ernst, Philippe Soupault. Si scostino deferenti di fronte a questa madre; la quale, oltre ad aver chiamato di persona la Guardia di Finanza affinché perquisisse il figlio, la ha pure pubblicamente ringraziata per avere ascoltato il suo urlo di disperazione. Come dire: grazie, Guardia di Finanza, per avermi aiutato a sbarazzarmi di mio figlio. La cosa è abbastanza comprensibile: c'è la crisi, non si arriva alla fine del mese, un figlio adolescente costa un occhio della testa e, per di più, si fa pure le canne. Ma bando alle ciance, e consegniamo ordunque alla Storia questo capolavoro che riporto integralmente, permettendomi soltanto, dada- e surrealisticamente, di suddividerlo in cesure poetiche. In mancanza di un titolo ufficiale lo chiameremo: Un cri désesperé d'une mère de Tableaunoir.
E la mamma ha preso la parola dall'altare:
"La domanda che risuona dentro di noi e immagino dentro molti di voi è:
perchè è successo, perchè a lui, perchè adesso, perchè in questo modo?
Arrovellandoci sul perchè,
ci siamo resi conto che non facevamo altro
che alimentare
uno stato d'animo legato alla sua morte senza possibilità
di una via d'uscita.
Allora abbiamo capito che forse la domanda da
porsi in questa situazione è piuttosto: come?
Vi vogliono far credere che fumare una canna è normale,
Vi vogliono far credere che fumare una canna è normale,
che faticare a parlarsi è normale, che
andare sempre oltre è normale.
Qualcuno vuol soffocarvi.
Diventate
protagonisti della vostra vita
e cercate lo straordinario.
Straordinario
è mettere giù il cellulare e parlarvi occhi negli occhi.
Invece di
mandarvi faccine su whatsapp,
straordinario è avere il coraggio di dire
alla ragazza sei bella
invece di nascondersi dietro a frasi
preconfezionate.
Straordinario è chiedersi aiuto proprio quando ci
sembra che non ci sia via di uscita.
Straordinario è avere il coraggio
di dire ciò che sapete.
Per mio figlio è troppo tardi ma potrebbe non
esserlo per molti di voi, fatelo.
(Ha detto la donna).
Noi genitori
invece di capire che la sfida educativa non si vince da soli
nell'intimità
delle nostre famiglie,
soprattutto quando questa diventa
una confidenza per difendere
una facciata,
non c'è vergogna se non nel
silenzio:
uniamoci facciamo rete,
(Ha aggiunto).
In queste ore ci siamo
chiesti perché è successo,
ma a cercare i perché ci arrovelliamo.
La
domanda non è perché, ma come possiamo aiutarci.
Fate emergere i vostri
problemi
(Ha detto la madre ai ragazzi).
E alla Finanza ha detto anche:
Grazie per aver ascoltato l'urlo di disperazione
di una madre
che non
poteva accettare
di vedere suo figlio
perdersi.
E ha provato con ogni
mezzo di combattere
la guerra contro la dipendenza
prima che fosse
troppo tardi.
Non c'è colpa né giudizio nell'imponderabile,
e
dall'imponderabile non può che scaturire
linfa nuova
e ancora più energia
nella lotta contro il male.
Proseguite."
Di fronte ad un simile capolavoro, mi sono alzato con deferenza e mi sono tolto il cappello. Specifico che avevo sì un cappello, ma che l'ho regalato a un anarchico pisano dato che non lo portavo mai; indi per cui, il mio scappellamento è squisitamente metaforico.
Certo, in un impeto di salutare cattiveria, sulle prime mi sono immaginato la signora finalmente libera di fumarsi la cannetta che oramai non serve più al rampollo bell'e morto e sepolto; sinceramente, mi sono vergognato di me stesso. Ho conosciuto una volta una simpatica signora ultrasettantenne che si faceva il suo bravo cannino ogni tanto, è morta in grazia di Dio dopo una vita di lavoro e non si è persa. Ma sono, naturalmente, discorsi così tanto per fare. Quel che resta, è il discorso della Madre di Lavagna, che la Letteratura non potrà fare a meno di annoverare tra i suoi capisaldi con la speranza che la signora non abbia poi a fare come certi ex-surrealisti, come gli Aragon, i Dalí "Avidadollars" e gli Éluard, divenuti infamoni della peggiore specie. Ma nutro speranze positive.
Al che mi sono alzato dalla sedia e sono andato alla porta di casa. Con la sigaretta fatta con le cartine e il tabacco Pueblo. Non ci sono più i pini di fronte a casa mia, come magari saprà chi legge ancora questo blog. Non fa caldo ancora, questo no; ma nei primi giorni di malato sole...
Mi sono messo per qualche attimo a ragionare sulla Solitudine.
Ci ho avuto un rapporto normalmente complesso, con la Solitudine. Ambiguo. E surreale, appunto, com'è ragionevolmente logico che sia. L'ho mal sopportata, la Solitudine, in alcune parti della mia vita. Ho cercato di sopraffarla in qualche modo, a macchia di leopardo. I risultati sono stati generalmente disastrosi.
Alla fine mi sono accorto di essere intimamente portato alla Solitudine. Che è una compagna perfetta, e che non chiama nessuna Guardia di Finanza.
Quella Solitudine che ha la gentilezza e l'umanità di non imporsi a nessuno, che abbia cinque o novantacinque anni. Che fa fumare le sue cannette, i suoi dieci grammi di fumo, al bambino e alla nonna; e specifico che sono totalmente allergico ai cannabinoidi, se tiro anche una boccata di fumo strabuzzo gli occhi e tossisco a morte. Quella Solitudine che non va all'altare di un qualche dio di merda a tenere capolavori del Surrealismo. Quella Solitudine che non si unisce e che non fa rete. Quella Solitudine che non fa figli da perdersi per dieci grammi, e menomale che l'anima, come dicono, ne pesa ventuno.
Come finale Surreale, poniamo che quel ragazzo, anni sedici, dal suo volo sia atterrato qui da me. Per quel che mi è possibile alla mia età, lo avrei fatto accomodare e gli avrei fatto fumare la sua cannetta, come una delle ultime che mi sono fatto prima dell'insorgere dell'allergia. Me la aveva regalata un tizio che conoscevo, e che poi si è suicidato in carcere.
Gli avrei fatto conoscere i privilegi della Solitudine, dicendogli di non avercela con sua madre, povera donna all'altare, che vuole fare rete come un centrattacco, e che ringrazia pure la Guardia di Finanza. E' andata così. E' andata così. E' andata così, la sfida educativa, l'intimità delle famiglie, la linfa nuova, l'altare.
Però, sorridendo, un vaffanculo a tua madre te lo concederei. Finisciti 'sta canna, poi ci si fa un mojito. Amen.
lunedì 23 gennaio 2017
Ceux qui ne sont plus Charlie (La neve non arriva mai)
1.
Poiché, com'è arcinoto
la neve non arriva mai
l'economia ne risente,
e in un siffatto frangente
per interi settori son guai.
Si lagnano gli albergatori,
si lagnano gli economisti,
si lagnano gli sciatori,
si lagnano i ristoratori
e pure gli alpinisti.
Un giorno la neve arriva
e ne arriva pure tanta.
Lo skilift può trasportare,
via la neve artificiale,
ecco un inverno normale.
Però la neve è carogna,
io proprio non la sopporto.
Alla neve sono estraneo,
e non per niente son nato
in un paese Mediterraneo.
E mi fanno sempre un po' ridere
le torme di sci-muniti,
famiglie che fanno il telemark,
ragionieri alla Ingemar Stenmark,
fuoripistanti incalliti.
Ci sono i resort di lusso
sulle Alpi e sugli Appennini
costruiti proprio sotto
montagne da far paura:
evviva l'avventura.
Un giorno la neve arriva
e ne arriva pure tanta;
arriva, ed è pure arcinoto
dove batte il terremoto,
in luogo piuttosto remoto.
Con la stradina tortuosa
sepolta da metri di neve;
si stacca la valanga,
oppure è la slavina,
morte, lutto, rovina.
Ora la storia si fa
tragica e molto eròica.
Scrivo che ancora stanno
parecchi sepolti là sotto,
sotto l'albergo travolto.
In questo paese ci abbiamo
sempre gli eroi del dopo.
Il prima è una rete assai fitta
di idiozia e presunzione
condita di mafie e coësione.
E quando la neve arriva
ci vogliono gli spazzaneve,
ne compreresti a bizzeffe
al costo di un solo Effe
Trentacinque.
E quando la neve arriva
(peraltro ben annunciata)
dimenticato è il prima,
che fa pure la rima:
solo soccorsi e eroïsmo.
Solo nazionalismo.
Solo perbenismo.
Scordàti tutti i torti
si raccattano i morti
scavando e riscavando
ma mai nelle coscienze.
Le coscienze danno fastidio.
Bisogna restare uniti
e guai a scalfire
il fortino, il presidio.
Ché ci abbiamo sempre gli eroi
mai del prima e sempre del poi.
E quindi s'indaga a ritroso
sul solito disastro colposo,
s'indaga e s'invoca rispetto
per morti di strade sepolte,
per morti di slavine di lusso,
per morti d'incurie e dissesti
per morti ammazzati dal niente,
per morti di stato assente.
2.
E mentre gli eroi scavatori
e i prodi soccorritori
aspettan da anni invano,
sepolti anch'essi da quintali
di retoriche micidiali,
il contratto di lavoro;
e mentre i politicanti
si addannano tutti quanti
a invocare eccellenze
e a farsi selfie in doposcì;
e mentre si fan luminarie
e novene di preghiere,
e mentre si spaccia per emergenza
quel che emergenza non è,
quel che sarebbe normale
in un inverno normale,
in una normale stagione
dove non si fa la costruzione
di un coso di lusso in un canalone,
c'è una rivistina francese
magari un poco carognetta
che ci fa su la vignetta.
Si vede la morte secca
che scia quasi allegra e dice:
“Italia: neve, ma non per tutti!”
Niente di ché, mi direte;
ne ha fatte, certo, di migliori.
Quando ne fa di migliori,
però, ci son certi signori
che proprio non gli va giù.
Si prendono un caffè al bar,
poi urlano “Allah akbar!”,
e giù a sparar come cristi
sui maledetti vignettisti;
e allora, son tutti Charlie.
La libertà di espressione!
E anche la sacrosanta
mancanza di rispetto
che vale solo se si irride
il profeta Maometto.
La satira, si sa, fa male,
anche se parla en passant
di una valanga normale,
regolarmente micidiale
in un inverno normale
quando nevica a morte
in plaghe terremotate,
e dove si tiene aperto
l'albergo pluristellato
che attende di esser centrato.
La libertà di espressione!
Che vale però soltanto
quando non ti tocca tanto.
Che vale però solo se
non tocca proprio te.
E allora, regolare,
scende in campo a pugnare
il nazionalpopolare:
il sindaco di Amatrice
che, per altro, si dice,
dovrebbe pensare più alle casette
tirate a sorte in lotteria
piuttosto che alle vignette,
risponde con altra vignetta
eroïca e nazionalista
di tale Ghisberto, un razzista
nonché un notorio fascista
che esalta il “Soccorso Alpino”;
come si diceva, gli eroi
del Paese del Poi.
Poiché, com'è arcinoto
la neve non arriva mai
l'economia ne risente,
e in un siffatto frangente
per interi settori son guai.
Si lagnano gli albergatori,
si lagnano gli economisti,
si lagnano gli sciatori,
si lagnano i ristoratori
e pure gli alpinisti.
Un giorno la neve arriva
e ne arriva pure tanta.
Lo skilift può trasportare,
via la neve artificiale,
ecco un inverno normale.
Però la neve è carogna,
io proprio non la sopporto.
Alla neve sono estraneo,
e non per niente son nato
in un paese Mediterraneo.
E mi fanno sempre un po' ridere
le torme di sci-muniti,
famiglie che fanno il telemark,
ragionieri alla Ingemar Stenmark,
fuoripistanti incalliti.
Ci sono i resort di lusso
sulle Alpi e sugli Appennini
costruiti proprio sotto
montagne da far paura:
evviva l'avventura.
Un giorno la neve arriva
e ne arriva pure tanta;
arriva, ed è pure arcinoto
dove batte il terremoto,
in luogo piuttosto remoto.
Con la stradina tortuosa
sepolta da metri di neve;
si stacca la valanga,
oppure è la slavina,
morte, lutto, rovina.
Ora la storia si fa
tragica e molto eròica.
Scrivo che ancora stanno
parecchi sepolti là sotto,
sotto l'albergo travolto.
In questo paese ci abbiamo
sempre gli eroi del dopo.
Il prima è una rete assai fitta
di idiozia e presunzione
condita di mafie e coësione.
E quando la neve arriva
ci vogliono gli spazzaneve,
ne compreresti a bizzeffe
al costo di un solo Effe
Trentacinque.
E quando la neve arriva
(peraltro ben annunciata)
dimenticato è il prima,
che fa pure la rima:
solo soccorsi e eroïsmo.
Solo nazionalismo.
Solo perbenismo.
Scordàti tutti i torti
si raccattano i morti
scavando e riscavando
ma mai nelle coscienze.
Le coscienze danno fastidio.
Bisogna restare uniti
e guai a scalfire
il fortino, il presidio.
Ché ci abbiamo sempre gli eroi
mai del prima e sempre del poi.
E quindi s'indaga a ritroso
sul solito disastro colposo,
s'indaga e s'invoca rispetto
per morti di strade sepolte,
per morti di slavine di lusso,
per morti d'incurie e dissesti
per morti ammazzati dal niente,
per morti di stato assente.
2.
E mentre gli eroi scavatori
e i prodi soccorritori
aspettan da anni invano,
sepolti anch'essi da quintali
di retoriche micidiali,
il contratto di lavoro;
e mentre i politicanti
si addannano tutti quanti
a invocare eccellenze
e a farsi selfie in doposcì;
e mentre si fan luminarie
e novene di preghiere,
e mentre si spaccia per emergenza
quel che emergenza non è,
quel che sarebbe normale
in un inverno normale,
in una normale stagione
dove non si fa la costruzione
di un coso di lusso in un canalone,
c'è una rivistina francese
magari un poco carognetta
che ci fa su la vignetta.
Si vede la morte secca
che scia quasi allegra e dice:
“Italia: neve, ma non per tutti!”
Niente di ché, mi direte;
ne ha fatte, certo, di migliori.
Quando ne fa di migliori,
però, ci son certi signori
che proprio non gli va giù.
Si prendono un caffè al bar,
poi urlano “Allah akbar!”,
e giù a sparar come cristi
sui maledetti vignettisti;
e allora, son tutti Charlie.
La libertà di espressione!
E anche la sacrosanta
mancanza di rispetto
che vale solo se si irride
il profeta Maometto.
La satira, si sa, fa male,
anche se parla en passant
di una valanga normale,
regolarmente micidiale
in un inverno normale
quando nevica a morte
in plaghe terremotate,
e dove si tiene aperto
l'albergo pluristellato
che attende di esser centrato.
La libertà di espressione!
Che vale però soltanto
quando non ti tocca tanto.
Che vale però solo se
non tocca proprio te.
E allora, regolare,
scende in campo a pugnare
il nazionalpopolare:
il sindaco di Amatrice
che, per altro, si dice,
dovrebbe pensare più alle casette
tirate a sorte in lotteria
piuttosto che alle vignette,
risponde con altra vignetta
eroïca e nazionalista
di tale Ghisberto, un razzista
nonché un notorio fascista
che esalta il “Soccorso Alpino”;
come si diceva, gli eroi
del Paese del Poi.

Poi ecco pure il Fiorello,
paradigma emblematico
dell'italico cervello;
la sua risposta non si perda:
“Charlie? Dei pezzi di merda”.
E nel frattempo si spera
di salvare altri poveracci
sepolti sotto quell'albergo
come fosse una miniera,
l'albergo a quattro stelle
come fosse Marcinelle,
si scava, si scava e si spera
mentre, un poco più in là,
nell'indifferenza generale
e nel gelo di un inverno normale
migliaia di esseri umani
crepano di un freddo uguale
aspettando che dei ciarlatani
aprano una frontiera;
ma là, però, non si spera.
Dal che si evince che vale
più una valanga in Stiria
che i profughi dalla Siria;
o la valanga sull'Appennino
delle barricate di Goro e Gorino.
3.
Morale: da queste parti qui
non sono più Sciarlì.
Sciarlì si è nel bailamme,
quando ti spara l'islàmme;
quando c'è l'indignazïone
per la libertà di espressione.
Quando invece si crepa,
e quando agisce il mortorio
di una gestione criminale
(in un inverno normale)
del tuo proprio territorio,
allora ci vuole e occorre
il capro espiatorio.
E chissà che tanti, ora,
non pensino: alla malora!
Non pensino che, in fondo,
hanno avuto quel che conviene
e che l'ISIS ha fatto bene
a sparare a quei denigratori
degl'italici e grandi cuori,
paese di Soccorritori
che soccorrono costantemente
il ferito e il morto ammazzato
dal suo stesso Stato;
dando poi di “sciacallo”
a chi pesta troppo il callo,
come fece un dì a Longarone
il fascista Indro Montanelli
(sia detto un po' tra le righe
a proposito di dighe).
Preghierine e chiacchierìo
e statue di Padre Pio,
mentre là nelle intemperie
si scava tra le macerie
eterne di questo paese.
Dicon: Disastro colposo.
Se ne andrà via la colpa
e resterà solo il disastro.
E sulla prossima casetta
si metterà una vignetta.
E il prossimo inverno, la lagna
riecheggerà incancrenita
lassù su qualche montagna:
“Non nevica! Non c'è neve!
Il danno per l'economia!”
Su per le montagne sventrate
da piste di sci frequentate,
e dai pendii violentati
da skilift e seggiovie,
da boschi interi spianati
per far posto alle familiari
invernali idiozie,
a alberghi nei canaloni,
a spa, wellness e piscine,
a carne da slavine.
sabato 14 gennaio 2017
gggGGiòvani dell'Era Renzi®
In questi tempi di valori, di famiglia, di legalità, di bòna scuola, di Atti di Giobbe, di Leopolde®, di eccellenze, di quant'altro, è interessante constatare quanto i giòvani® abbiano assimilato a fondo i princìpi dell'Era Renzi.
Prendiamo, ad esempio, il recente fatto accaduto a Pontelangorino, Valli di Comacchio, a tre chilometri dalla medievale Abbazia di Pomposa e a un tiro di schioppo, pure, dalle famose Goro & Gorino delle barricate popolari contro un manipolo di immigrate su un autobus.
Il giòvane, sedicenne, intende ammazzare il babbo e la mamma. E capirai. Chi, a sedici anni, non ha mai desiderato far fuori i genitori? A dire il vero, le statistiche ci dicono che sono, al giorno d'oggi, assai più frequenti i casi in cui sono i genitori a far fuori i figli; come dire, hanno fatto libri neri per ogni cosa, quello del comunismo, quello del nazifascismo, quello delle religioni, ma quello della Famiglia ancora non lo hanno fatto. Anche perché, ne sono certo, verrebbero fuori cifre di morti da far impallidire la II Guerra Mondiale.
A sedici anni, desiderare di far fuori i genitori è un passaggio obbligato, un pensiero fondante, un segnale di crescita. Poi, va da sé, non accade quasi mai. Il ragazzino di Pontelangorino, invece, ha tirato diritto.
E che cosa ha fatto? Ha ingaggiato l'amico del cuore, che ha provveduto alla bisogna. Ma, come dicevo, siamo nell'Era Renzi. Insomma, va bene la ferrea e assolutistica amicizia adolescenziale alla Grande Meaulnes, ma per ammazzare due persone ci vuole pur sempre un incentivo.
E così, ecco la promessa di mille euro a lavoretto finito. Nel frattempo, però, una caparra. Consistente in renzianissimi ottanta euro.
Come potrebbe non colpire tale fatto? Ai tempi della regalia renziana, del resto, mi era capitato di sentire in giro più di una persona che dichiarava:
"Eh si vabbèèè....Renzi sarà icchegliè, però a me quegli ottant'euri 'e mi fanno parecchio hòmodo, pe' avelli ammazzerei 'huarcuno!"
E giù risate. Con quegli 80 euro si può mandare avanti la famiglia e arrivare alla findimmèse.
Però, ora bisogna stare attenti, nelle meravigliose famigliuole italiane. Ci potrebbe essere, zàc, un ragazzino qualsiasi che fa un altro uso di quegli ottanta euro, e che, invece che alla fine del mese, ti fa arrivare alla fine eterna.
E pensare quali e quanti valori gli erano stati inculcati!
Però, ora bisogna stare attenti, nelle meravigliose famigliuole italiane. Ci potrebbe essere, zàc, un ragazzino qualsiasi che fa un altro uso di quegli ottanta euro, e che, invece che alla fine del mese, ti fa arrivare alla fine eterna.
E pensare quali e quanti valori gli erano stati inculcati!
giovedì 5 gennaio 2017
Dal "Sito di Firenze": Bomba a Firenze, quel poliziotto ferito e quel pestaggio in Questura
Non ho l'abitudine di copiaincollare cose scritte da altri, a parte in rarissime occasioni. Quella che segue, però, lo è. Si tratta di un articolo scritto da Matteo Calì per il Sito di Firenze (cliccare sul link) ieri 4 gennaio 2017, che propone alcune interessanti riflessioni "super partes" (a quanto ne so, sia Matteo Calì sia il sito informativo per cui scrive non hanno affatto simpatie "de sinistra", anzi tutt'altro. Di mio, nell'articolo ci sono soltanto alcune frasi messe in evidenza.
Bomba a Firenze, il poliziotto ferito e quel pestaggio in Questura
Mer, 04/01/2017 - 08:14 — Matteo Calì
All'alba del primo giorno del duemiladiciassette, Firenze si sveglia
con la notizia di un ordigno che ha ferito, e gravemente, un
poliziotto. Un servitore dello Stato. Ha perso una mano e un occhio, una
vita mutata nel giro di qualche ora. L'ospedale. La disperazione. Il
ministro. Il capo della Polizia. Lo Stato presente al fianco dei suoi
uomini. E poi i gesti di solidarietà dei colleghi, la rabbia della
famiglia. Tutti al posto giusto in una storia fin troppo ingiusta. Dove
in mezzo passa anche la sfortuna di un destino crudele.
"Spero di tornare a fare il mio mestiere" ha detto l'agente al
chirurgo che gli stava per amputare la mano. Ma guarda te, se per poco
più di mille euro al mese, la notte di Capodanno, un uomo deve perdere
una mano e un occhio, per colpa di una bomba messa per ragioni di lotta
politica? E siamo nel 2016. Assurdità. Follie. Eppure quest'uomo è senza
la mano sinistra e non si sa se ci vedrà mai più dall'occhio esploso
con la bomba.
Non c'è ragione che sia accaduto questo, ma la vita purtroppo riserva
situazioni incredibili e imprevedibili. Ed il sovrintendente Mario Vece
lo sa. Come quando, in un attimo, ti ritrovi vittima dopo che sei stato
carnefice. Povero Mario Vece. Eh sì, povero Mario Vece. Poveri, però,
anche quei quattro ragazzi che nel 2001 finirono pestati sotto le sue
mani e di quelle di suoi due colleghi.
Una storiaccia, brutta, brutta. Di quelle destinate ad essere
dimenticate in fretta. Un battibecco all'entrata di una discoteca a
Pistoia, poliziotti che intervengono e portano quattro ragazzi in
questura. Lì vengono scambiati per cittadini albanesi e per questo
motivo insultati e picchiati. Lo dicono anche i referti dell'ospedale
dove ad uno dei quattro giovani verrà riscontrato il timpano sfondato,
il setto nasale incrinato e un testicolo tumefatto. Per gli altri
contusioni, trauma cranici e lesioni varie su più parti del corpo.
E all'epoca, per questi fatti, finirono agli arresti domiciliari
l'ispettore Paolo Pieri, il vice sovrintendente Stefano Rufino e anche
l'allora assistente Mario Vece, tutti accusati di lesioni gravi, falso e
calunnie, perchè falsificarono anche i verbali. Una storia brutta poi
finita con un patteggiamento a 14 mesi per Vece (condannati anche i
colleghi), la sospensione dal servizio, il successivo trasferimento a
Montecatini, poi a Pisa e infine a Firenze, come artificiere.
E per citare le parole di 16 anni fa dell'allora presidente della
Regione Toscana Claudio Martini, “se tra i giovani che hanno subito quel
pestaggio non ci fosse stato il figlio di un sottosegretario l'episodio
non sarebbe mai venuto a galla". Eh sì, perchè Vece e i suoi colleghi
pestarono di botte il figlio dell'allora sottosegretario alla presidenza
del Consiglio Vannino Chiti. Vece oltre a picchiare quei ragazzi era
accusato, e ha patteggiato la pena, di aver falsificato i verbali di
quella storia.
Oggi, è giusto provare compassione e anche commozione per questo
poliziotto ferito. Sono sentimenti ed emozioni a cui la natura umana
cede e di cui sente il bisogno, quasi come per sapersi persone migliori.
Viviamo una società portata a giudicare tutto, che si esprime con un
like, in maniera netta. Viviamo in una società capace di farsi
incantare. Ma attenzione a celebrare nuovi eroi. Mario Vece non lo era e
non lo è diventato dopo quella bomba. Oggi, è giusto celebrare il caro
prezzo di quello che significa portare una divisa, ma può anche essere
l'occasione per ricordare di non abusarne mai.
domenica 1 gennaio 2017
Diciassette
A me, quest'anni tutti belli in fila stanno cominciando a fare un effetto un po' strano. Però è molto diverso dalla solita sindrome del tempo che passa o roba del genere. C'è solo il presente e la propria realtà, sociale e personale. Il passato è stato una sequela di presenti; il futuro lo sarà fino all'ultimo momento, all'ultimo presente.
L'effetto strano che dicevo, comincia dai numeri; i quali, che indichino "anni" o altre cose, sono comunque una convenzione. In base a tale convenzione, è appena cominciato il Diciassette con la forza latente e insopprimibile della superstizione. Cent'anni fa, nel Diciassette del XX secolo, c'era la guerra; quest'anno, nel Diciassette del ventunesimo, pure. Lo sai che è morto lo zio? O poeròmo, era del Diciassette. E così si fa la festa, si mangiano le lenticchie e si tirano i petardi più o meno ovunque ci si trovi.
La mattina del primo giorno del Diciassette ci si sveglia, si accende la scatoletta colorata che ci ha risucchiati tutti quanti, e si legge che in un dato luogo del pianeta Terra un paio di tizi vestiti da Babbo Natale sono entrati in un locale dove c'era gente che festeggiava e hanno cominciato a sparare con l'invenzione del compagno Kalašnikov. Almeno quaranta morti, e almeno settanta feriti. Così, zac. Una cosa normale, anzi normalissima. Talmente normale che non solo ci si è fatta l'abitudine, che accada a duemila chilometri di distanza o accanto a casa propria. Si è anche totalmente smesso di provare almeno a pensare da che cosa possa realmente derivare tutto questo.
Cosa che, in realtà, serve lo stesso a poco o nulla. Con la collezione di sbagli e contraddizioni che tutti noi siamo, compresi soprattutto coloro che sono arcisicuri di non sbagliare mai e di essere, come si suol dire, lineari, siamo condannati all'impotenza. L'impotenza del Diciassette, uguale a quella del Sedici, e che sarà uguale a quella del Diciotto. Conati a volte seri, a volte buffi, a volte semplicemente assenti.
Ma, naturalmente, si tirerà in qualche modo avanti. Raccattando quel poco che è rimasto, inclusa la convinzione di star facendo qualche cosa di concreto. Agendo sempre per le famose Masse, e ricevendo una congrua dose di Massi, addosso. Comincio però a sospettare che, alle Masse, importi poco o nulla di farsi agire per, ma che meravigliosa costruzione sintattica. Che il Diciassette sia l'anno degli Anacoluti.
Da qualche altra parte, sempre in questo primo giorno del Diciassette, leggo che una signora birmana, o del "Myanmar" come si deve dire ora ufficialmente, qualche anno fa era una campionessa dei diritti umani. Figlia di un generale, andava in galera, lottava, prendeva il premio Nobel per la "pace", incassava sostegno e solidarietà da tutto il mondo in nome della democrazia e quant'altro. Oggi, invece, si viene a sapere (a dire il vero non proprio da oggi, ma pazienza) che la stessa signora agisce in pratica da dittatòra, perseguita le minoranze etniche e si vede al riguardo persino recapitare petizioni di fuoco firmate da altri premi Nobel per la pace (alcuni dei quali, va da sé, il loro contributo più o meno diretto alla guerra lo hanno portato eccome).
Solo un paio di cose così, appartenenti al presente. Al Diciassette, giorno Uno. Noialtri, nel frattempo, si continua a non combinarne una giusta, nelle nostre vite che non si sa nemmeno più che cosa siano. Je voudrais avoir la foi, la foi de mon charbonnier.... (qui est heureux comme un pape et con comme un panier). Si continua imperterriti a mandare avanti la specie umana per, poi, far di tutto per distruggerla nelle barbe. Si continua a decidere di credere in qualche cosa, di fatto non essendo più disposti neppure a credere in se stessi. Misure e parametri. Scheletri nell'armadio, che la fanno da padroni. Verità e "rivoluzioni". Pallonate.
Finzioni. Finti amici, e anche finti nemici. Lo sono io, lo siete voi, lo siamo tutti. Naturalmente, ero, sono e rimarrò un inguaribile ottimista. Finanche un modesto creatore di periferici scompigli, tranquilli, roba da poco, di quartiere, di ridottissima nicchia. Al momento di saltare in aria, o di essere schiacciato da un camion, o di essere sparato via per mano di qualche fede altrui, di qualche Verità, di qualche Presente, sarò opportunamente polverizzato nel Nulla.
E' una bella mattinata di sole, anche se fa freddo. Fra qualche mese farà caldo. Ieri sera mi sono divertito come un matto, io l'Asociale, espletando una Socialità che deve sempre scontrarsi per esistere e resistere. Qualcheduno stava morendo; qualchedun altro stava nascendo. Tutto normale. Tutto cambierà quest'anno, ovviamente; come potrebbe essere altrimenti?
E non fateci nemmeno troppo caso, se avete letto questa cosa. Se c'è una cosa, almeno una, nella quale sono sempre stato lineare, è quella di non prendere me stesso mai sul serio; quindi, non vedo come mai dovreste prendere sul serio quel che scribacchio qua e là.
Buon Diciassette a tutti, a tutte, nessuno escluso, nessuna esclusa.
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