lunedì 28 settembre 2009

Ah, il Diciotto


Lo scorso anno, giusto di questo periodo qua (sarà la fine dell'estate o l'inizio dell'autunno?), mi ero messo a andare verso il Diciotto. Chiaro che, essendo fine settembre, quel diciotto doveva essere di un qualche mese dopo; altrimenti non sarebbe stato verso. Sarebbe stato indietro al, o qualcosa del genere; e invece no, era proprio verso.

Ci stavo andando, verso quel Diciotto, con una serie di post in cui avevo deciso, más o menos, di raccontare un bel pezzo della mia vita. Non che la mia vita interessi a qualcuno; ma un blog, almeno così come lo vedo io, non è nient'altro che un diario tendente allo zibaldone (senza ovviamente scomodare minimamente Giacomo Leopardi). In una cosa, però, sono sempre stato piuttosto rigoroso: essendo il mio diario (o il mio zibaldone), dall'Ekbloggethi sono banditi i copiaincolla, le citazioni più o meno interessanti e/o corpose, e quant'altro del genere. Certo, ogni tanto (ma veramente ogni tanto) c'è una canzone o una poesia; ma si tratta di rarissime eccezioni. Qui dentro c'è soltanto farina del mio sacco, ed è una cosa di cui vado schifosamente orgoglioso. Non credo che sia un male, a volte, provare un granello di orgoglio.

Vuol dire essersi messo, a partire dal 14 maggio 2007, a pensare e scrivere delle cose. Giuste, sbagliate, belle, brutte, squinternate o mediocri; ma sempre con due centesimi di ragionamento proprio. Senza delegare niente a nessuno, nemmeno al più grande scrittore, poeta o filosofo dell'umanità. Hanno tutto il mondo a disposizione, e beninteso anche centinaia di altri blog. Qui dentro entrano soltanto, e pochino, quando lo decido io. Arrogante? Presuntuoso? Prendetela un po' come volete; la cosa non mi tange neanche un po'.

Ci sono storie che, nessuno lo creda, non sono fatte per “strappare” alcunché. Le ho fatte leggere anche, a volte, a persone cui non sono piaciute affatto, comprese quelle elbane cui tengo smodatamente. Non importa niente. Anzi, è importantissimo che alcuni non le trovino né interessanti, né ben scritte. Fa stare coi piedi per terra, e non solo: fa continuare a scriverle per l'unica cosa degna di questo mondo: il gusto ed il piacere di farlo. Ci sono racconti, scemenze, prese di posizione, tutto quel che mi passa più o meno quotidianamente per la testa.

Ci sono anche storie che dovevano essere una sorta di ciclo (o un feuilleton) e che sono abortite dopo poco. Si vede che, per un motivo o per l'altro, avevo perso interesse a scriverle. È un rischio che esiste sempre per chi scrive cavando esclusivamente da se stesso. Rimane comunque quel che è stato scritto finché è durata accesa quella povera scintilla di creatività; quando la scintilla si spegne non c'è più niente da fare. Oppure ci possono essere episodi che cambiano il corso delle cose; episodi che, a loro volta, sono scintille, fiammate, bagliori. Di blog come questo ce ne saranno a centinaia di migliaia, per non dire a milioni; ma io l'ho sempre inteso come una registrazione fedele di me stesso. Gnudo e crudo. E, in questo, è del tutto unico perché io sono unico e non ci sarà proprio mai un cazzo di nessuno che mi somigli. E non desidero somigliare a nessuno.

Quando andavo verso il Diciotto, lo scorso anno, questo blog si chiamava ancora Sblògga te stesso. Ho sempre creduto, e lo credo tuttora, che fosse un titolo orrendo. Doveva essere una specie di gioco di parole tra blog e sblocca, tanto da averci addirittura creato sopra un finto verbo greco all'imperativo aoristo, che riproducesse il famoso γνῶθι σεαυτόν. Avevo, prima di questo, tentato di scrivere altri due blog: il primo era una specie di capostipite dei Black Blog (in realtà sicuramente ce ne saranno stati a decine prima del mio, ma mi ha fatto a volte ghignare vedere quanti poi ne siano venuti dopo) e il secondo un tributo a Galenzana. A un certo punto è finita la scintilla anche per loro. Come muore un blog? È semplice. Si comincia a non scriverci più niente. Perdi l'interesse a mandarlo avanti. Non te ne frega più un accidente. E mi era successo due volte. Al terzo tentativo, rinata la scintilla, mi ero ripromesso di sbloccarmi; da qui il giochetto di parole decisamente improvvido.

Appartiene ai misteri di una persona, ché una persona ne racchiude tanti in sé quanti l'universo, capire perché al terzo tentativo questa scintilla dura da quasi due anni e mezzo e non accenna a spegnersi. Lo sblòggo è avvenuto. Accettavo commenti, rispondevo, mi pigliavo approvazioni e ramanzine, considerazioni e spam, battute e deliri, tutto quanto. Un bel giorno, quando il famoso Diciotto era curiosamente già passato e mi chiedevo come risolvere la questione (andando naturalmente Indietro al Diciotto, Back to Eighteen eccetera), è cambiata ogni cosa. Non mi è andato più di interagire in rete. Ci sarà un motivo perché si chiama rete, e nelle reti di solito ci rimangono impigliati i pesci. Esattamente quel che mi stava succedendo: restare impigliato in una commedia, come un pesce grosso e goffo. E a me non mi si impiglia da nessuna parte.

Così, via lo Sblògga te stesso ed ecco l'Asocial Network. Via i commenti, così si torna a scrivere esclusivamente per farlo, e non per sperare in lodi, per temere una critica, per vedere come quella data persona reagisce. Rimane l'Ekbloggethi Seauton come una sorta di “marchio di fabbrica”; oramai c'è. Arriva la possibilità di contattare l'Asociale soltanto per telefono o di persona. Soltanto. In un anno di Rete Asociale mi è successo, in tutto, sei volte. Sei persone che mi hanno telefonato. Una di esse l'ho conosciuta, all'isola d'Elba lo scorso agosto. Ed è una cosa che non vi dico. Sentire squillare il telefono con qualcuno che ti dice d'averti letto e di volere scambiare con te due parole a voce, e magari darsi appuntamento da qualche parte. E con questo mi fermo perché detesto trarre “morali”. Non sono né un maître à penser né il titolare di nessuna “scuola”. Non ho nulla da insegnare a nessuno. Non desidero partecipare all'ipertrofia di comunicazioni, opinioni e esternazioni bene ordinate in caselline. Non me ne frega niente di farvi sapere cosa mi piace da mangiare o quali film o cantanti mi garbano. Ancor meno mi frega di farvi sapere cosa sto facendo o pensando in questo momento. Se vi interessa tutto questo, leggete quel che scrivo. Non ve lo presento in nessuna paginetta iniziale.

Ma mi ero dimenticato, corpo di una pipa, di quel povero Diciotto. Sapete, quella cosa cui andavo verso. Doveva essere tutto un ciclo di post che, il Diciotto d'un qualche mese, doveva concludersi con una sorta di lettera, o resoconto, o racconto ad una persona di cui non so più niente, e non voglio sapere più niente, oramai da anni e anni. Qualcosa che somigliasse un po' al finale del Pranzo di Babette di Karen Blixen. Una scompaginata resa dei conti. Qualcuno si chiedeva cosa fosse successo, in definitiva, quel Diciotto. Mandavano commenti, anche fasulli. Persino qualche piccola trollatina di periferia con nicknames falsi. Mi ero fermato. Mi ero accorto all'improvviso di una cosa fondamentale, basilare.

Che, quel, Diciotto, non era successo proprio un bel niente. Che era una data qualsiasi, lontana, sbiadita. Un ricordo d'un passato remoto. Una sciocchezza da adolescente. Un verdesporco esangue dai padiglioni lerci. Un altro me stesso. Un vero e proprio, questo sì, arrivederci a ieri. Una cosa che non merita più né di essere ricordata, né di essere un anniversario o qualcosa del genere. Il ritorno a quella frase con cui, una volta, firmavo i miei post sui newsgroup: Er muoz gelîchesame die leiter abewerfen, so er an îr ûfgestigen ist. Si deve buttar via la scala, una volta che ci si è saliti sopra. Ed è questa, in definitiva, l'autentica resa dei conti. I conti sono stati resi e pagati. La scala va, finalmente e sul serio, nella spazzatura.

E così, magari, saranno appagate anche le "curiosità" di tale "Luana" (la bebisìtter?) e di talaltro "Michele". O forse no? Pazienza. Tanto anche loro sono nello stesso posto della scala.