mercoledì 13 novembre 2013
Lotto 14
La mia casa è stretta e
lunga; quando mi compare in sogno è ancora più stretta e ancora più
lunga. La disposizione della mobilia e dei libri è più o meno la
stessa, ma vi sono delle stranezze che si ripetono sempre; è, ad
esempio, leggermente inclinata verso il bagno. Come fosse in discesa
dall'entrata. Ha sempre una luce soffusa e arancione che penetra
dalle finestre, ed è molto più ombrosa di quello che è in realtà;
infine, è infinitamente più sporca e disordinata. Quando mi è
comparsa in sogno stamani, dopo una nottata arruffata, ero impegnato
a grattare dal pavimento, con una specie di grossa spatola, uno
strato quasi fangoso di sporcizia che si era accumulata; quella che
all'Elba si chiama gromma.
C'erano, fuori, dei rumori bizzarri; in casa avevo due gatti che
gironzolavano, uno grande e uno piccolo. Non mi ricordo di che colore
fossero.
Un
busso violento alla porta. Apro chiedendomi chi cazzo sia a
quell'ora; entra una comitiva di persone, alcune vestite da operai di
cantiere, un paio in giacca e cravatta con delle cartelle. Entrano di
malagrazia senza nemmeno dare il buongiorno; l'incravattato più
corpulento si siede al tavolo e tira fuori un pacco di documenti,
l'altro incravattato (magrissimo, più anziano, con la barba e i
capelli folti e grigi; mi dà un'impressione di bellezza) resta in
piedi così come gli operai che cominciano a inchiodare delle travi
di legno. L'incravattato seduto si qualifica come dirigente comunale
e mi comunica l'avvenuto esproprio della mia casa con immediato
provvedimento di demolizione. Rimango interdetto, provo a chiedere
qualcosa, ma l'incravattato in piedi, quello magro con la barba, mi
dice: “Stai zitto, mentecatto”. Provo a dire qualcosa e mi viene
fuori una specie di breve ma stranamente urbano comizio, del tipo “Ma
come si permette lei di parlarmi così in casa mia...? Ma non si
vergogna di offendere uno sconosciuto che non le ha fatto nulla...?”
Quello ride mentre il dirigente comunale dice agli operai di
sbrigarsi e a me di prendere le mie cose e di sloggiare. Si sentono
rumori più forti, la luce si fa ancora più arancione e si
percepisce, fuori, una marea di polvere.
Il
sogno si fa angosciante, un incubo in cui sono dentro fino al collo.
Mi sento disperato, prossimo a morire. Nei sogni, però, c'è sempre
l'oggetto giusto al momento giusto; metto la mano in una specie di
scaffale in legno grezzo che nel frattempo si è materializzato, e ne
tiro fuori una pistola carica. Sparo prima al dirigente seduto, che
sta scrivendo, centrandolo nella nuca; schizzi di cervello e sangue.
Poi al magro con la barba, due colpi nel torace; aveva cercato di
reagire, muore dicendo qualcosa che non capisco. Poi ammazzo gli
operai, uno ad uno; muoiono tranquillamente, quasi fosse inevitabile.
I gatti dormono sul letto. Silenzio totale. La casa è piena di
cadaveri e c'è un puzzo tremendo; mi metto uno straccio bagnato
attorno alla faccia, tengo la pistola in mano e esco a vedere che
succede fuori.
Non
c'è più nulla di quel che c'era prima. Il cortile, i giardini, i
palazzi, gli alberi, le strade; tutto cancellato. Al loro posto, un
immenso cantiere: scavatrici, gru, reticolati arancioni, buche
enormi, macchinari e una polvere impenetrabile nell'aria che si è
fatta ancor più arancione. Fa un caldo disumano. Davanti all'entrata
di casa mia è stato scavato uno scivolo in cemento armato, chiuso da
un muro altissimo; dal muro parte un tubo di metallo che va a
terminare sopra la porta, quasi a puntellare quel che resta dello
stabile. Tutto è stato demolito tranne casa mia; ero l'ultimo da
cacciare via. Non c'è nessuno in giro. Di fianco allo scivolo chiuso
è stato lasciato un passaggio strettissimo, pieno di erbacce
spinose; l'aria è irrespirabile. Uscito fuori mi trovo di fronte
alla devastazione dell'Isolotto; tutto ricorda neppur tanto vagamente
Ground Zero. Cerco di saperne qualcosa. Uscendo verso quello che era
il parcheggio leggo un grosso cartello: “RIQUALIFICAZIONE
DELL'ISOLOTTO – LOTTO 14”. Sono sconvolto e mi guardo attorno,
per quel che riesco a vedere nella polvere sempre più fitta; credo
di vedere un'ombra che mi fa cenno di andare da una parte. Ci vado.
C'è un'enorme ruspa col motore acceso.
Salgo
sulla ruspa e aziono leve a caso; non la so guidare ma nel sogno
imparo in dieci secondi. La prima cosa che faccio e tirare giù il
muro che chiude lo scivolo di fronte a casa mia; dalla porta i due
gatti annuiscono soddisfatti e faccio loro un saluto togliendomi un
cappello piumato capitatomi in testa da chissà dove. Si cominciano a
sentire grida all'intorno, prima lontane, poi sempre più vicine; una
marea di gente. Comincio a riconoscere i vicini di casa; il
pensionato del box di fronte, la signora dell'appartamento accanto,
la parrucchiera, le maestre dell'asilo nido. Vedono la ruspa e si
impauriscono; poi mi riconoscono. All'Isolotto scoppia,
all'improvviso, la rivolta. Senza dichiarazioni e senza guide. Senza
clamori e senza nessuna pietà. Una tranquilla violenza si accinge a
far pagare caro, e far pagare tutto. Senza sconti.
Vengono
abbattutti i cartelli della Riqualificazione. Con la ruspa strappo
via i reticolati da cantiere di plastica arancione; mentre lo faccio,
la polvere si dirada improvvisamente e compare, nitida, la
devastazione operata. Con gli attrezzi recuperati nel cantiere la
folla comincia a ammazzare funzionari, capimastri, architetti,
ingegneri, operai. Un vecchio prende a badilate un lavoratore urlando
orrori contro la sua famiglia di merda e contro il suo lavoro,
dandogli di rottinculo ubbidiente come una pulce ammaestrata; lo
massacra. Al centro del cantiere qualcuno nota l'avvio di una grossa
galleria; in lontananza, verso il fiume, si vedono chiaramente delle
forche già drizzate. La scena è allucinante; per non impazzire
comincio a dire dall'altoparlante della ruspa (naturalmente, nel
sogno, lo ha): “Bisogna spazzare via tutto questo orrore. Bisogna
distruggerlo. Poi si rifà tutto com'era. Anzi no: come lo vogliamo noi.” Dico chiaramente, poi, una frase in portoghese: Falemos dum passado que não tivéssemos tido. La scena cambia in due
secondi. L'Isolotto torna com'era prima; fuori di casa mia c'è il
cortile, ci sono i giardini, il parcheggio, gli alberi, l'asilo nido.
E' una tranquilla giornata qualsiasi, casa mia è sempre stretta e
lunga, dalla luce arancione soffusa e sporchissima. Sto di nuovo
tentando di raschiare la sporcizia dal pavimento, mentre non so come
mi sbarazzo dei cadaveri semplicemente buttandoli nella spazzatura.
Ad un
semplice miagolio di uno dei gatti, però, mi ricordo di una cosa. In
un secondo sono trasportato nell'antica piazza del Comune, dove
staziona una Ferrari rossa fiammante. Esco fuori tirando per la
giacca il giovane sindaco, coprendolo di insulti e prendendolo a
calci nel culo; poi lo impicco a un cappio lanciatomi da un balcone,
e lo lascio a penzolare. Torno a casa...e mi sveglio. Mi ci vogliono
letteralmente minuti per convincermi che si trattava di un sogno;
poche volte mi era capitato di esserci dentro in un modo simile, non
un sogno ma una seconda vita. Come la casa fosse quella dall'altra
parte della barriera del reale, a meno che -naturalmente- il reale
non sia quell'altro, e che non sia io, in questo momento, dall'altra
parte.
Mi
guardo attorno; sono le nove del mattino. Mi prende una specie di
frenesia; faccio i piatti della sera prima in tre minuti, come una
macchina da guerra. Riattacco il manifesto antifascista bretone che
penzolava scollato, a una parete, da giorni. Rimetto in ordine il
mobiletto rosso che non vedeva interventi da due anni. Spalanco la
porta col timore, non ancora fugato, di vedere la devastazione; che,
comunque, c'è. Tendo gli orecchi putacaso si captasse qualche
lontano grido; tendo gli occhi putacaso si scorgesse qualche lontano
capestro che vi aspetta, sì che vi aspetta.