martedì 26 novembre 2013
Cavarsi un dente
È successa una strana
cosa, pochi minuti fa. Talmente comune che ho voglia di raccontarla.
Ieri sera mi sono levato
un dente. Non metaforicamente (“via, leviamoci 'sto dente”): mi è
toccato proprio andare dal dentista a farmi cavare l'ennesimo
merdamolare, o come accidenti si chiama. Da un paio di giorni mi
stava facendo vedere i sorci verdi. Inutile starci tanto a pensare,
ballava che sembrava Fred Astaire e, perdipiù, accanto non aveva
oramai nessuna Ginger Rogers. Nel senso che, in alto a sinistra, era
l'ultimo rimasto. Dai denti si ha la percezione esatta del tempo che
è passato; si comincia inesorabilmente a sdentarsi, ed è bene
pigliarne atto senza mettere in campo tante filosofie a bischero.
Così, dopo quattro
punture di anestesia, la cavatina non propriamente rossiniana, i
punti e i regolari scaracchi di sangue, eccomi con le consuete
raccomandazioni dell'odontojatra: l'antibiotico, l'antidolorifico e
mangiare roba fredda. Raccomandazioni particolarmente solenni,
stavolta: il fatto è che c'era pure mia madre. Siccome il dentista è
a cinquanta metri da casa sua, e anche lei doveva farsi fare o dire
delle cose, è stata lì con me a vedermi cavare il dente. Come
quando avevo sei anni e mi toccò andare a farmi levare un dente
di latte che, sembra, ci aveva
di già le barbe e che mi fu cavato senza anestesia perché a
quell'età, dicevano, faceva male. Non lo so se faceva male
l'anestesia; però di quel che ho patito me ne ricordo ancora a 44
anni di distanza.
Forse,
fino a qualche tempo fa, avrei detto a mia madre di restarsene in
sala d'aspetto per un quarto d'ora. Dal dentista si è piuttosto
nudi, c'è un signore che ti mette mani e arnesi in bocca e ti leva
pur sempre una parte di te. Una parte che ha masticato, che ha
digrignato, che si è beccata germi e baci, che infine è mezza
marcita per tutta una serie di cose che vanno dall'incuria all'usura
del tempo. Alla fine, zàc, una pinza e finisce nella spazzatura. In
fondo, è un anticipo di quel che accadrà prima o poi con tutto te
stesso. Niente di straordinario.
Ieri
sera, invece, niente di tutto questo. Non ho chiesto niente a mia
madre. E' restata là a guardarmi mentre il dentista mi cavava il
dente, e mi ha fatto persino piacere. Come se fosse, chissà,
l'ultima volta o qualcosa del genere. Un figlio di cinquant'anni e
una madre di ottanta; due vite, una quasi alla fine e un'altra che ha
scollinato. E così, dopo una mezz'ora, eccomi per la strada coperto
con una sciarpa per non prendere freddo, ma con la prospettiva di
dover mangiare roba fredda. Stranezze dei denti cavati.
Poi
me ne sono andato in un dato posto; ma, dopo un po', l'effetto
dell'anestesia è passato e i punti hanno cominciato a tirare. In
breve, sono dovuto tornare a casa e affidarmi a babbo Nimesulide; ho
preso l'antidolorifico, mi sono cacciato in testa il “collo” a
mo' di berrettone, e mi sono messo a fare non so cosa. Nemmeno alle
dieci ero già a letto, imbacuccato come un novantenne e con una
bella grammatica swahili da leggere. Le grammatiche swahili in
italiano sono state tutte scritte da missionari, non si scampa;
bisogna passarci sopra per godere appieno della fantastica struttura
delle lingue bantu. Nelle lingue bantu si procede cambiando non la
fine, ma l'inizio delle parole. I sostantivi sono divisi in “classi”
a seconda del prefisso con cui iniziano; per fare il plurale, ad
esempio, si cambia il prefisso iniziale. Mtu
“uomo” diventa watu
“uomini”; oppure kitu
“cosa” diventa vitu
“cose”. Gli stessi prefissi si applicano poi a aggettivi e verbi:
così mtu mzuri “bell'uomo”,
watu wazuri “begli
uomini”, vitu vizuri
“belle cose”, watu wazuri wanapenda
vitu vizuri “gli
uomini belli amano le cose belle”, e così via. Ed è arrivato il
sonno, presto, il telefonino e la confezione del Carvasin sublinguale
accanto e la storiella di Abunuwas in swahili, che si ripete in tutte
le grammatiche.
C'era
un povero che passava mentre un ricco arrostiva una capra; avendo
solo un pezzo di pane, se lo era mangiato annusando il profumo della
capra che veniva arrostita. Il ricco, che aveva mangiato una capra
insipida, lo aveva accusato davanti a Harun Rashid di avergli rubato
il sapore della capra, e il sultano aveva condannato il povero a
pagare dodici rupie. Il povero, disperato, aveva incontrato Abunuwas,
che gli aveva regalato le dodici rupie dicendo di andare a pagare, ma
di aspettare che arrivasse prima di farlo. Così era andata: il
povero era andato da Harun Rashid assieme al ricco, ed era arrivato
Abunuwas.
Costui,
prima che il povero pagasse, si era fatto ridare le rupie e le aveva
gettate per terra; aveva detto poi al ricco: “Visto che quest'uomo
ti ha preso il profumo della capra senza mangiarla, tu prenditi il
suono delle rupie”; e Harun Rashid, che pure era noto per il
favoritismo nei confronti dei ricchi, aveva dato ragione al povero.
La storia finisce con Abunuwas che dona definitivamente il denaro al
povero. La conosco da trent'anni, questa storia. Era già nella
grammatica swahili di Vittorio Merlo Pick, altro missionario; il
bello è che, a un certo punto della mia vita, ho conosciuto un
Vittorio Merlo. Senza Pick. Sta in Lussemburgo, ha una caterva di
figlioli e scrive canzoni. E' arrivato il buio di una notte fredda, e
senza nessuna solitudine artificiale. La grammatica swahili lì
accanto, con le sue classi e i suoi prefissi.
Come
sempre quando mi addormento troppo presto, alle tre di notte ero
sveglio; e lo sono tuttora, a più delle sette, e con una pallida
luce che comincia a filtrare.
Il
letto è disfatto, la grammatica swahili la ho rimessa
meticolosamente al suo posto e chissà quando la ritirerò fuori. Mi
potrebbe venire la voglia, chissà, di tirare fuori il mio dizionario
swahili-russo pubblicato a Mosca nel 1961. O quello swahili-francese
regalatomi da un prete congolese. O quello, in due volumi,
swahili-inglese e inglese-swahili fregato non mi ricordo quando e non
mi ricordo dove. Mi sono avviato verso la porta senza fumare. Col
dente appena cavato non si può fumare, e stranamente mi sono
attenuto alla regola.
Faceva
un freddo cane, là fuori. E non mi dava noia.
Chissà
che doveva essere successo. Di solito, quando comincia a fare freddo
sul serio, non sto bene. Non lo sopporto, il freddo; se ripenso a
tutte le fregole sul “grande Nord” che avevo da ragazzo, mi sento
morire. Prima, per due minuti, ho accettato il freddo e mi sono
ritrovato pure a respirarlo, nel mezzo della notte, guardando un
punto che non c'era e ringraziando, prosaicamente, il Nimesulide che
funzionava. Contentandomi di questo con delle classi swahili in
testa, Abunuwas e la capra, e l'impercettibile bellezza di essere
vivo a dispetto di tutto.
Avevo
detto all'inizio che era una strana cosa; ma, forse, non è strana
per nulla. Si piglia il tempo come viene, persino col suo freddo. Si
getta un ponte a quel che sia, e si prova a vedere nel buio di una
notte di novembre; con addosso un berrettone di lana, senza un dente
e facendo, senza nemmeno accorgersene, un sorriso a metà tra la
beffa e l'incoscienza.