martedì 20 aprile 2010

Il tedesco Klöger (4)


La scena era bizzarra, con quei due vecchi che si fissavano sopra il terreno polveroso, fra le erbacce e quei maledetti forasacchi che all'Elba allignano in abbondanza; una volta appiccicati ai vestiti con le loro spighette irritanti, bisogna levarseli un per uno, con pazienza. Nonostante il caldo atroce, parevano composti, e non sudavano; Waldtraud li osservava senza capire ora mai più niente. Di tornare dentro il furgone non se ne parlava nemmeno; sarebbe morta per un colpo di calore. Disgraziatamente, il suo compagno s'era portato via le chiavi, altrimenti non ci avrebbe pensato un momento a mettere in moto e andarsene via da sola, lasciando tutti i suoi accompagnatori al loro destino che sembrava interessarli molto più di una donna oramai sfiorita e con gli occhiali sgraziati e troppo grossi. Si rifugiò nella baracca del distributore, lasciata aperta; anche lì faceva un caldo da schiantare, ma almeno era al coperto e forse era rimasta qualcosa da bere nel frigorifero. Non si accorse nemmeno che i due si erano messi a parlare, quasi sottovoce; non si accorse che avrebbe potuto capire, perché parlavano in tedesco.

“Tu non lo sai quanto tempo ci ho consumato a cercarti. Non lo sai.”

“No, Kurt, non lo so. E non m'interessa nemmeno saperlo.”

“Che non t'interessi saperlo, posso capirlo. Non ti è interessato più niente di niente, né di che cosa fosse successo, né di chi...”

“Senti, Kurt, al destino non ci si può opporre, ed il mio era evidentemente di finire su quest'isola. E ci sto benissimo. Sono trent'anni e rotti che non pronunciavo più di dieci parole di fila in tedesco; e sono deluso di me stesso, perché credevo di averlo finalmente scordato. Maledette le lingue materne. Si vede che era destino che a questa pompa di benzina dove non viene mai nessuno, un giorno ci capitassi tu con la tua famiglia o che diavolo è. Accetto tutto quanto. Ma non venirmi più a raccontare storie. Il mio destino sei stato tu, sei stato tu a metterlo in moto. Senza di te non sarei stato qui. Non mi fare perdere altro tempo, ti prego. Quel che stato è stato. Ma ora vattene. Il pieno al tuo furgone te l'ho fatto. Puoi anche non pagarmi, se ti va. Ma vattene via.”

Lentamente, l'uomo del furgone si alza cavando fuori dal portafogli alcuni vecchi articoli di giornale, ancora leggibili chiaramente; li getta per terra. Nella baracca, Waldtraud sta boccheggiando, sperando forse che passi qualcuno che le dia un passaggio per tornare a Porto Azzurro, per non dire addirittura a Portoferraio. Quel giorno, comincia a pensare, è tutto terminato. Non si può più usare un tempo passato, e il narratore, dopo una cena fuori orario, un bicchiere di sambuca ed uno strano insetto ricolmo di zampe che gli passeggia sul computer sporco di fumo e grassaglia del derma, passa momentaneamente al cosiddetto presente storico in mezzo ai salti temporali ed agli intrecci d'una sorte che è unica.

Il pezzo di trafila, acuminato più di una mannaia, oltre a decapitare il povero Lothar Guske, aveva sfiorato la carotide dell'obeso e anziano Armin Pögg, il padrone; per lo spavento, e per la visione del suo accompagnatore decollato di netto, era svenuto pur non essendo stato toccato. Qualcuno degli operai alle macchine più lontane era corso a cercare aiuto, qualcun altro a chiamare la Feuerwehr e i Malteser; i rivetti della Kratos 19, sparati come proiettili, avevano ucciso il capomacchina della trafilatrice di fronte, Eugen Thässe, e l'apprendista sedicenne Thomas Wartmann. All'improvviso, la barra orizzontale superiore della Kratos era collassata sul resto della macchina, fermando il trasportatore e aprendo una falla in corrispondenza del transition piece centrale; ne era stato espulso fuori, con una curiosa traiettoria ondulante, uno strano e piccolo oggetto circolare che somigliava ad una spilla. L'oggetto atterrò ai piedi del capomacchina di una Kratos adiacente, la 16, che tutti chiamavano “Karl” sebbene il suo vero nome fosse Andreas Zeck; somigliava però incredibilmente a Karl May, lo scrittore di romanzi d'avventure che in Italia viene chiamato il Salgari tedesco (mentre, in Germania, Salgari viene chiamato il Karl May italiano). Karl May era uno degli scrittori preferiti del giovane Adolf Hitler.

Stava accorrendo alla Pögg tutto ciò che poteva accorrere, vigili del fuoco, polizia, autoambulanze, soccorritori improvvisati. Gli altri macchinari, abbandonati durante il lavoro dalle maestranze in cerca di riparo o di fuga, avevano continuato a sputare latta trafilata alla rinfusa, finché il vecchio Pögg, ripresosi dallo svenimento e resosi conto dello sfacelo, non aveva dato ordine a qualcuno che andasse in centrale elettrica a spegnere tutto quanto. Sangue, brandelli di tutto, cadaveri, la testa di Guske rotolata surrealmente verso un pezzo di latta trafilata che le si era quasi adagiata addosso come una specie di corona. Dalla Kratos 19 era stato espulso, senza che nessuno se ne fosse accorto, uno strano e piccolo oggetto.

Il conducente del furgone Volkswagen aveva un'espressione strana, a metà tra la disperazione e la sfida. Aveva fatto qualche passo per allontanarsi, ma poi era tornato indietro. Il benzinaio stava ancora seduto a terra.

“Ora mi ascolti per l'ultima volta, Anton.”

“Non ho nessuna intenzione di ascoltarti. Ti ho detto di andartene e di lasciarmi in pace.”

“No. Mi ascolti e basta.”

Anton Erwin Klöger von Ritzebüttel und Hadelheim fece uno strano gesto con la mano, quasi a dire: Parla, parla, tanto non ti ascolto. Kurt cavò fuori da una tasca dei pantaloni il portafoglio e ne trasse alcuni vecchi articoli di giornale, mezzi rovinati ma ancora perfettamente leggibili.

“Non te li do, ancora, vecchio caprone. Non te li do perché prima ho da raccontarti una storia. Ti devo raccontare quel che è successo dopo quel giorno, dopo l'esplosione alla Pögg, quando tu sei scappato via senza dare più notizie di te. Sarebbe bastato che tu fossi rimasto un giorno ancora, sai. Un giorno solo. Ti saresti evitato una vita di miseria in questo posto, e soprattutto una vita intera di rancore. E io avrei evitato di passare la mia, di vita, a cercarti per dirti che non avevo fatto niente. Che non te l'avevo rubata io quella maledetta spilla. Che non ce l'avevo affatto con te perché tu eri figlio di nobili, e io figlio di poveracci della Sandmoor da cui anche te facevi finta di venire. Che lo sapevo benissimo che facevamo la stessa fame in quel periodo schifoso. E poi che ne sono venuti anche di più schifosi, di periodi. Lo sai che fine ha fatto la Pögg?”

Anton continuava a non parlare, voltando ostentatamente la testa da un'altra parte.

“Te lo dico lo stesso, sai. Nel 1944 è stata rasa al suolo, completamente, da un bombardamento americano. Altro che Kratos 19. Non ci sono rimaste nemmeno le briciole, di quella fabbrica. E di quelli che c'erano a lavorare dentro, se ne sono salvati in quattro. E ora, to', leggiteli quegli articoli. Non penserai mica che li abbia fatti scrivere io, no?”

In mezzo al trambusto, era stato un altro apprendista, Oskar Dahnert, a trovare l'oggetto. Mezzo ammaccato, lo aveva portato al vecchio Pögg che lo aveva guardato con stupore.

“Ma dove lo hai trovato, questo?”

“Vicino alla macchina scoppiata, padrone...”

“Non era dentro, vero...?”

“No...però era proprio lì accanto...che cos'è, signore?”

“È una spilla. E io so di chi è. Devo andare a fare due chiacchiere con un tuo giovane collega.”

Anton e Kurt, ancora spaventati dall'esplosione, se n'erano rimasti in disparte, vicino alla porta del bagno che, per fortuna, era abbastanza lontana. Avevano visto avvicinarsi il vecchio Pögg, accompagnato da un tizio con un'impermeabile scuro che puzzava lontano un miglio di ispettore di polizia. “Ehi, Kurt, ma pensi che ce l'abbiano con noi?...”, aveva fatto in tempo a dire Anton; due minuti dopo erano arrivati altre tre agenti, e i due ragazzi erano sotto il tiro delle pistole.

“Senti, Winnesia, ma per quanto la dobbiamo mandare avanti 'sta commedia?...”

A parlare era stato il figlio di Kurt, Matthias, rivolto alla sorella gemella. Portava quello stranissimo nome, forse unico in tutta la Germania, per via di un pacifista neozelandese che, venti anni prima, si era incatenato davanti all'ambasciata USA di Wellington nel primo anniversario dello sgancio della bomba atomica su Hiroshima: si chiamava James Winnes. La notizia, a dire il vero, non aveva fatto per niente il giro del mondo, anche se in Nuova Zelanda aveva avuto un certo risalto; ma Kurt Winckel l'aveva letta sulla rubrica Curiosità dal mondo del Cuxhavener Nachrichten. Così, quando sua moglie era finalmente rimasta incinta, aveva pensato di chiamare “Winnesia” la femmina dei due gemelli, nati il 17 giugno 1951. All'epoca, i due ragazzi avevano da poco compiuto sedici anni.

“Non lo so, Matthias, non lo so. Non cede, la vecchia. Si incazza, si incazza, ma poi rimane sempre con papà. Alla fine ci toccherà scopare sul serio per farla andare via...”

“Io non ne posso più. Oramai forse dovremmo accettarla. Non si può andare avanti così.”

“Sì, ma oggi mi sento che succede qualcosa. È uno strano posto, questo...”

“Tu e i tuoi soliti presentimenti. Questo è un posto come un altro, solo che fa un caldo pazzesco. Perché non torniamo al furgone e diciamo a quei due di ripartire e di andare a trovarci una bella spiaggia...? Ti giuro che, se mi butto in mare a fare il bagno, ci vorrà la polizia per farmi uscire...”

Winnesia sorrise al fratello, finalmente libera dalla recita. Si abbracciarono senza nemmeno sfiorarsi con le labbra. Chi non sorrideva affatto era Waldtraud, accaldata, sudata e senza più nemmeno un goccio d'acqua nella baracca del distributore. Oramai si era decisa: sarebbe andata dal suo compagno a tirarlo via di lì, senza nemmeno chiedergli perché se ne stesse ancora a parlare con un benzinaio sconosciuto. Era abituata alle sue stranezze. Uscì dalla baracca blaterando fra sé e sé delle male parole; li vide abbracciati.

(continua mercoledì 21 aprile)