lunedì 22 febbraio 2010

Intanto tutti più o meno


Sabato sera sono stato a vedere uno che cantava le sue canzoni. Non importa manco come si chiama, è semplicemente uno che se le scrive e se le canta accompagnato da un altro tizio che suona di tutto, dal basso allo xilofono. Per fare tutto ciò, assieme alla Daniela, mi sono sobbarcato un viaggio fino a Alessandria, dopo essere stato a Milano per una manifestazione. Dico questo, ovviamente, non perché chi mi legge abbia nei miei confronti un qualsiasi sentimento di approvazione o roba del genere; anzi. Si tratta semplicemente di una enunciazione. Sono pronto, come lo sono sempre stato, a fare centinaia e centinaia di chilometri per andare nei posti e nei locali più impensabili per andare a sentire cantare e suonare persone che, a mio parere, lo meritano. Lo facevo quando avevo molto più tempo, e lo fo ancora adesso che di tempo ne ho molto meno. Ma il tempo lo si trova sempre, e se non lo si trova si cerca in tutti i modi di rubarlo.

Intanto tutti, più o meno, si trovavano davanti ai teleschermini dell'aborrita tivvù; o quantomeno con essa si rapportavano. C'era, giusto sabato sera, la finale del Festival di Sanremo con le sue belle canzoncine, tra le quali una che mi sono divertito a parodiare. Forse la mia parodia è ancora più idiota dell'originale, ma non è questo il problema. Il problema, a mio parere, è vedere che cosa ha suscitato il suo cammino sanremese, il suo ripescaggio, il suo secondo posto finale. La parola che più mi viene a mente è psicodramma; e, mi dispiace, io non sono affatto portato agli psicodrammi. Su quella stupidissima canzone e sui suoi imbecillissimi interpreti ho detto la mia e ho fatto la parodia (fa pure la rima!); ma domenica mattina, quando a un'ora assai tarda ho acceso il computer e ho appreso la feral notizia, ho avuto francamente di che grattarmi la pera.

Nel paese di Bloggherìa è tutto un sanremare, tutto un filibertare, tutto un pupare. Si va dai colloqui post-mortem con Luigi Tenco a improbabili confronti, da "Italie oramai scomparse" ai glossari sanremesi, dai "post con più fan di Sanremo" alle immancabili vergogne di essere italiano, condite con le altrettanto immancabili dichiarazioni di esilio volontario, o coi rimpianti di non averlo fatto prima. Insomma, ovunque ci si muova, è tutta una geremiade sanremese. Tutti si vergognano, tutti sono indignati, tutti sono sbigottiti, tutti sono schifati però sabato sera erano davanti all'apparecchietto delle meraviglie a far parte di quel 53% di italiani che guardavano il Festival. Io non ero fra quelli. Ero a Alessandria, in un locale angusto all'angolo tra via Verona e via Santa Maria di Castello. Non c'ero mai stato, a Alessandria. Avevo, alle medie, una professoressa di storia nativa di quella città che passò tutti i tre anni dalla prima alla terza a dirne peste e corna; ma in fondo ho visto posti ben peggiori, e in certi casi ci ho anche vissuto non poco.

Poteva, poi, essere Alessandria o qualsiasi altra città dove andare. Poteva essere anche casa mia; non lo avrei acceso comunque quel televisore di merda. Che i filiberti e i pupi cantassero quella popo' di canzone lo si sapeva da tempo; tutto il tempo necessario per pigliarla per il culo prima, e per ignorarla poi assieme a tutto quel ridicolo baraccone teletrasmesso. Per passare la sera di sabato 20 febbraio 2010 in altri modi; invece no. Ci sono cascati tutti quanti. Ci siete cascati, anzi. Ho come l'impressione che i filiberti emanueli e i pupi vi abbiano menato per il naso alla grande, cari miei. E bisogna che ve lo dica, che abbiate poi guardato o meno il Festival. Siete stati, e siete, il più grandioso veicolo pubblicitario di quella canzone. Con grande amarezza, devo dire che è stata un'operazione davvero ben congegnata.

E allora, ditemi un po', come mai desiderereste così tanto emigrare? Ve lo dice uno che ha passato qualche bell'anno all'estero, generalmente in postacci, sognando praticamente in ogni momento di tornare in questo paese di merda. E constatando che tutta 'sta voglia di andarsene lontani non solo non serve assolutamente a un cazzo, non solo somiglia terribilmente a uno stantio esercizio retorico, ma anche viene generalmente espressa da gente che al massimo ha fatto qualche gita organizzata, qualche vacanza, qualche giretto più o meno cospicuo nelle solite londre, nelle solite barcellone, nei soliti mèssichi e nei soliti luoghi dell'immaginazione. Fughe, reali o immaginarie; ma nel frattempo, finché non si fugge, il 20 febbraio si guarda Sanremo per indignarsi per una canzonetta idiota. E mi sembra, questa, una cosa tremendamente italiana. Che più italiana non si può. Andateci un po' per davvero, a vivere all'estero. Accorgetevi una buona volta che il problema non è "vergognarsi di essere", ma far qualcosa di concreto perché tale vergogna abbia non dico a cessare, ma perlomeno a moderarsi.

Io mi sarei vergognato, sapendo bene che cosa si cantava a Sanremo (e non soltanto la canzone di filipupo), di accendere la tv e guardarne anche un solo minuto. Mi sarei vergognato, anche non guardandolo, di parlarne e di fungere così da veicolo. E così non l'ho fatto. Sono andato a Alessandria, a vedere un concerto di canzoni un pochino differenti. Ce ne sono, di questi concerti, e di queste canzoni, anche vicinissimi a voi. Basterebbe cercarli. Basterebbe smuovere il culetto. Basterebbe comunque non sottostare a quel che viene imposto, cari i miei italiani che tanto vi vergognate. Basterebbe restare qui, in questo paese, senza nessuna vergogna e facendo altro, senza riempire i vostri blog di stronzate su Sanremo. Una rivoluzionaria indifferenza, magari senza quell'insopportabile insalata di indignazione, rassegnazione e fughismo del cazzo che sta veramente cominciando a farmi venire il varicocele. C'è, invece, da stare dimolto qui e da sbattersi, giorno dopo giorno. Altrimenti suggerisco un rimedio che preserverà da ulteriori pupifiliberti: il suicidio. Di morti alla tv ce ne sono fin troppi, e a me piace invece avere a che fare con dei vivi che dall'indignazione per cose un po' più degne di una canzonetta traggano la rabbia di vita che serve per fare almeno una piccola rivolta, che si potrebbe chiamare una rivoltella.

Ah, specifico che quest'ultima non è mia. L'ha detta il cantante di Alessandria, in una sua canzone scritta da poco. Gliel'ho rubata, ma credo ci stesse bene. Mi scuserà se legge. In ultimo, a chi rimpiange magari il "vecchio Sanremo" come se fosse stato chissà cosa o tutto Endrigo o Tenco, ricorderei volentieri che nel 1970 si sentivano sul palco dell'Aristronz cosine come quella qui sotto, di un reazionarismo schifoso, odioso, stupido. In fondo, pupoberto non ha fatto che rinverdire la tradizione, quella vera. Altro che "Italia oramai scomparsa".