Quod mihi Roma abstulit, Roma mihi reddit. E' un messaggino SMS che, tanti anni fa, trovandomi vicino a Ostia, mandai al numero di una persona che abitava da anni in quella città. Mi sembrava così, in quel breve momento, e allora volli dirglielo; mi rispose qualcuno che si dichiarava contento, dandomi del "fratello". Forse, ora, so persino che faccia deve avere; ma tutto è su coordinate troppo distanti per avere oramai alcun valore. Il ricordo si fa Maelström; Roma compare e scompare, e alle volte mi fo scaricare da un treno alla stazione Termini per ricominciare a chiedermi che cosa ci abbiamo in sospeso, io e Roma, e perché. Ho addosso una vecchia giacca comprata a Porta Portese, ed è sempre così; se vengo a Roma, ci vengo con le inesistenze addosso. I messaggini in latino, le giacche, il caffè; tre rabbie, tre rifiuti, tre insulti e tre dolori. E me li porto aguzzando gli occhi, mentre monto sul 40 Express che mi deve portare al Largo di Torre Argentina; sto andando lì a misurare quanto mi ricordi quelle dieci strade, dall'insopportabile piazza Esedra giù per la tronfia via Nazionale. E piazza Venezia, certo. Ma ho in mente un'altra cosa. Sono partito con dentro allo zaino un po' di roba da mangiare per gatti.
I gatti di Largo Argentina sono altri ricordi, e altre microfiamme che bruciano fredde e scostanti. Mi dicono a volte che non c'è mai stato nulla, e che la vita è fatta di conoscenze casuali che altrettanto casualmente se ne vanno lasciando poco o nulla. Ma quali amicizie, ma quale affetto; parole, vuote buriane, sentenze, vite altrui che si mantengono incomunicabili anche e soprattutto quando viene pronunciata qualche parola magica che magica non è affatto, tipo "condivisione". Baggianate. Si fa fatica a condividere qualcosa con noi stessi, figuriamoci con qualche altro che passa e va. Ma i gatti sono là, a crogiolarsi ad un sole che sembra non esserci, ma che loro magari vedono e sentono. Tiro fuori i pacchetti dallo zaino, ed eccoli là a mangiare con calma, ordinatamente, senza azzuffarsi. Qualcuno di loro addirittura sdegna il cibo, mostrandosi sazio, e si lecca ostentatamente come fosse lì da duemila anni. Roma e i passi. A testa all'insù. Roma e i muretti.
Devo andare a San Basilio. A San Basilio non ci sono mai stato. Dovrei tornare alla stazione Termini e prendere il metro B fino a Rebibbia, con sette "b" naturalmente; ma non ho la minima voglia di scendere sotto terra. Un taxi, che so che mi costerà uno sproposito; ma chissenefrega. A Roma io esercito ogni sorta di pretesto; c'è anche quello delle macchine vecchie, una vecchia passione che da qualche tempo ho ritirato fuori. Pronto anche a far fermare il taxi per fotografarne una, facendo così aumentare il prezzo della corsa. "Mi porti davanti alla Metro di Rebibbia", dico ar tassinaro; solo che er tassinaro è di Kosovska Mitrovica, ex Titova, e me lo dice pure. Ci sono passato una volta, per Mitrovica, proprio quando ancora era Titova; mi si aggrapparono cinque o sei bimbetti fangosi alla Fiat Ritmo che poi prese fuoco un 11 di settembre. Andavo nell'Ellade. Fa sempre una certa impressione dire "Ellade", specialmente rammentandomi di come cominciava dopo Gevgelija, con una specie di spettrale casinò al termine dell'Universo. Insomma, er tassinaro sa che se deve pijà 'a Tibburtina, con cinque "b", e la pija proprio dall'inizio, in San Lorenzo, dopo la brevissima via di Santa Bibiana. Un delirio di "b"; e un delirio personale.
Io vengo da una città dove una strada, e solo dal lato nei numeri pari, fa fatica a superare il numero 1000. Via Pisana si ferma al 1076, ma i numeri dispari si son fermati all'841 non so quanto prima, perché da quel lato poi è già Scandicci. Farsi 'a Tibburtina dall'inizio è come ritrovarsi all'improvviso nell'Oceano Pacifico per uno che non s'è mai mosso dal lago di Massaciuccoli. Due, quattro, centoventisei, e l'automezzo avanza; ar Cimitero der Verano se fa autostrada co' li viadotti, poi si restringe e entra nelle progressive dilatazioni e periferiche mentre il cielo s'impiomba e mi passa davanti una 500 decrepita; ma sarebbe inutile chiedere ar tassinaro cossovaro de fermasse in mezzo a un gorgo di traffici, circolazioni e melme gassose. E i numeri aumentano; 564 c'è un dentista al quinto piano, 622 c'è che da qualche parte ce stanno li fantasmi e me stanno a tirà mazzate, 828 una pizzeria che secondo me fanno la pizza al tungsteno, 994 un'opera pia. Il Mille non mi riesce, però, di vederlo. Mille e non più Mille. Roma.
La imparerò così fintantoché quella maiala della Morte non mi colga; abitando dentro a un ballo di povere fissazioni che mi porto dietro fin da bambino. Viaggiando come un cretino a bordo di un taxi sgangherato, con un guidatore che palesemente non sa manco pe' niente dove sta er metrò de Rebbibbia (e, infatti, lo toppa senza sapere più dove andare, mentre i numeri stanno ormai al 1280 e non si vede davanti che un'infinitezza). Mi soccorre il gatto che, con Roma accanto, si lecca e sbadiglia ancora nell'immagine, mentre i miei pacchettini di prelibatezze stanno già trasformandosi in merda nelle pance dei suoi compagni eterni com'eterni sanno essere soltanto i gatti. Telefono alla persona dalla quale devo andare, e mi fo dare il suo indirizzo preciso; tanto che ci siamo, che venga portato direttamente a domicilio. Domicilio San Basilio; fa pure la rima.
Un'inversione a U da far paura, e i numeri all'improvviso mi decrescono davanti. Chissà dove arriva, 'a Tibburtina; però mi trovo davanti, all'improvviso, via Montecarotto. E mi ritrovo davanti un ragazzo mai conosciuto. Si chiamava Fabrizio Ceruso; e lo sapevo che, da qualche parte, mi sarebbe passato davanti. Roma, e chissà dove sei e che cosa fai. Roma, e i numeri delle case si fanno mantice. Trenta euro di taxi per essere portato davanti a dei lavori in corso, assi di legno, un prato, un culo appoggiato sul muricciolo di un giardino. Una molecola di Roma davanti agli occhi; e ancora, questi, sono in su. Guardano verso qualche punto, tra gatti millenari e presenze che, in quello stesso momento, usano dell'unica forma di condivisione possibile: esserci ed esserci state. S'aggrovigliano e formano quelle quattro lettere dai cento anagrammi, Roma Amor Mora Maro Armo Omar Ramo. E mentre il sarto Arepo tiene all'opera le ruote, penso alla prossima volta. Sarà fra un mese o fra un anno; non ci sarà, forse mai. La imparerò, Roma, tutta quanta. Io, piccolo provinciale meravigliato, alla ricerca di Cinquecento e numeri civici altissimi, libero, dovizioso di stanchezze, impercettibile, luce.