Dopo questo primo seppellimento, gli aquilani sono stati ripetutamente seppelliti da altre cose che, volendo, sono ancora più tremende del terremoto.
Sono stati seppelliti dal più gigantesco e ignobile spot elettorale che si sia mai visto in questo paese. A macerie ancora fumanti è arrivato Lvi, con aria grave e compunta, serio, vestito di scuro, scravattato (la cravatta non si addice alle emergenze) ma con la dolcevita a collo alto. Credevano di averlo messo alle corde con un po' di gossip, di disavventure coniugal-sessuali e di cazzi ritti di Topolanek, e con qualche decina di domande. Gli è bastato, invece, un terremoto di una magnitudo che, in paesi civili, avrebbe provocato soltanto qualche ferito. Gli sono bastati i consigli dei ministri tenuti in una città dove era crollato persino il palazzo del governo, la Prefettura. Gli è bastato apparire, farsi riprendere dalle sue sei televisioni e promettere, come sempre, mari e monti. Addio Noemi, addio Veronica, addio feste a Villa Certosa, e addio anche alle domandine di Repubblica. Addio alle raccolte di firme e a tutte le inutili boiate del genere. Seppelliti gli aquilani sotto un mare di provvidenzialismo. Ce ne saranno stati parecchi, anche fra di loro, che in quei giorni hanno pensato, convinti: menomale che c'è Lvi.
Seppelliti poi dal G8 spostato, sempre da Lvi, dalla Maddalena all'Aquila. Seppelliti dai padroni del mondo e dalle loro ladies, tra beneficienze, visitine ai monumenti crollati e gli inutili rituali di quel periodico summit di assassini planetari. Intanto, alla Maddalena, stavano succedendo certe cosine di cui si comincia a sapere un po' giusto in questi giorni. Intanto gli aquilani venivano espropriati della loro città, della loro storia e della loro vita come comunità per un piatto di lenticchie. Qualche casetta ben grancassata dai Vespa, dai Minzolini, dagli emilifìdi. Esibizioni di facce sorridenti, dopo il classico momento del dolore coi funerali delle vittime.
Calate nella terra proprio mentre, a loro insaputa, venivano pure seppelliti dalle risate. Bisogna muoversi, non c'è mica un terremoto ogni giorno!; e giù risate, risatine, risatone. Ma qui non era come nel vecchio slogan, che voleva mettere in risalto il ridicolo del potere. Qui si trattava, e si tratta, di un potere che ride sulla morte e sulla rovina dei sudditi, mentre i sudditi stessi lo osannano. Si tratta di capi di "protezioni civili" che di civile, ce ne accorgiamo, non ha niente. Di direttori generali dei lavori pubblici, di costruttori, di tutto un sistema che non domanda più sterili filosofie, analisi teoriche tanto più cretine quanto ambiscono ad essere "approfondite" o indifferenze più o meno disilluse. Si tratta di un sistema che ci costruisce le case, gli ospedali, le scuole, e che lo fa fregandosene se crollino o se stiano in piedi. Di un sistema che ci dovrebbe proteggere, e che invece protegge soltanto se stesso e il suo profitto. Di un sistema i cui lavori pubblici, oltre a dare il colpo di grazia a ciò che ancora resta di questo paese, sono tutt'altro che "pubblici". Di un sistema le cui privatizzazioni ci tolgono tutti i beni primari per trasformarli in fiumi di denaro, appunto, privato. Tutte cose che hanno un'incidenza immediata sulla nostra vita. Sarebbe bene ficcarselo nella testolina prima di rinchiudersi in storielline avulse dalla realtà.
Ce n'è voluto di tempo, prima che gli aquilani, finalmente, si accorgessero di quel che veniva combinato sulla loro testa, sulle loro macerie, sulla loro morte. Prima che rialzassero il capo, prima che manifestassero, prima che formassero collettivi di riappropriazione. Prima che cominciassero a mandare alla malora tutto il vomitevole giochino di quei signori che ridono. Non è mai troppo tardi; ma tutto rimarrà inutile senza una cosa fondamentale. Basilare. Urgente.
Quei signori là non devono più dire di proteggere. Non li vogliamo più vedere con le loro dolcevita, coi loro prelati benedicenti, con le loro sfilate, coi loro "consigli", coi loro summit, coi loro maglioncini blu impataccati di stemmi, con le loro telefonate, coi loro affari di merda, con le loro risate. Non ce ne deve fregare niente né delle loro puttane, né delle dieci domandine di giornaloni di questa ceppa di minchia. La domanda da rivolgere loro è una sola: