domenica 6 settembre 2009

Di dentro, di fuori



Quella che vedete in questa foto è una galera. Non importerebbe neppure il suo “nome”, perché il nome di ogni galera è galera e basta. Viene distinta dalle altre con l'appellativo di “Sollicciano”, da un'antica plaga di campagna e di case coloniche, violentata dalla città che si è espansa; galera è.

Cliccate sopra la foto. Ci vedrete: un lenzuolo con un cuore rosso, o un asso di cuori; altri lenzuoli che sventolano dalle sbarre; qualsiasi cosa possa, dalle celle, dire che oltre quelle sbarre di quei blocchi di cemento armato disposti in diagonale, ci sono delle vite umane. Firenze, Sollicciano, 5 settembre 2009. Il 18 agosto, con 40 gradi di temperatura, questo ed altri carceri hanno preso fuoco.

Mille e passa detenuti in un carcere fatto per contenerne la metà. Anche otto persone in una cella. Docce inesistenti, temperatura infernale. Cibo da fare schifo a un maiale. Colloqui ridotti al minimo o aboliti. Condizioni di vita inumane, disumane. Questa è la galera. Chi ci è dentro, ha detto basta. Nel silenzio mediatico, perché il 18 agosto è meglio occuparsi d'altro, hanno protestato, incendiato, rivoltato. Pagheranno. In galera, qualsiasi cosa è un reato. Pagheranno di altro carcere, e di soldi loro. A Firenze e dovunque.

Tanto varrebbe che la facessero finita con la loro “Costituzione” di uno stato di merda, dove si dice che la “galera deve tendere alla rieducazione del condannato”. Tragiche balle, schifose idiozie. Che cancellassero una buona volta quell'articolo, e scrivessero: la galera tende all'annientamento, psichico e fisico, di chi vi è rinchiuso. La galera è un luogo di punizione e ad altro non tende. Sarebbe, perlomeno, una cosa non ipocrita.

Chi è fuori, davanti alla galera, prova un senso di smarrimento e di angoscia. Specialmente quando, da vicino, a occhio nudo, vede la presenza di persone manifestata da lenzuoli, da cose che sventolano senza che si possa vedere chi lo fa. Ben più vicino, ben più visibili, inferriate altissime e elettrificate, torrette, guardie armate. Mestieranti che hanno come attività quella di privare esseri umani della libertà, e non solo di quella. Privarle di ogni umanità, della pulizia, del cibo, di ogni residuo di dignità personale. Per uno schifoso stipendio mensile. Mai disprezzo sarà sufficiente nei confronti di questi servi.

Mai disprezzo sarà sufficiente verso lo stato, verso gli stati. Chi è fuori si ritrova lì, con un camion, un altoparlante, musiche, voci. Alcuni di coloro che sono là fuori, sono stati anche dentro. Conoscono, sanno. E sono lì.

Sono lì per tutti. Sono lì anche per persone a loro volta disprezzabili. Sarebbero lì anche per il cretino del “localino” alla moda, per l'imbecille ammiratore di Lapo Elkann. Per lui come per l'immigrato clandestino, per lui come per il disgraziato, per lui come per l'ultimo reietto di questo mondo. Per tutti. Per chiunque, un pomeriggio di fine estate, si rivolti e sventoli un asso di cuori e un lenzuolo. Per chiunque affermi la sua umanità parlando l'unico linguaggio comprensibile in un luogo del genere: quello della violenza.

Macché ideali, macché rivoluzione. Macché “contropotere”. Qui si sta parlando di condizioni di vita elementari. Belli i discorsi di tanti, compresi quelli che dicono che “non basta distruggere i muri per trasformare i detenuti in uomini”. Provino un po' a dirglielo ai detenuti; anzi, a uno solo di loro nel carcere di Sollicciano, senza doccia, senza niente e a quaranta gradi. Ho come l'impressione che, a pattonate nel muso e a calci nei coglioni, sarebbe chi lo dice che si ritroverebbe trasformato rapidamente in uomo. Alla velocità della luce.

Ché, davanti a quei muri, l'impeto alla distruzione è il primo. E chi è là fuori, non deve “manifestare” e urlare inutilmente. Deve pensare, e pensare per agire. In qualche modo. A partire dalle cose più semplici. “Migliorare le condizioni di vita” non dev'essere un palliativo, dev'essere una partenza. E, intanto, alle musiche e alle parole urlate dall'altoparlante, sventolano lenzuoli e bandiere. Significano: vi sentiamo. Anche se non possiamo vedervi. Significano: qualcuno non vi lascia soli, nel silenzio, nell'indifferenza, nel caldo atroce. Pochi con un camion, un altoparlante, delle bandiere il cui rosso vuol dire ben più che una posizione politica.



Come rispondono? Alle condizioni schifose di vita nelle carceri rispondono con le promesse di altre carceri. Rispondono con “certezze della pena”, che certa è soltanto per chi non ha niente, per i paria, per i nulla con due gambe e due braccia. Rispondono con forche e “giustizie”. Da là fuori si sentono grida di solidarietà; ma “solidarietà” è una parola che non significa nulla se non è seguita dal fare. Il nostro fare deve tendere ad abbatterle, quelle mura. A eliminare quelle sbarre. La società dello stato e della galera non deve esistere. La società dello stato mette in galera tutti.

E guardate ancora una volta quella foto; seppure, come tutte le fotografie, fissando un attimo lo uccidono. Provate per un attimo a immaginare di essere là dentro. Di sentire voci, urla, canzoni; ma di essere là dentro. Qualsiasi cosa abbiate fatto o non fatto. Provate a immaginare la vostra sensibilità. Provate anche a dire: Sì, bravi, intanto sono per una strada di merda, ma fuori. Poi provate per un attimo a immaginare di essere là fuori, a stabilire una forma elementare, rudimentale di comunicazione. L'unica possibile. In un tempo dove tutto si “comunica”, spesso in forme inutili e cretine, siamo là in duecento a cercare di comunicare sparando parole e suoni al massimo volume possibile. E loro rispondono, sventolando. Le parole e i suoni sono arrivati, ma non bastano. Comunque vada, qualunque cosa abbiamo dentro collettivamente e singolarmente, non ci fermeremo.


Magari, a certe festicciuole private, qualcuno si diverte a cantare questa vecchia canzone:




Però il 5 settembre 2009, alle ore 18, in via Girolamo Minervini, Sollicciano, Firenze, non s'è visto.