Le telefonate non si poteva aspettarle, perché le cabine non ricevevano. Si poteva soltanto farle, munendosi originariamente dei gettoni scanalati, e poi delle monetine da dugento lire. Continuarono però, e per un bel pezzo, a circolare anche i vecchi gettoni, che venivano usati comunque come moneta; l'Italia è l'unico paese al mondo dove, negli anni '70 del secolo scorso, sono esistite valute parallele a quella ufficiale, e comunemente accettate. I gettoni telefonici e i miniassegni. Avevano voglia i negozianti a mettere all'ingresso avvisi con su scritto: “Non si accettano gettoni”: tanto gli toccava accettarli di riffa o di raffa.
A Marina di Campo esistevano due file di cabine telefoniche: una davanti alla Coop sul lungomare, e l'altra nella piazza del Municipio. Specialmente d'estate era un delirio: quando c'era da andare a telefonare, bisognava munirsi di sacchettate piene di una macedonia di gettoni e monetine; non essendo ancora di moda i marsupi, e poiché il famoso borsello a tracolla di quegli anni provocava (giustificatissime) bordate di prese per il culo, s'andava coi sacchetti di plastica. Alle cabine c'erano generalmente, tutte le sere, code in pieno stile sovietico; naturalmente s'andava solo la sera a telefonare, perché costava meno. Le code erano sovietiche solo per la lunghezza; ma nell'URSS erano ordinatissime e rassegnate. Quelle lì, invece, erano pienamente latine con qualche spruzzata di tedesco che ironizzava sull'arretratezza di quel paese di poveri dove nelle case non c'era ancora il telefono. Per il resto, erano gomitate, lamentele, minacce sanguinose a chi telefonava troppo a lungo, botte sui vetri, malori, bimbi che frignavano, e conversazioni per ingannare l'attesa che digradavano rapidamente dal banale all'imbecille. Poi, finalmente, toccava a te. La telefonata al babbo rimasto in città, o alla ragazza che passava le vacanze dai suoi nel Sud. Nel Sud, però, il telefono in casa ce l'avevano eccome. L'Elba, negli anni '70, era ancora più a sud.
Avvenne che, finalmente, a Marina di Campo si decisero a mettere il telefono nelle case. Fu, statemi bene a sentire, nei primi mesi del 1985. Ripeto: Millenovecentoottantacinque. A quell'epoca ero all'università, e mi capitava, con la scusa di preparare qualche esame, di passare qualche volta una quindicina di giorni a casa dei miei, fuori stagione; ovviamente l'esame era un pretesto, e non appena mettevo piede all'Elba con la 127 amaranto mi lanciavo immediatamente nella mia attività preferita: quella di esplorare all'infinito i posti che meglio conosco. Son buoni tutti a esplorare posti sconosciuti, a andare nella Skeleton Coast, nel deserto di Gobi o sul selvaggio picco andino; a me piace esplorare ogni granello di polvere dei posti che mi dicono qualcosa dentro, perché ciascuno di quei granelli mi dovrà restare appiccicato addosso per sempre. A me dell'Armenia o del Karakazzistan non me ne importa una sega, però se mi mettessero bendato nel fossetto che scorre di lato al viottolo fra il Formicaio, l'Orzaio e la Piastraia ci camminerei senza inciampare.
Nell'aprile del 1985, poi, successe quel che agognavo da non so quanto. Mia zia era a Firenze, e la casa era vuota. Non so come, riuscii a convincere tutti quanti che dovevo assolutamente restarmene da solo per preparare non ricordo più quale esame di blutolinguistica glottologica cloridrata; e il permesso arrivò. Caricare la centoventisette, passare per Volterra e Casini di Terra, arrivare a Piombino e avere già tutto in testa. Panini e a giro tutto il giorno, dato che era già aprile e le giornate erano discretamente lunghe. L'esame? Ma vaffanculo. Tanto, poi, chi mi controllava: il telefono non c'era, ed era -vi dirò- un gran bel vivere in un mondo dove nessuno ti trovava. Missing. La telefonata serale dalla cabina, e nemmeno tutti i giorni; non era estate, Pasqua era già passata e le code estive erano ancora ben al di là dal venire. E solo. Senza un cazzaccio di nessuno. Prepararsi una bella cena di troiai davanti alla televisione (la tv c'era, il telefono no; però l'antenna ballava e faceva malissimo). Andare a dormire se t'andava, e sennò di nuovo a giro, a buio, in riva al mare. Allora, come dire, avevo ben ventidue anni. Ci avevo un animo poetico, e inoltre mi piaceva pure un casino tirarmi qualche sega all'aria aperta, sotto le stelle, immaginando cose sconcissime con una sirena.
Il giorno prima della partenza, la doccia fredda. Mi chiama mia zia. “Riccardo”, mi dice, “ma lo sai che vengono quelli a mettere il telefono? Bisogna che tu stia a casa una mezza giornata...”. Per mia zia, quando veniva a casa qualcuno a fare un servizio, che fossero gli idraulici o i trasportatori della legna da ardere, erano sempre quelli. Tale pronome dimostrativo aveva un'accezione semantica che copriva tutta la gamma dei mestieri esistenti; al massimo, ogni tanto, c'era una specificazione tipo quelli delle bombole, quelli della televisione, quelli dello scaldabagno. Costantemente quelli, poi, al plurale, anche se poi ne veniva uno solo; ma per mettere il telefono, con tanto di piantamento dei pali, filo di derivazione e installazione, dovevano essere per forza più di uno. Insomma, addio solitudine. Addio mancato reperimento. Arrivava il telefono in casa, persino al Formicaio. Detti un'occhiata languida alla zuppa di gettoni che mi ero preparato, a mo' di mesto commiato; ma fui subito ripreso da mia madre, che mi ammonì a non usare il telefono per chiamare perché costava. Nel loro sacchetto, i gettoni e le monetine ricominciarono a tintinnare.
E così partii, in quel mese d'aprile di 25 anni fa. Arrivai la mattina presto, e alle dieci ero già a scorrazzare con la macchina ché avevo un vecchio conto da regolare con la maledetta militare del Colle Reciso, che allora era ancora un'infernale mulattiera che riusciva a sderenare anche le vetture preparatissime del Rally, compresa la 124 Abarth Coupé di un mio lontano cugino. Mi riuscì di farla tutta, perdìo, con una 127 scassata. Procedendo ad una media di quindici all'ora, con punte di sette / otto. Sigarette a quintali mentre guidavo col finestrino abbassato, perché faceva già caldo e la storia dei granelli di polvere addosso non è mica un'invenzione: me li volevo pigliare sul serio. Impolverarmi come un maiale. Sbucare da quella stradaccia dove nessuno osava mettere piede, zozzo come un magnano, e magari sperare nel ricompensante sguardo esterrefatto di qualcuno (il che, ohimé, non avvenne: non c'era un accidente di nessuno). E così andò, in compagnia della vecchia gatta priva di un occhio, mangiando la sera squisite delikatessen tipo scatolette di carne Montana fritte nell'olio, bevendo birra, facendo le parole crociate, e soprattutto guardandomi bene dall'aprire i libri che mi ero portato dietro. Del resto, un esame ben più importante mi stava aspettando perché la gatta monòcola era pregna e stava per scaricare una quantità imprecisata di gattini.
Ora, successe anche che arrivò quella mattina alle dieci quando dovevano arrivare quelli del telefono. La sera prima, alle cabine, mia madre e mia zia si erano raccomandate; ero andato a letto alle cinque, alle nove mi toccò svegliarmi e alle dieci, zac, eccoli che arrivano. Puntuali come la morte, ma ero testimone di un avvenimento epocale. Il telefono al Formicaio. Semplicemente impossibile. Da qualunque parte del mondo poteva esistere il telefono in casa, anche nelle favelas di Rio de Janeiro, ma al Formicaio significava l'inizio del XX secolo con qualche annetto di ritardo, facciamo un'ottantacinquina. Il furgone Fiat con la scritta Qualcosa-Tel; a quei tempi le cose che avevano a che fare col telefono finivano tutte in -tel e ancora non erano diventate -com. Ne scendono due operai in tuta, uno alto più di me, e quell'altro più alto ancora; nel cassone del furgone, pali di legno, cavi, arnesi, scatole, cazzi d'ambra, castori impagliati, spine, orinali, prese e una copia delle Ore la cui copertina, dilavata dalle intemperie, mostrava oramai solo una fica pelosa. Tanto, poi, a quello serviva.
“Toh, siamo venuti a mètte' ir telefano”, mi disse uno dei due operai, circa un metro e novantacinque d'ossi; gli risposi che me n'ero accorto, salutandolo al contempo col cenno d'una mano. “Te devi èsse uno studente”, mi disse allora, “perché ci hai l'occhiali”. Cazzo, così, senza preavviso. Già sgamato per via degli occhiali. La classe che subito mi colpiva e metteva le distanze: gli occhiali, il ragazzotto che studia nella casa al mare, e tutto il resto mentre loro sono a lavorà. Forse ci avrei avuto qualcosa da dire, ma dovevo averci una di quelle giornate in cui ero scarsamente sveglio. “Dé, invece di studià vieni a imparà un mestiere”, mi fece sempre quello mentre l'altro, due metri di scheletro, aveva già scaricato i pali e cominciato a fare le buche sul ciglio del campo, terrorizzandomi di toccare il cespuglio di fico slabbrato che fa i fichi più buoni del mondo.
E io ci andai, così, a vederli lavorare, a vedere quel che facevano. In preda ad un sottile senso di inferiorità misto a una voglia di tirargli du' manate nel muso; ma forse non era il caso. Comunque, mentre guardavo e fumavo, continuava a pigliarmi per il culo mentre l'altro stava zitto. Stava nascendo il telefono, Antonio Meucci trionfava anche in quelle lande dimenticate da dio, e si drizzavano i pali del progresso tecnologico. Coi cavi a ciondoloni, però. I pali erano davvero pali, di legnaccio duro; tra di essi, il filo dell'avvenire pendeva gnudo. Per isolare il Formicaio, pensavo, sarebbe in fondo bastato un paio di forbici. Assorto in questi pensieri, quasi non sentivo nemmeno più le continue prese per i fondelli di quell'operaio, che la mattina doveva essersi evidentemente svegliato con qualcosa di traverso e aveva trovato un perfetto studente con gli occhiali per sfogarsi.
Insomma, con tutte le cose che avevo in testa allora, non mi era mai capitato di trovarmi davanti, a tu per tu, con la classe operaia. Così, da vicino. Ce l'aveva particolarmente con gli occhiali, che portavo anche allora perché sono miope fin da quando ho sedici anni. Occhiali voleva dire, credo, libri. Libri voleva dire, credo sempre, non fare un cazzo dalla mattina alla sera. E menomale che, in mezzo ai sarcasmi, quello lì non m'aveva domandato cosa studiavo; gli avessi risposto “filologia germanica” sarei stato finito. “Filologia” mentre quelli stavano piazzando dei fili; come servirgliela su un piatto d'argento. Però li guardavo anche lavorare, e a un certo punto ci fu un piccolo problema. L'ultimo palo era stato sistemato, però il cavo doveva arrivare in casa e nel giardino di mia zia (talmente “pollice verde” da essere soprannominata, fin da ragazzina, la Fiorina) non c'era verso di piantare nulla. Inoltre c'era il susino spuntato quando la mia bisnonna, Dini Giuseppa vedova Dini, cieca, aveva tirato un nòcciolo a casaccio dopo aver mangiato un frutto. Ne era nato un susino, ancora esistente, gigantesco. Aveva superato il tetto. Al Formicaio non c'era il telefono, ma spuntavano susini enormi da un nocciolo tirato da una vecchia cieca; e questo qui non gli è ancora riuscito di inventarlo a nessuno, tranne al Padreterno per chi ci crede.
In mezzo a tutto questo, si fa mezzogiorno; quelli del telefono, gli operai, hanno deciso per un sistema molto pratico, vale a dire far passare il cavo fra i rami del susino -che lo sostiene benissimo. Pali, fili a ciondoloni in mezzo ai rami di un albero, un buco nel muro: l'impianto telefonico più alla 'ioboia della terra. Entrano in casa per fissare la presa, e quello non la smette. Ma tanto chi se ne frega; fra poco hanno finito, se ne vanno, e pazienza. Con mio padre che mi diceva che chi lavora ha sempre ragione, a ventidue anni non ci scherzavo troppo. Stavo zitto; e mentre tacevo, sento un miagolio.
La gatta senza un occhio. Porca puttana, me n'ero scordato; corro di dietro, sul piazzale familiarmente detto Gallina Beach perché d'estate è un forno crematorio ottimo per la tintarella (e per le ustioni), ma a contatto con il pollaio, e nel fossetto c'è lei a cacare gattini. Tranquilla. Lo deve aver fatto chissà quante volte nelle sua vita. Escono fuori e lei li lecca, piano; mi chino. Accanto a lei, casualmente, un pesante stecco di legno, quasi un randello, un rimasuglio della legna da bruciare per l'inverno appena passato. Me ne sto lì mentre sento lavorare gli operai, finché non arriva di nuovo quello che finora mi ha massacrato di prese per il culo, a me e ai miei occhiali. Si avvicina. Mi alzo, quasi d'istinto, e con il randello in mano gli dico:
- Se tocchi la gatta ti spacco il capo, pezzo di merda.
Così, senza motivo. O meglio, sì. Avevo paura che volesse farle del male, a lei e ai gattini appena nati. “Ma io...ma io...volevo dirti solo che s'è finito il lavoro...”. Dovevo averci, forse, una brutt'aria, oppure era la mia presa di coscienza di appartenere alla classe felina. Non è che si diventa Pampalea a caso; però le coscienze e le classi non sono cose semplici. E chi si diverte a far troppe semplificazioni, appartiene solo alla classe dei babbei.
E, infatti, lo avevano finito, il lavoro. L'altro, con l'apparecchio, stava controllando la linea (che non c'era ancora); forse, chissà, la sera o il giorno dopo. E se poi la linea veniva anche un mese più tardi, sai che importanza; arrivò, comunque, nemmeno tre ore dopo.
Non mi disse più nemmeno una parola, mentre rimballava le sue cose e l'altro operaio, quello che era stato sempre zitto, sogghignava. La gatta, nel frattempo, si era presa i gattini uno per uno, agguantandoli con la bocca per la pelle del collo, e li aveva portati chissà dove nel campo, al sicuro; ché poi, in campagna, di sicuro non c'è mai niente. Chissà quanti ne sarebbero sopravvissuti; ma così va, e da sempre, e lo sapevo anche se avevo gli occhiali e studiavo la filologia germanica. Forse gli avevo messo paura, chissà; forse aveva pensato davvero che gli avrei tirato una randellata; ma avevano lavorato duro, e il loro pane se l'erano guadagnato, i loro pochi soldi d'una mattinata al servizio, come tutti, del sor padrone che finiva in -tel.
Tre ore dopo, l'avvenimento. Alzo la cornetta e sento il tu-tu-tu. E non resisto: compongo un numero, che però non è quello di casa. Chiamo un'altra persona, per raccontarle dei gattini appena nati: è la prima telefonata fatta nel ventesimo secolo dal Formicaio, frazione rurale di Marina di Campo, Isola d'Elba, provincia di Livorno, Italia. Il cavo pende dai rami del suo susino; lo farà, e senza alcun problema, per quasi vent'anni. Fino a una sera settembrina di tempesta quando un fulmine lo colpirà incenerendolo e scaricandosi addosso ad un tizio che, per l'appunto, stava al computer a scrivere un post su un newsgroup dopo aver passato una meravigliosa giornata ad essere processato a Livorno; non vi dico chi è. Era un lavoro ben fatto, con quei cavi tra i pali, le susine e il cielo; hanno fatto in tempo a far marciare anche Internet.
Ho letto, in questi giorni, un po' di cose dove si parla di operai. Volevo dire la mia, ma la mia è quasi sempre disassata, sbalestrata. Sarò fatto così, ma poi ognuno ne tragga le conclusioni che desidera perché detesto sempre di più le operette morali e mi piacciono, invece, le libertà d'intendere che promanano da ciò che si sceglie di raccontare. Pure oggi ho mandato pesantemente in culo un operaio che non voleva farmi passare col furgone; gli faceva fatica spostare una transenna di quindici centimetri. Ho sempre gli occhiali, ma non mi si prende più tanto facilmente per il culo a gratis. Sono sceso dal furgone e la transenna gliela ho spostata io, ma con una pedata. Stava rifacendo un muro, lavorando senz'altro benissimo, e per i soliti pochi soldi di un padrone di merda.