giovedì 27 settembre 2018

Nervature di tempo




Proprio come una rondine 
ridisegna sul cielo 
il sacro della primavera 
o l'involo dell'estate, 
la mia canzone, semplicemente 
vorrebbe dire mietere una felicità attesa 

Ma non può dimenticare 
l'odio boia 

Cosí come nasce un amore 
negli occhi di un bambino 
e come nasce un bambino 
nel profondo di un amore, 
questa canzone, semplicemente 
mi nasce per esser state 
l'amore e la libertà 
le mie nervature di tempo 

Ma non può dimenticare 
la catena aguzzina 

Così come il bosco 
passa dall'ombra alla luce 
come il bosco canta 
di foreste alle chitarre, 
la mia canzone, semplicemente 
da una linfa di terra 
vorrebbe dire sperare 
che una gola si empia di vento 
che spazzi via i fuochi infernali 
che consumano il sangue 

E non può dimenticare 
ciò che uccide i bambini.

Manu Lannhuel, 1977

sabato 8 settembre 2018

Sospiro di sollievo...!



Si può essere tutti quanti sollevati: nonostante le previsioni catastrofiche, il panzone milanese e tutto il resto, LVI , che quando c'era i treni arrivavano in orario, non è ancora tornato. Con 200 minuti di ritardo sull'EuroNotte 294 per Monaco, del resto, LVI non sarebbe arrivato in tempo alla conferenza del 1938 e magari la Storia avrebbe preso un altro corso. Il fascismo, quindi, non c'è: si è fermato, sembra, tra Settebagni e Capena, alle porte di Roma, per un guasto sulla linea. La Nuova Resistenza comincia da Settebagni! E pure l'otto settembre!

lunedì 3 settembre 2018

La vita è breve e i libri son tanti




Si va stavolta un po' indietro nel tempo, nella Firenze seicentesca che sarebbe stata ancora Medicea per un secolo; una Firenze che i libri di storia dicono oramai in decadenza, oramai priva da un secolo e mezzo della sua enorme potenza politica e culturale, avviata a un declino che sembra inarrestabile. E giа allora i fiorentini rimpiangono il passato, si lamentano della sporcizia e della mancanza di spazio, e si dividono in inutili fazioni tollerate da una blanda tirannia e da una dinastia di autocrati che sta morendo nell'impotenza e nella malattia. Non vi sono più molti spiriti originali, ma è l'epoca della grande erudizione; e di molti eruditi di quel tempo è piena ancora Firenze, in nomi incisi su targhe stradali. Nomi che non dicono più niente alla maggior parte di noi; alzi ad esempio la mano chi, passando da Corso de' Tintori a Piazza di Santa Croce per un breve tratto di strada, si è mai chiesto chi mai fosse quell'Antonio Magliabechi cui la via è da sempre dedicata. Eppure, dietro ogni nome c'è una vita ed una storia; ed è la vita e la storia proprio di quel nome di cui si parlerа qui. La storia di un uomo che amava i libri più d'ogni altra cosa al mondo.

Antonio Magliabechi era nato a Firenze, in via de' Pepi, il 28 o 29 ottobre 1633. Era figlio d'un piccolo orefice, Marco Magliabechi, e d'una donna dal nome assai singolare: si chiamava infatti Ginevra Baldorietta. Il padre lo avviò, com'era d'uso, al mestiere di bottega fin dalla più tenera etа; e Antonio divenne un orefice di valore. Ma la sua vera passione, quella che davvero la divorava, era un altra: sapere, conoscere, leggere, apprendere. Il giorno lavorava, e la notte leggeva e studiava i libri che si comprava coi pochi soldi che il padre gli dava; perché il figlio a bottega dal padre riceveva, e non sempre, poco o niente. La vera paga era imparare il mestiere alla perfezione in modo, poi, da trasmetterlo a sua volta al figlio. Questo è stato l'artigianato fiorentino fino a non molto tempo fa.

Antonio Magliabechi tenne coscienziosamente la bottega fino all'età di quarant'anni; ma già da quanto ne aveva solo sedici in città si parlava di lui come di un vero e proprio genio. Dotato di una memoria assolutamente stupefacente, paragonabile veramente a quella del famoso Pico della Mirandola, quando poteva si aggirava per i librai della città e comprava tutto quello che poteva; senza contare che qualche libraio, commosso e incuriosito dalla passione del giovane, i libri glieli "prestava" ben sapendo che non sarebbero mai stati restituiti. Fu cosí che Michele Ermini, bibliotecario del cardinale de' Medici, si accorse delle sue capacità e gli insegnò gratuitamente il Latino, il Greco e l'Ebraico, lingue che Antonio apprese alla perfezione e con una rapidità sconcertante. La sua fama cresceva e cresceva, ma continuava a tenere la bottega paterna ed a fabbricar gioielli e vezzi, perché nella vita non si sa mai.

Giunto all'età di quarant'anni, dotato di una cultura assolutamente immensa in ogni campo dello scibile umano, il modesto orefice continuava la sua vita spartana fra i suoi libri, che oramai erano divenuti in numero assai considerevole. Per i libri rinunciava a tutto: si faceva bastare un tozzo di pane, vestiva in modo che definire trasandato sarebbe stato un eufemismo e non gli si era mai vista accanto una donna nemmeno col cannocchiale. Quale donna, del resto, avrebbe voluto vivere accanto ad una persona del genere? L'unico vizio che si concedeva era il fumo del tabacco; non mangiava quasi, ma fumava come un turco aggiungendone il puzzo all'odore non propriamente gradevole che già emanava.

Fu a quel punto che il sogno della sua vita ebbe finalmente ad avverarsi: morto in tarda etа Michele Ermini, il suo vecchio maestro, il granduca Cosimo III trovò del tutto naturale nominare suo bibliotecario personale quello strano e stupefacente personaggio, che i fiorentini di allora chiamavano affettuosamente "Zio Tarlo" (o semplicemente " I' Tarlo"). Correva l'anno 1673; Antonio Magliabechi vendette la bottega, prese i suoi libri e s'installò a palazzo, rifiutando però il sontuoso appartamento che il granduca gli aveva messo a disposizione. Non ne aveva bisogno; si fece dare una stanzetta spoglia, che gli era più che sufficiente. In realtà campava nella biblioteca.

Ben presto, il ripugnante bibliotecario divenne la figura centrale nella vita culturale fiorentina. La sua memoria prodigiosa gli permetteva di sapere non solo tutto su ogni cosa, ma addirittura di conoscere alla perfezione ogni libro che si trovava nella biblioteca ed in altre biblioteche che non aveva mai visto, che gli comunicavano per lettera gli inventari e il contenuto delle opere che possedevano. Non contentandosi di questo, se qualcuno solo gli nominava un breve brano di un'opera contenuta nella sua biblioteca, senz'altra specificazione, era capace all'istante di dirne l'autore, il titolo, il paragrafo e la pagina esatta in cui il brano si trovava. La Biblioteca Medicea conteneva allora più di sessantamila volumi, ventisettemila dei quali costituivano la biblioteca privata che Antonio Magliabechi s'era formato negli anni e che s'era portato dietro aggiungendola a quella storica.

Antonio Magliabechi divenne celebre in tutta Europa. Studiosi ed eruditi di ogni nazione corrispondevano con lui e ne ricercavano il parere; malgrado i suoi costumi assolutamente spartani, anzi diogeneschi (con la biblioteca al posto della botte), non era un "orso" ed aveva anzi un carattere spiritoso, amichevole. A chiunque gli ponesse anche la domanda più difficile e astrusa, era pronto a rispondere, direttamente o per lettera, in modo esauriente e gentilissimo, senza fare assolutamente pesare le proprie conoscenze inarrivabili. La sua modestia, tra l'altro, gli impedí sempre di firmare con il proprio nome una gran quantità d'opere "altrui" delle quali era invece, quando non l'autore completo, perlomeno il collaboratore principale.

Gli stranieri che arrivavano a Firenze ed avevano a che fare con lui ne tracciano un ritratto ammirato e inconfondibile. Nel lodare ovviamente la sua cultura miracolosa, ne parlano come un vecchio ed eccentrico scapolo dall'aspetto sempre più ripugnante con il passar degli anni. Sporco, sempre a fumare o a masticare tabacco, perennemente a leggere nella biblioteca dove sbocconcellava anche i suoi magerrimi pasti infilando fette di salame tra le pagine, a mo' di segnalibro, riprendendole magari il giorno dopo e mangiandosele come se niente fosse. Per più di vent'anni gli si vide addosso sempre lo stesso vestito, finché, non restandogliene che dei brandelli, il granduca non lo costrinse ad acquistarsene uno nuovo. E a chi gli chiedeva come mai insistesse a far quella vita, dato che la sua carica era ben pagata ed era diventato ricco, rispondeva sempre con la stessa frase: "La vita è breve, e i libri son tanti".

I soldi che guadagnava, li adoperava ancora allo stesso modo: comprando libri, libri, libri e libri. Che imparava a memoria in un battibaleno, perché la memoria gli era rimasta quella dei vent'anni, ed ammassandoli in ogni dove. La Biblioteca Medicea divenne troppo stretta, ed era l'unica al mondo dove il catalogo fosse inutile. C'era già un catalogo vivente che si chiamava Antonio Magliabechi. E fu cosí che la sua vita continuò fino alla fine, quella vita troppo breve per tutti i libri del mondo ma singolarmente lunga per l'epoca e, soprattutto, per la condotta di vita che aveva sempre menato. Il vecchio Magliabechi, però, ad un certo punto, s'ammalò gravemente; necessitando di assistenza, fu portato al convento di Santa Maria Novella dove si lasciò morire perché era stato strappato ai suoi libri, cioè all'amore unico ed assoluto della sua vita. Morí il 4 luglio 1714, all'età di ottantun anno. Lasciò tutti i suoi libri al granduca di Toscana, alla sola condizione che egli costituisse una biblioteca veramente pubblica, aperta a tutti, libera. Il suo patrimonio, praticamente mai intaccato, volle che andasse invece ai poveri della città.

Il granduca esaudí scrupolosamente le ultime volontà di Antonio Magliabechi; e la Magliabechiana divenne la prima biblioteca autenticamente pubblica di tutta Europa. Nel 1861, appena costituito il Regno d'Italia, Vittorio Emanuele I emise un decreto "ad hoc" con il quale, dopo secoli, la Magliabechiana tornava ad unirsi con l'ex biblioteca granducale, la Palatina. E' questo il nucleo originale di quella che adesso è la Biblioteca Nazionale Centrale. Via Antonio Magliabechi sorge su un suo lato. E m'immagino se il vecchio Antonio potesse tornare anche un sol giorno sulla terra, e vederla -pur nelle sue tante magagne e con un'alluvione sul groppone- coi suoi nove o dieci milioni di volumi. Chissа cosa chiederebbe al Padreterno, forse una quindicina d'altre vite brevi perché i libri son diventati davvero tanti.

Originariamente pubblicato sul newsgroup Usenet "italia.firenze.discussioni" il 9 giugno 2003.

lunedì 20 agosto 2018

Jettatori !



Insomma, in pochi giorni prima salta in aria la tangenziale di Bologna, poi l'incidente di Foggia, poi crolla il ponte a Genova, c'è il terremoto in Molise e, infine, il torrente calabrese travolge gli escursionisti!!!

Secondo me è tutto chiaro: questi due qua sotto PORTANO UNO SCULO DELLA MADONNA !!!


D'accordo che sembrano due beccamorti già di loro; ma sarebbe bene che vi poneste qualche domanda, invece di applaudirli ai funerali!

Lancia anche tu l'ascetàgghe #salviniedimaioportanoiella! Fai anche tu ogni tanto una cosa utile coi tuoi social del cazzo !!!

venerdì 17 agosto 2018

Claudio Lolli è andato tra gli zingari felici




Aveva scritto, anni fa, una canzone sull'amore al tempo del fascismo. Se n'è andato in un giorno d'agosto, Claudio Lolli, al tempo del fascismo e della stupidità non più dilagante, ma dilagata, strabordata. In un giorno d'agosto dove a Bologna imperversano le Bergonzoni. Se n'è andato e basta, tra gli zingari felici, in piazza Maggiore, a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.




giovedì 9 agosto 2018

Goliardia


Un "momento goliardico, escludendo qualsiasi riconducibilità a motivi razziali o politici". Ora, inviterei ad immaginare due bimbiminkia di 13 anni, e in modo particolare due italici bimbiminkia di 13 anni di questi tempi, che a malapena sanno emettere qualche indistinto grugnito per poi tentare di scriverlo sui loro telefonini di merda, che "motivano" in questo elegante modo il fatto di avere sparato a salve contro un immigrato del Gambia, Buba Seaasay, accompagnando naturalmente il tutto con grida varie ("negro di merda" ecc.) presso Pistoia. Tutto normale, tutto così goliardicamente normale.

Altrettanto goliardicamente, mi premerebbe dire che in casa dei due goliardici bimbiminkia tredicenni pistojesi, sono state rinvenuti, oltre alla scacciacani così goliardica, anche circa 200 proiettili a salve. Come è noto, i due, essendo minori di anni 14, non sono imputabili; ai vecchi tempi, all'imputazione ci avrebbero però sanamente pensato le loro famigliuole, sottoponendo i fanciulli ad una corposa seduta di manrovesci nel muso, calci nel culo, picchi ne' denti e quant'altro, secondo i più moderni dettami educativi; non posso naturalmente parlare della pena più efficace, vale a dire l'immediato sequestro dei telefonini inserendoli sotto le ruote di un autoarticolato di passaggio e obbligando i pargoletti ad assistere alla scena. Ai vecchi tempi i telefonini non c'erano ancora, ohibò.

Il problema è che le famigliuole dei goliardici bimbiminkia non imputabili sono, attualmente, esattamente come loro. Ci sono i bimbiminkia di tredici anni perché sono figli dell'idiocrazia, di trentacinquenni mammeminkia e babbiminkia che, sui telefonini, scrivono le medesime cose. Che si esprimono coi medesimi grugniti. Uno di questi, che tiene peraltro continuamente a dire di essere un papà, ce lo abbiamo addirittura come ministro dell'interno, il che esprime in modo perfetto la consistenza morale e intellettuale del popolo italiano. E la prossima volta c'è anche il caso che i proiettili goliardici non siano affatto a salve.

domenica 29 luglio 2018

Quando si schiude a sera




GIGLIO DI MARE, o GIGLIO DELLE SABBIE
Pancratium maritimum (L.)
Spiaggia di Fetovaia, Isola d'Elba, 29 luglio 2018
Quando si schiude a sera.
A Gaetano Bresci.
Arrivederci.

venerdì 6 luglio 2018

Torna a casa, Alassie!



Non lasciatevi ingannare, e spaventare, dalle apparenze. È il mio nuovo cagnolino, che mi tiene compagnia in questa calda estate (sí, fa caldo nonostante le usualmente catastrofiche previsioni del meteo.it, che a un certo punto aveva paventato persino la famosa non-estate del 1816...). In realtà è buonissimo, coccolone, fa amicizia con tutti, dà la zampa e non mi costa nemmeno tanto, perché gli do da mangiare degli ottimi bambini italiani, ben nutriti e figli di No-Vax; ne va pazzo! E che vorreste, del resto, che gli dessi da pappare laceri bambini Rom o figli di immigrati? 

Si chiama Alassie, e mi ci trovo davvero bene. Nonostante io sia uno storico gattòfilo, mi sono finalmente deciso a prendere un cane; vivendo in un quartiere oramai in preda a i' degràdo e all'insihurezza, si trattava di una decisione necessaria. Nonostante questo, e nonostante i 420 dentacci che si vedono bene nella foto, voglio ripeterlo: è un cane che non presenta particolari problemi. Ha una sola particolarità: deve essere chiamato sempre Alassie, pronunciato Alèssi (come Lassie si pronuncia Lèssi). E' pur vero che Lassie era una femmina (il suo nome, in scozzese, significa "Ragazzina"!), ma mi piaceva di chiamarlo così proprio per una caratteristica che ha: se sente la parola "Alassio" (con la "o", e pronunciata "Alàssio"), attacca. E sono cazzi tuoi, se attacca.

Non so esattamente che cosa gli sia capitato da cucciolo; però non soltanto non sopporta il suono della parola "Alàssio", ma abbaia, ringhia e morde in modo assai selettivo. In pratica, riconosce gli alassioti (non so se si dice così, ma suona benissimo!) dall'odore, e c'è chi dice persino dal puzzo. E non soltanto gli alassioti, ma anche i vacanzieri che sono stati a Alassio, i bagnanti, i gestori e i clienti dell'Hotel Milano, i frequentatori di Facebook che hanno avuto a che fare con Alassio, i muretti di Alassio, 'gnihòsa. Sí, ci dev'essere qualcosa nel passato di questo cane, come quello che a Alassio abbaia e ringhia ai negri e ai marocchini e è diventato una specie di star.

Il mio cagnolone fa all'incontrario; sarà stato per caso espulso da Alassio? Avrà ringhiato e mostrato i denti all'Hotel Milano? Avrà azzannato qualche alassiota dando magari la zampa e facendo le coccole a uno del Ghana? Avrà pisciato sul muretto? Chi lo sa. Intanto ho avuto un'idea: sul collare ci voglio scrivere This dog kills fascists, come la chitarra di Woody Guthrie. Se poi, un giorno, vorrà tornare a casa e fare un giretto all'Hotel Milano, o sulla spiaggia di Alassio, non sarò certo io a impedirglielo! E mi ripiglierò un gatto nero. Miao!

Ammonivano gli antichi: È d'uopo prestare attenzione a' segnali del Fato, ancorché piccoli



Genova, 6 luglio 2018. Autobus bruciato in via Cantore.

mercoledì 27 giugno 2018

Magistra Vitae



Certo, che ogni volta che la Germania va in Russia per vincere...

martedì 26 giugno 2018

Domande di un Blogger Asociale

Nel cerchio: August Landmesser.

Il caporale Adolfo, chi lo ha votato,
Nel '33, quando c'era la crisi?
C'è stato forse un colpo di stato in Doichlandia?
E in Spaghettonia, le piazze acclamanti
per l'Imperivm, erano colme di aristocratici e ricchi?
Y el pueblo de Opusdeya stava proprio tutto quanto,
nel '36, con los republicanos y los anarquistas?
Potere al popolo! Sí, certo, d'accordo,
ma 'sto popolo ve lo siete fabbricato da soli?
La coscienza di classe
sarebbe necessaria, ma se poi va da una parte che non vi garba?
Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì magari stavano urlando
“Le case agli Atlantidèi!”, o “gli schiavi ci rubano il lavoro!”,
e il re di Atlantide twittò fino all'ultimo.
Il ricco Donaldo di Dollaria eresse muri e cacciò tutti i Maya,
da solo?
Nell'antica Sarmatia ci fu una gran rivoluzione
in nome del popolo, che un tempo adorava il suo vittorioso
zar con i baffi, e dal quale era mandato a svernare in Siberia;
che avrà pensato il narod quando si ritrovò con un altro zar baffuto
che vinceva le guerre e mandava a svernare in Siberia?
Nell'Etruria Felix dove regnava i' pòpholo,
a un certo punto i' pòpholo s'accorse
che ugn'andàa più di regnare, ma di èsse' regnaho.
Avrà cessato di essere un popolo?
Al popolo garban gli dèi, i telefonini e il pallone,
al popolo garban l'ammòre, la famìgghia e la schiavitù,
siete poi poi sicuri di esser tanto per il popolo?
Sennò vi tocca sciogliere il popolo
e indirne un altro.
Il popolo non è mai
come si vorrebbe che fosse;
il popolo vuole pane e lavoro,
vuole capipòpolo e cazzi in culo.
Vuole ogni anno un grand'uomo
e, per le quote rosa, anche una gran donna.

E la cosa che vuole di meno
è farsi domande.

giovedì 7 giugno 2018

La guerra



Vivo nel sottobosco di vecchi alberi
Senza sapere che esistono la Macchina e la Ragione.
Riconosco la presenza dell'alce dalle tracce di escrementi
Ammazzo pesci e mi lavo via il sangue nell'acqua.
Vedo come l'àstore devasta i nidi
E come il lago svela il percorso della lontra
E so, quando rivolgo lo sguardo alle stelle
Che non sono solo il muschio di zolle infuocate -
Per questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Per questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.

Ogni sera mi chino verso il fuoco
E mormoro preghiere ideate alla svelta.
Ho paura del buio e del rumore del braccaggio -
Ci sono poche cose che io non presenta.
Io esisto, e basta questo perché il mondo esista,
Traggo auspici gettando la corteccia nel fuoco
E vedo in me la Follia e l'Ordine,
Così come nello specchio del fuoco vedo il Caldo e il Freddo -
Per questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Per questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.

Gli uomini sono cattivi, ma ne conosco alcuni buoni.
Non uccidono l'aquila per averne i pennacchi,
E nelle loro anime non si scorge la Razza Vittoriosa.
Dio ama gli Uomini, non l'Umanità o il Popolo.
La paura governa la mente dei rettili,
Ma nel fulgore del sole d'estate
Sui cammini ricoperti d'erba
Il loro andare calmo non lascia tracce -
Per questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Per questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.

Jacek Kaczmarski (1957-2004)

venerdì 1 giugno 2018

Mynystry



Dai nominativi dei mynystry del nuovo esecutivo, risultano alcune importanti considerazioni a caldo.

1. Centinaio all'agricoltura e Trenta alla difesa. Si comincia subito con gli sprechi. Si potevano accorpare i due ministeri, istituire il ministero della difesa agricola e chiamare Centotrenta. 

2. Bonafede alla giustizia. Non potrà mai dire di non essere in bonafede. E' già qualcosa.

3. Lezzi al Sud. Rigurgito della vecchia Lega, quella della Padania e dei terùn, o di Salvini che in certi video invitava caldamente i napoletani a lavarsi. Ora la cosa è certificata anche con un mynystro.

4. Bongiorno alla pubblica amministrazione. E bonanotte al secchio. Dimenticavo: anche bonafede alla giustizia. Primo provvedimento: bordata di quiz per entrare in p.a. Fiato alle trombe!

5. Costa all'ambiente. Sarà il ministro della Concordia, anche se costa un po' all'ambiente.

6. Savona alle politiche comunitarie. Da questo preciso momento, un'intera città della Liguria diventa ministro. 

Nella foto: una ghigliottina.

lunedì 28 maggio 2018

sabato 26 maggio 2018

Le due bombe


In realtà non l'ho mai saputo, non lo saprò mai e non lo vorrò mai sapere se le due bombe sono scoppiate assieme; quella che mandò in polvere via dei Georgofili, via Lambertesca, mezzi Uffizi, la vita di una famiglia intera e di uno studente, e quella che, a duecentosettanta chilometri di distanza, mandò in polvere la mia vita di allora. Le ho sempre tenute legate, è vero; e può essere che, in fondo, sia una specie di mitologia personale anche se il periodo, giorno più o giorno meno, è pur sempre quello. E così, l'inferno di quella notte e di quel giorno che venne, che vidi coi miei occhi, ha fatto e continua a fare da spartiacque: c'è un prima, e c'è un dopo. Il tempo riconduce gradatamente tutto alla realtà delle cose; ma in quel “prima” ci sono pur sempre la mia adolescenza, la mia giovinezza, i miei sbagli, le mie speranze, i miei rimpianti, le mie colpe e le mie innocenze. Mi tengo e mi assumo tutto quanto. Poi, durante il lungo dopo, mi sono capitate delle cose curiose; come, ad esempio, capitare per puro caso alla Romola senza sapere nulla, e scoprire che in quel paesino, oltre a Jacovitti, riposa anche quella famiglia intera che ho visto, davanti a me, tirare fuori calcinata dalle macerie della Torre del Pulci, piedi morti, lembi di pigiama, ovetti Kinder, brandelli. O come, ad esempio, andare, e sempre per puro caso e senza saperlo, a dormire qualche giorno all'anno in un “bed & breakfast” di Sarzana, a due passi dal cimitero di Sarzanello dove riposa invece lo studente. Perché la seconda bomba, quella che scoppiava per me solo, non mi ha mai fatto neppure per un momento dimenticare quelle povere vite spezzate. Mai. Succedeva venticinque anni fa, un “quarto di secolo” come si dice a volte. Non sono mai andato a nessuna iniziativa o a nessuna commemorazione pubblica. A volte sono ripassato di là, dove tutto è stato ricostruito.

giovedì 24 maggio 2018

Joël



Quel che segue è di notevole lunghezza. Come sempre ho fatto e sempre farò, suggerisco a chi lo desiderasse leggere di farlo con calma e di prendersi il suo tempo.

Ecco, nonostante tutti gli sforzi per evitare di iniziare con “tutto comincia” eccetera, non ce l'ho fatta, maledizione.

1.
Tutto comincia nella tardissima serata del 6 giugno 1987, su una strada secondaria, in piena campagna, che mena al paese di Ceilhes-et-Rocozels, nel dipartimento dell'Hérault, Francia meridionale. Un banalissimo incidente stradale: un'utilitaria, una Austin Metro rossa, va a sbattere contro un ostacolo sulla strada, un grosso masso sporgente dal lato destro di un rettilineo in una zona leggermente collinosa, vallonnée come si dice in Francia. A bordo dell'autovettura ci sono due persone, due amici che sono stati a mangiare in un ristorante della zona, e che si recano a passare la notte in albergo.

L'Austin rossa è condotta da tale Daniel Blouard, che deve vedersela con quella vecchia carretta inglese: ha, ad esempio, problemi ai fari e gli abbaglianti non funzionano. Succede, specie dopo che si è mangiato e ben bevuto in compagnia di un amico; Daniel Blouard è incolume. Peggio è andata al suo amico, Yves Dandonneau, che è rimasto ferito sul sedile anteriore a fianco, quello del passeggero. Ferito, e ha perso addirittura conoscenza; Daniel Blouard si spaventa e corre a cercare soccorso; facile a dirsi, ora come ora, coi telefonini e tutto quanto. Il 6 giugno 1987, nel buio più completo, in un luogo deserto e con i cellulari che ancora sono esclusivamente quegli automezzi coi quali la Polizia porta in galera, è un po' meno facile. Mentre Yves Dandonneau rimane in macchina privo di sensi, Daniel Blouard s'infila in un viottolo nella foresta, sperando che porti da qualche parte; ha fortuna. Ad un certo punto, c'è una sperduta casa di campagna, e Daniel Blouard comincia a picchiare alla porta e alle persiane sperando che dentro ci sia qualcuno; c'è il padrone di casa, Fernand Pégurier. Tutto un programma: la casa in fondo alla foresta abitata da un tizio che, di cognome, fa “pecoraio”.

Daniel Blouard è preoccupatissimo per il suo amico: in particolare, ha una paura folle che l'autovettura incidentata prenda fuoco. Fernand Pégurier si attacca al telefono di casa e chiama i pompieri di Ceilhes; dice loro di andare verso la località che si chiama il “Col de l'Homme Mort”, il Colle dell'Uomo Morto. Da Ceilhes ci vuole una mezz'ora buona; Daniel Blouard è parecchio agitato, e accetta un caffè da Fernand Pégurier prima di tornare sul luogo dell'incidente. Disgraziatamente per il povero Yves Dandonneau, è un nome perfetto per quel posto: come presagito di continuo dal suo amico, l'Austin rossa è in fiamme e dentro c'è l'uomo morto, nella fattispecie carbonizzato. Daniel Blouard, disperatissimo, dice che aveva dovuto lasciari accesi i fari della vettura a causa del buio pesto, e che quei fari erano difettosi. Hanno fatto corto circuito, dando fuoco alla macchina e a chi c'era rimasto intrappolato e svenuto dentro.

Le prime constatazioni dei pompieri e della Gendarmeria confermano l'accaduto: un maledetto incidente, e una sfortuna ancor più maledetta per il passeggero che ci ha rimesso la pelle in modo atroce. La compagna dell'Uomo Morto, che si chiama esattamente come il dipartimento (Marie-Thérèse Héraut, la pronuncia è la la stessa di “Hérault”) e la segretaria, Danièle Simonin, vengono chiamate a riconoscere il cadavere, cosa che fanno senza esitazione. Tutto terminato, insomma. Un incidente stradale come tanti, sebbene con terribili conseguenze. Una delle migliaia di vittime della strada che nutrono le statistiche.

L'Uomo Morto, peraltro, vale a dire Yves Dandonneau, era stato parecchio previdente e, purtroppo per lui, presago. Solo due mesi prima la sua morte, nell'aprile del 1987, aveva pensato di mettere al riparo la sua compagna da eventuali disgrazie che potessero capitare; Yves è un uomo giovane, ma certi presentimenti, è inutile negarlo, possono sorgere a qualsiasi età. Per farla breve, due mesi prima di morire Yves Dandonneau aveva stipulato a favore della sua compagna non una, ma otto assicurazioni sulla vita, per un ammontare totale di undici milioni e novecentomila franchi dell'epoca, vale a dire circa un milione e ottocentomila euro attuali. Non solo: avendo già redatto le sue ultime volontà, Yves Dandonneau aveva disposto che il suo corpo fosse cremato. Metà dell'opera già eseguita dall'incidente stesso e dal corto circuito dei fari dell'Austin, ben presto viene eseguita la seconda parte con la completa incinerazione delle spoglie mortali. La cosa avviene rapidamente, perché non era stata disposta nessuna autopsia.

Yves Dandonneau aveva, come detto, una segretaria. Di lavoro faceva, del tutto casualmente, il bravo assicuratore, nella cittadina di Montmorency; ma aveva ultimamente deciso di cambiare completamente attività. Nato a Béziers (la città della strage dei Catari, quella del famoso detto di Simon de Montfort, “Ammazzateli tutti, Dio riconoscerà i suoi”), è figlio di un gendarme singolarmente violento e tirannico, e di un'insegnante di violino. Il padre-padrone, uomo d'ordine, mantiene la disciplina nella famigliuola pestando a ripetizione moglie e figlio, e spaccando regolarmente sia i violini della consorte che la faccia del figlioletto. Il quale, dopo aver messo incinta da ragazzotto una vicina di casa che è costretto a sposare, pensa bene, come contrappasso, di far domanda per entrare nella Polizia. Dopo un periodo di prova, viene rispedito a casa a calci nel didietro per il suo carattere ribelle e violento; prova inconfutabile della missione educativa della famiglia tradizionale. Dopo un po', scopre la sua vocazione autentica: le assicurazioni. Presto ottiene un successo clamoroso: viene soprannominato il “Lucky Luke delle Assicurazioni”, per la velocità con cui conclude i contratti. E' un bel ragazzo, sa intortare la gente, e nel ramo questa è una dote non di poco conto. Un bel giorno, in televisione, danno un vecchio film di Billy Wilder, del 1944, che in italiano si chiama La fiamma del peccato, con quel viziaccio che abbiamo di tradurre i titoli dei film in modi che non c'entrano un accidente con l'originale; in inglese si chiama propriamente Double Indemnity, e in francese Assurance sur la mort. A Yves Dandonneau frulla qualcosa in testa, assieme al desiderio di cambiare vita. Essendo stato vittima, da bambino, di violenze familiari, gli viene in mente, almeno a suo dire, di aprire una scuola-rifugio per bambini che avevano subito le medesime violenze in quel luogo di delizie e d'amore che si chiama “famiglia”; per tale encomiabile progetto, gli necessitavano circa dieci milioni di franchi. Una benefica istituzione per la quale Yves Dandonneau ha scelto anche il luogo preciso: l'isola greca di Rodi.

Daniel Blouard, il suo disperato amico e causa involontaria dell'incidente, ha invece un mestiere del tutto diverso: è infermiere ospedaliero. E' una persona depressa, e ha costante bisogno di soldi, du fric (o du pognon, come si preferisce). Danièle Simonin, la segretaria di Yves Dandonneau, è sposata; ma, da buona segretaria, è diventata anche l'amante di Yves Dandonneau, cosa sulla quale sia il di lei marito che la di lui compagna sembrano chiudere un occhio, e forse anche tutti e due. Insomma, alla morte del povero Dandonneau, tutto sembra andare come deve andare; cinque delle otto polizze di assicurazione vita sono già state regolate, e si attendono le altre tre. Alla riscossione delle polizze si recano sempre tutti e tre: la compagna, la segretaria-amante e il marito di lei. Un'amicizia au-délà de la mort, con qualche risvolto un po' boccaccesco.

Ci si mette, però, di mezzo la Perfida Albione.

Tra le otto compagnie assicurative con cui il morituro Yves Dandonneau aveva contratto le polizie, ve n'è infatti una britannica, con regolare ufficio a Parigi. Con essa, Dandonneau aveva stabilito un'interessante clausola, limitata al rischio di decesso accidentale e con triplicazione del premio nel caso particolare di morte sopravvenuta per incidente stradale. Informata del sinistro, la compagnia britannica rileva che il contraente ha omesso di dichiarare l'importo cumulativo delle polizze previamente sottoscritte presso altre compagnie; e avete visto qui come sono bravo col linguaggio burocratico-assicurativo, frutto di chilogrammi di traduzioni del genere effettuate in passato, ancorché quasi tutte dall'inglese. Insomma, come dire, agli assicuratori britannici salta la mosca al naso. C'è qualcosa che non quaglia, e viene ingaggiato un investigatore privato per fare un po' di chiarezza su questa strana cosa. Il detective, francese, si chiama Jean Porcer; e mi piace rimarcare che in questa bizzarra storia interviene prima un pecoraio, il Pégurier della casetta nella foresta, e poi un porcaro, il Porcer che indaga per conto della compagnia assicurativa britannica.

Il detective Porcaro si trova subito di fronte a dei fatti inquietanti assai. Intanto, l'Austin Metro è completamente bruciata e non ne resta che lo scheletro metallico, in condizioni che è facile immaginare. All'interno vengono ritrovati anche dei resti di ossa, che la Gendarmeria infila nel primo sacchetto di plastica a disposizione, uno di quelli del supermercato. I resti della vettura vengono depositati in un garage di Ceilhes, dove il sindaco, monsieur le Maire, suggerisce di tenere per la notte anche il sacchetto della spesa contenente poco più di tre grammi di ossa umane sbriciolate. La salma carbonizzata di Yves Dandonneau è stata, come detto, fatta cremare a tempo di record: a questo punto, la mosca al naso salta anche ad un'altra compagnia assicurativa tra le famose otto, francese stavolta. La FPA, Fédération Professionnelle des Assureurs, dispone di una “cellula anti-frode”, detta ALFA, che si mette all'opera con un ispettore incaricato.

L'ispettore dell'ALFA stabilisce in primo luogo, basandosi sulla deposizione di Daniel Blouard, che l'Austin andava piano, in seconda. Blouard tiene a ribadire la sua scalogna nera: sulla strada, infatti, non c'era che quell'ostacolo e lui vi era andato a sbattere mentre procedeva pian pianino e senza abbaglianti. Nonostante questo, l'ispettore rileva che il tratto di strada del “Colle dell'Uomo Morto” è in rettilineo, e che il masso dell'incidente si trova in una posizione del tutto visibile, ed evitabile anche a notte fonda con gli anabbaglianti. Non c'è peraltro alcun segno di frenata: a meno di non buttarcisi contro, qualsiasi guidatore, anche leggermente “bevuto”, lo avrebbe evitato senza problemi. L'ispettore, poi, non riesce assolutamente a capire come mai Daniel Blouard abbia preso quella stradina secondaria per recarsi a Ceilhes, quando esiste un'altra strada, di transito ben più facile e maggiormente frequentata, che vi si reca. Il 12 agosto 1987, dietro relazione puntigliosa e circostanziata dell'ispettore assicurativo, viene presentata una denuncia (qui mi preme far notare la meravigliosa espressione francese, porter plainte, vale a dire “portar lagnanza”) presso la Procura di Montpellier; la possibilità di una gigantesca truffa, un escroc di dimensioni colossali ai danni delle compagnie assicurative, si è fatta decisamente strada; tanto che il giudice istruttore, che poi è istruttrice trattandosi di M.me Claudine Laporte, ordina alla Gendarmeria della regione Linguadoca e Rossiglione di ripigliare immantinente le indagini.

A indagini gendarmesche già riprese, e come si è già accennato, cinque delle otto compagnie assicurative hanno già saldato il sinistro; restano le altre tre, che attendono i risultati dell'inchiesta. I tre grammi di ossa rinvenuti nell'Austin bruciata (per la precisione, 3,7 grammi) vengono inviati per le analisi al CARME (Centro di Applicazione e Ricerca in Microscopia Elettronica), il laboratorio privato della Polizia francese. All'epoca, naturalmente, non si parlava ancora di DNA. Qui, ne scongiuro, non mi si domandi di dire come, perché già sto facendo i salti mortali per tenere un tono très policier; però, coi tre grammi virgola sette di ossa, gli esperti del CARME riescono a ricostituire parte di una mascella umana alla quale mancano due denti del giudizio; e si dà il caso che essa non corrisponda affatto all'impronta dentale (o dentaria? Perdonatemi, sto quasi fondendo) conservata dall'odontoiatra di Yves Dandonneau. Insomma, l'uomo morto carbonizzato nell'Austin presso il Colle dell'Uomo Morto, non è l'uomo morto ufficiale. Yves Dandonneau è vivo e vegeto, da qualche parte, e pronto a godersi i soldoni della sua truffa assieme alla compagna, all'amante e al di lei marito heureux cocu. Qualcosa, naturalmente, toccherà anche a Daniel Blouard, l'amico disperato che guidava l'Austin.

Restano quindi da stabilire un paio di cose assolutamente elementari. La prima è rintracciare tutta la banda, la quale, a questo punto, non è ricercata solo per truffa, ma anche per omicidio volontario perché qualcuno, in quella macchina, è comunque morto. Qui interviene un fatto très français et républicain, che del resto noialtri ben conosciamo con la rivalità tra Carrabbinèra e Polizia: nonostante tutta la ricerca sia stata affidata alla Gendarmeria, è la Polizia che ci mette il becco. Due giorni dopo l'apertura dell'inchiesta a Montpellier, a Parigi, si presentano ad un ufficio postale del 15° Arrondissement tre persone per ritirare qualche spicciolo: due milioni e quattrocentomila franchi in contanti. Le tre persone in questione sono, guarda caso, Marie-Thérèse Hérault, la compagna dell'ex-defunto Yves Dandonneau, Danièle Simonin, la segretaria-amante, e il marito di quest'ultima. Gli impiegati dell'ufficio postale versano ai tre la somma dietro regolare presentazione di assegni validi di due compagnie assicurative; ma [barrare qui con una X] a) dotati di notevole senso civico [ ]; b) non facendosi i cazzi loro [ ], avvertono la Polizia, che interpella i tre e li mette in garde à vue (il fermo di polizia, spiacevole condizione in cui, recentemente, è incorso anche l'ex presidente Nicolas Sarkozy). Quando arriva la notizia, àpriti cielo: la giudice istruttrice di Montpellier, la succitata Claudine Laporte, si incazza parecchio assieme alla Gendarmeria, e ordina l'immediato rilascio dei tre. Nel frattempo, Yves Dandonneau, il morto risuscitato, è fatto oggetto di intercettazioni telefoniche: viene localizzato nel dipartimento delle Alpi Marittime, vicino a Cannes. Il 15 gennaio 1988 viene finalmente scovato in una villetta di Rouret, arrestato e messo in galera. Ha trovato, naturalmente, modo di farsi un po' di chirurgia plastica, e ora si fa passare per tale Bernard Depenne, oppure per altrettanto tale François Meunier; dimodoché, dopo il Pecoraio e il Porcaro, nella storia interviene anche il Mugnaio. Tutto inutile, dato che si possono cambiare un po' i connotati, ma non l'impronta dentale (o dentaria); Yves Dandonneau torna quindi ufficialmente in vita, e la prima cosa che fa da novello Lazzaro è denunciare tutti i suoi complici. I quali, stavolta, vengono messi al gabbio a Parigi, senza remissione, e con accuse da far rizzare i capelli.

Fin qui la storia della truffa. Diciamocelo francamente: le truffe ai danni delle assicurazioni restano abbastanza simpatiche, nonostante si tratti sempre e comunque di vile denaro, di quattrini a palate (di sicuro non si organizza una cosa del genere per cento euro), di cambiar vita, di palmizi, atolli & lagune blé. Le assicurazioni, generalmente, restano sul culo a tutti, e raccontando una truffona ai loro danni, ancorché finita male, si tende a parteggiare un po' per i truffatori. Si può tenere anche un tono un pochino giocoso nella narrazione, alla Marco Malvaldi per intendersi. Riconosco onestamente e volentieri di essermi un po' ispirato al suo modo di narrare, nonostante egli sia -quel horreur!- pisano. Ma lo perdono un po', perché nei suoi ultimi libri del Bar Lume ha dato a Massimo Viviani una fidanzata elbana, e perché lo sceneggiato televisivo è girato a Marciana Marina.

2.
Ora, però, si cambia radicalmente tono. Perché resta da parlare della seconda delle due cose elementari in questa storia. Nell'Austin Metro rossa, la sera del 6 giugno 1987 al Colle dell'Uomo Morto, chi è morto? Di chi sono i tre grammi virgola sette di ossa della mascella? Chi è stato prima carbonizzato e poi cremato al posto del redivivo Yves Dandonneau? Il tono cambia, e -almeno per quel che mi riguarda, scompare ogni simpatia per tutta la banda.

L'amico disperato, Daniel Blouard, colui che guidava la vecchia e scassata Austin Metro, aveva, nell'organizzazione della truffa, un compito fondamentale: quello di reperire un morto. Facendo l'infermiere in un ospedale, la prima idea era stata quella più ovvia, nonostante la cosa non sia propriamente semplice e che si tratti pur sempre di un reato non da noccioline: quella di trafugare un cadavere all'obitorio. Operazione non semplice, che infatti si rivela impossibile: provateci un po' voi. Yves Dandonneau, a questo punto, ha un'altra pensata: si rivolge ad un altro suo amico, tale François Meunier (di cui, poi, assumerà l'identità nel suo periodo mortuario), che fa il cuoco ed al quale ha promesso un impiego nella sua futura scuola per i bambini maltrattati in famiglia, affinché gli procuri un vivo da ammazzare, bruciare e cremare al posto suo. Molto più semplice che trafugare un cadavere autentico. Chi può essere? Naturalmente, un barbone. Un “senza fissa dimora”. Un emarginato. Un senza nessuno e senza niente. Un non-uomo di cui nessuno venga a chiedere conto. Un abbrutito, un minorato mentale, un rifiuto umano, senza vita e senza storia, che comunque sarebbe finito in una fossa comune. E' esattamente quest'ultima espressione che verrà usata da Yves Dandonneau nella sua deposizione: un rifiuto umano.

François Meunier, quello vero, vive in un Hachelem e non ha un soldo. Yves Dandonneau gli promette mari e monti, compresi i due simboli dello status borghese: una villetta tutta sua, un pavillon, e un SUV. Basta che gli trovi il morto. François Meunier ha, del resto, già la vittima predestinata. A Sarcelles frequenta spesso un bistrot, “Le Ravel” (sì, dal nome del musicista del Bolero), dove, tra gli avventori, “simpatizza” con un alcolizzato, tale Joël. Non sa nemmeno come fa di cognome: è Joël e basta. La preda perfetta. Gli offre da bere, ci fa gran chiacchiere e diventa suo grande amicone.

Joël, un cognome invece ce l'ha. Si chiama Joël Hipeau e ha una quarantacinquina, una cinquantina d'anni. A quindici anni ha conseguito il Baccalaureato, la Maturità francese: è il più giovane di tutta la Francia a livello storico. Ha un quoziente di intelligenza superiore. E' laureato in giurisprudenza e ha iniziato il corso di studi per la laurea in medicina. Una vita borghesemente felice, sposa il suo grande e primo amore del liceo, lavora bene e ha una vita piuttosto agiata. Finché non scopre, dopo un po', che la moglie lo tradisce, e lo tradisce perché si è propro innamorata di quell'altro. Divorziano. Joël Hipeau va nei pazzi, e la sua vita va in pezzi. Può accadere, per amore, nonostante le volutamente finte dichiarazioni di Violeta Parra nelle sue Décimas: d'amore si crepa eccome. Si crepa a volte morendo, a volte vivendo e diventando un relitto, una Épave, come si dice spesso nelle canzoni di Georges Brassens (Sète, 20 ottobre 1922 – Saint-Gély-en-Fescq, 30 ottobre 1981). Una delle canzoni di Brassens si chiama proprio così, L'épave; ma lui stesso, nella sua più che autobiografica e bellissima Princesse et le Croque-Notes, si era definito une épave accrochée à sa guitare, un relitto aggrappato alla sua chitarra.

Joël Hipeau perde ogni cosa. Si mette a bere come un polacco, pianta il lavoro, pianta la casa, pianta ogni cosa e diventa un routard. E' un po' difficile rendere esattamente questa parola in italiano: si potrebbe dire un “giramondo”. Gira di qua e di là per la Francia, con il suo bagaglio: la sua umanità, la sua tristezza, la sua cultura profondissima e le canzoni di Georges Brassens, nel cui mondo si riconosce. Vive di espedienti, di lavoretti, di carità, sempre in giro per le strade di Francia; ogni tanto, un giretto se lo fa pure in prigione per furtarelli e quant'altro. Della sua vita precedente, nessuno sa più niente; diventa un invisibile. Con la sua antica laurea in legge, impara a detestare polizie, gendarmi, galere, regolamenti e sacre unioni: bella fine ha fatto la sua, il suo “amore”, la ragazzina dagli occhioni sognanti che magari gli scriveva le frasette sui libri per diventare poi una borghese qualsiasi. Chissà, un avvocato. Ma di avvocati si avrà a riparlare. Nel frattempo, il figlio di un gendarme gli sta preparando il destino, senza che lui lo sappia.

Joël Hipeau è, per il momento, soltanto Joël. Quello che, in un dato periodo, va a bere nel bistrot di Sarcelles, dove conosce l'amicone François Meunier, a sua volta amico dell'assicuratore Yves Dandonneau. Un giorno, François Meunier, alla ricerca del suo cadavere per conto terzi, gli propone una specie di sogno: una gita nientemeno che a Sète, la città natale di Georges Brassens. Non solo: gli promette anche l'acquisto di un volume con tutti i testi delle sue canzoni. Arrivato qui, mi fermo un secondo, mi sposto leggermente all'indietro con la sèggiola e, da uno scaffale, cavo giustappunto un libro: Georges Brassens, Poèmes et chansons, Éditions du Seuil, 1993. Acquistato a Friburgo (Svizzera) il 22 marzo 2005, perché io dato e localizzo scrupolosamente i miei acquisti di libri. La prima edizione del volume è del 1973. Da questo momento, continuo a scrivere con quel volume addosso, sulle ginocchia. Nemmeno a fianco, o vicino: addosso.

La gita a Sète viene organizzata con due automobili: assieme a François Meunier, ci sono due suoi amici appassionati di Brassens, tali Yves Dandonneau e Daniel Blouard. E giù verso il Sud, verso il Sole. Verso Sète e verso la Plage de la Corniche, quella della “Supplique pour être enterré à la plage de Sète”. Ho cominciato a impararle, le canzoni di Brassens, da quando avevo quindici anni: la prima volta che ho messo piede a Parigi, nel giugno del 1979 in gita scolastica (et c'est là que jadis, à quinze ans révolus...), una delle prime cose che ho fatto è acquistare una musicassetta con delle canzoni di Brassens, una antologia con la dicitura “Attention! Chansons pas pour toutes les oreilles”. Ne conosco almeno tre quarti a memoria. A volte, con Brassens mi sono pure arrabbiato. A volte mi ha fatto piangere. A volte mi ha fatto ridere e quasi sempre mi ha fatto pensare. Non sono diventato né un routard, né un clochard, né un cadavere su commissione; ognuno, del resto, ha la sua maniera per essere fuori da ogni cosa, quale che ne sia la causa e quali che ne siano le modalità. Sulla Plage de la Corniche, a Sète, ho il ricordo di una foto. Un giovane di ventinove anni, raggiante, commosso al tempo stesso, preso in un'angolazione che lo faceva apparire bellissimo. Quella foto, chissà dove è finita; me la aveva presa, si pensi un po', un futuro avvocato. La divagazione, lo ammetto, è un po' noiosa; il ricordo personale in una narrazione è deontologicamente e stilisticamente scorretto. Però mi andava di farlo. Torniamo a Joël.

Durante il lungo tragitto da Sarcelles (vicino Parigi) a Sète, i tre compagni di viaggio di Joël hanno portato una scorta di alcool. Birra e superalcolici. L'intenzione è, naturalmente, quella di schiantare Joël a morte, però non hanno fatto i conti con un imprevisto. Oltre che intelligentissimo, coltissimo, alcolizzato, anarcoide, routard e brassensiano, Joël è un costolone di un metro e novanta, e regge l'alcool come una comitiva di portuali livornesi. Poco male, perché l'infermiere Blouard si è portato dietro un rinforzino: una dose di Pentothal da far stramazzare un toro, oltre ad altre pasticchine e polverine. Il tutto viene, ovviamente e generosamente, aggiunto alle bevande date a Joël durante il viaggio. Ma Joël non ci pensa nemmeno, e i tre amiconi truffatori cominciano ragionevolmente a pensare che sarebbe stato meglio portarsi dietro una pistola. Quello lì canta Brassens, e beve i micidiali cocktails che gli vengono ammanniti. A un certo punto, però, cede; va in coma etilico, in coma tossico, in coma comico, in coma di ogni cosa, e i tre lo lasciano a morire in un campetto, sotto un albero (Auprès de mon arbre...). Poi se ne vanno tranquillamente a farsi una bella mangiata di frutti di mare nei dintorni di Montpellier, per tornare dopo a riprendere Joël trasformato, finalmente, nell'agognato cadavere. Per la strada, si fermano a una stazione di servizio e riempiono una tanica di benzina. Daniel Blouard, l'infermiere, certifica che è morto là, sotto l'albero. Fine del rifiuto umano, mentre lontano lontano, in un altrove dove Iddio non c'entra assolutamente niente, si sente una canzone che i tre senz'altro non conoscono: Elle est à toi, cette chanson...

Lo prendono e lo infilano, morto, nell'Austin Metro rossa di Daniel Blouard, lato passeggero, mettendogli la cintura di sicurezza; a questo punto, Joël diventa Yves Dandonneau il morituro. Yves Dandonneau, quello vivo, prende invece posto nell'automobile che segue, assieme a François Meunier. Le due automobili infilano la stradina secondaria che mena a Ceilhes passando per il Colle dell'Uomo Morto; il progetto originario è quello di far precipitare l'Austin in una scarpata, e di darle fuoco, con il cadavere di Joël dentro. Ma, per fare questo, qualcuno dei tre si sarebbe dovuto calare al buio nella scarpata, e nessuno ha voglia di rompersi l'osso del collo. Viene quindi escogitato il finto incidente contro il masso, con la susseguente sceneggiata di Daniel Blouard preoccupatissimo che la vettura prenda fuoco. Nel frattempo, appunto, gli altri due versano tutta la tanica di benzina nell'Austin e le danno fuoco; a bordo dell'altra automobile, Yves Dandonneau e François Meunier se la filano in direzione di Perpignano. Il resto è già stato raccontato. Come cantava Brassens, pure tradotto da De André: C'est pas seulement à Paris que le crime fleurit... (“Non tutti nella capitale sbocciano i fiori del male”...)

A Joël viene dato un cognome, e una vita, grazie a un galeotto. Un suo vecchio compagno di cella, che si ricorda di lui e lo riconosce da una specie di identikit delle sue fattezze ricostruito dai suoi assassini stessi. Si ricorda anche che Joël gli aveva parlato del suo nuovo amore, Géneviève, pure lei una emarginata alcolizzata con la quale aveva deciso, come Brassens con Jutta Heyman, detta “Püppchen”, di non vivere assieme. J'ai l'honneur de ne pas te demander ta main... Géneviève viene rintracciata, ed è lei a fornire il cognome di Joël, e a raccontare la sua vita. Al processo, che si apre anni dopo, il 30 giugno 1992 presso le Assise di Montpellier, viene ammessa come unica parte civile. Il presidente della Corte, però, ha un'idea luminosa: prima dell'apertura del processo, concede un'intervista alla stampa dove definisce Dandonneau come “colpevole” e “assassino”, in barba alla presunzione d'innocenza. Il difensore di Dandonneau, l'avvocato Alain Furbury, monta su un putiferio e ottiene sia la destituzione del presidente, sia il rinvio del dibattimento a data da destinarsi. Alla fine, il processo comincia il 12 ottobre 1992, con un nuovo presidente.

Yves Dandonneau si presenta in aula con un aspetto grottesco. Chi lo ha conosciuto prima, si trova davanti a una specie di maschera di cera. Bel tipo coi capelli scuri e ricci, dopo la chirurgia plastica ha un colorito che va dal terreo al rosaceo malaticcio, con i capelli biondi. Suda di continuo, e sembra che da un momento all'altro tutta quella specie di cerone che ha addosso si sciolga. Subito i giornalisti prendono a chiamarlo La masque de cire.

Géneviève, la compagna di Joël Hipeau, è rappresentata da un principe del foro un po' particolare. Avevo detto che si sarebbe riparlato un po' di avvocati, e devo premettere che, per certe mie vicende personali qui solo vagamente accennate, ho verso l'avvocatura un rapporto che, per cospicue parti della mia vita, è stato leggermente conflittuale. Tanto leggermente, da farmi sobbalzare con hurrà di gioia alla visione della famosa scena di Jurassic Park, quella in cui il tyrannosaurus rex si divora l'avvocato rifugiatosi dentro una latrina. Il principe del foro che patrocina Géneviève, la compagna di Joël Hipeau, è maître Éric Dupond-Moretti, nato a Maubeuge, nel Nord, il 20 aprile 1961. C'è pure una surreale e famosa canzone che parla del chiardiluna di Maubeuge, scritta da un tassista parigino, Pierre Perrin.

Éric Dupond-Moretti è un proletario, anzi un “plebeo”, come ama definirsi. E' figlio di un operaio metalmeccanico e di una domestica di origine pistoiese, Elena Moretti. I nonni sono pure operai; rimane orfano di padre all'età di quattro anni. Il nonno materno, immigrato in Francia da Pontepetri (Pistoia), viene ritrovato morto in modo sospetto nel 1957, ai bordi di una ferrovia; è anche per questo episodio che il giovane Éric sceglie di studiare giurisprudenza. Dopo essersi diplomato a un collegio cattolico di Valenciennes, si iscrive all'università e si mantiene agli studi facendo, nell'ordine: a) il becchino in un cimitero; b) il manovale in un cantiere; c) l'operaio alla catena di montaggio: d) lo scaricatore di sacchi di sabbia; e) il cameriere prima in un night-club, e poi in un ristorante. Nel 1976, quando ha ancora solo 15 anni, segue alla radio il processo di Christian Ranucci, che verrà condannato a morte su basi quantomeno dubbie; è, per il ragazzo, la “molla”. “Sono diventato avvocato per odio alla pena di morte”, dirà in seguito. Diventa avvocato penalista nel 1984; attualmente è il detentore del record assoluto delle assoluzioni nella storia del diritto francese (141 a tutto il 2017), che gli ha valso il soprannome di “Acquittator”. E' un socialista di sinistra; nel 2013 rifiuta la concessione della Legion d'Onore, e nel 2015 si dichiara pubblicamente in favore della messa fuori legge del Front National. Nell'ottobre del 1992, invece, lo vediamo come pubblico accusatore.

A parte il fatto che l'avvocato Dupond-Moretti è un omone di un centinaio di chili e rotti, sono propenso a credere che, per lui, avrei fatto un'eccezione e che non mi avrebbe fatto piacere che fosse stato sgranocchiato dal tyrannosaurus rex. Ma, al termine di questa lunga, lunga storia, non lo dico tanto per la sua storia e per le sue convinzioni, che pure ritengo altamente rispettabili. Lo dico per quanto fece al processo contro Yves Dandonneau e la sua banda di piccoli, miseri truffatori e assassini per denaro. A proposito: la storia della scuola-rifugio per i bambini maltrattati era, naturalmente, del tutto finta. Più che far condannare Yves Dandonneau, l'avvocato Dupond-Moretti volle ridare a Joël Hipeau, il “rifiuto umano”, la sua vita e la sua storia. Poiché quel che disse esattamente è stato raccontato in una trasmissione dedicata ai faits divers, ve lo voglio far leggere in traduzione:

Sono stato incaricato da Géneviève Conce, che è la compagna di Joël Hipeau, e che mi aveva chiesto di potersi costituire parte civile. Ma, per fare qualcosa di inedito, è questione di dire all'imputato che ha ucciso una persona straordinaria. Ho detto che, nonostante il suo stile di vita, era un uomo eccezionale. Era un emarginato, un “routard”, un giramondo, ed era così che lo definiva, non aveva un lavoro stabile, non era un borghese, ma era una persona eccezionale. Eccezionale per la sua generosità, per la sua cultura, per la sua sensibilità, e non bisognava soltanto dire tutto questo, ma anche far sì che Dandonneau non fosse condannato a una pena troppo severa. Joël non amava affatto la polizia, i gendarmi e la giustizia. Era un adepto di Brassens, sul piano estetico certamente, ma anche su quello filosofico. Ed è questo che ho detto davanti a una Corte d'Assise. Per un avvocato, è qualcosa di straordinario. Quando sono entrato alle Assise, il presidente della Corte era disposto molto favorevolmente nei miei confronti, e questo è normale quando si rappresenta l'accusa...ci si aspetta che il rappresentante dell'accusa corrobori l'azione giudiziaria. Questo sarebbe consistito, in quel caso, nel dire un sacco di schifezze su Dandonneau, e nel fare sì che fosse condannato alla pena più pesante possibile. Io non ero là per questo. Ero là per parlare della personalità di quest'uomo [Joël Hipeau], per tentare di riabilitare la sua memoria, e per dire all'imputato che aveva commesso l'irreparabile per uccidere una persona di valore. Quel processo era contro uno che aveva scelto apposta la sua vittima, l'emarginato la cui vita non valeva niente e che era stato condannato a morte, lo sappiamo, per denaro. Nella requisitoria...nella requisitoria bisognava evocare Brassens, perché Brassens è come il cuore di tutto il processo. Anche Géneviève ci teneva particolarmente. A un certo punto ho detto ai giurati: Con quel dare del tu che è tipico di chi ama subito, vi avrebbe detto 'Elle est à toi cette chanson', e ho scelto proprio quel breve passaggio della canzone dove i gendarmi portano via lo straniero, e colui che assiste a questa scena non sorride. Ho esitato un attimo...l'aula era piena stracolma...la canto, non la canto...e alla fine mi sono messo a cantarla...'D'un grand soleil'...e ho terminato la requisitoria. Per me è un ricordo eccezionale, e confesso che non ho più cantato mentre patrocinavo. Non sta peraltro a me dire quale effetto abbia avuto sui giurati, ma è stato un momento emozionante, un omaggio postumo.



Il 16 ottobre 1992, Yves Dandonneau viene condannato a 20 anni di carcere.
François Meunier, a 9 anni.
Daniel Blouard, a 14 anni.
Marie-Thérèse Héraut e Danièle Simonin a 4 anni con la condizionale.

Yves Dandonneau è uscito di carcere nel 2001, dopo avere scontato 13 anni.

I tre grammi virgola sette d'ossa della mascella rimasti di Joël Hipeau riposano in pace da qualche parte che ignoro, senza i denti del giudizio. Le sue ceneri erano state disperse. Qu'il te conduise, à travers l' ciel, au Père Éternel.