giovedì 27 settembre 2018
Nervature di tempo
Proprio come una rondine
ridisegna sul cielo
il sacro della primavera
o l'involo dell'estate,
la mia canzone, semplicemente
vorrebbe dire mietere
una felicità attesa
Ma non può dimenticare
l'odio boia
Cosí come nasce un amore
negli occhi di un bambino
e come nasce un bambino
nel profondo di un amore,
questa canzone, semplicemente
mi nasce per esser state
l'amore e la libertà
le mie nervature di tempo
Ma non può dimenticare
la catena aguzzina
Così come il bosco
passa
dall'ombra alla luce
come il bosco canta
di foreste alle chitarre,
la mia canzone, semplicemente
da una linfa di terra
vorrebbe dire sperare
che una gola si empia
di vento
che spazzi via
i fuochi infernali
che consumano il sangue
E non può dimenticare
ciò che uccide i bambini.
Manu Lannhuel, 1977
sabato 8 settembre 2018
Sospiro di sollievo...!
Si può essere tutti quanti sollevati: nonostante le previsioni catastrofiche, il panzone milanese e tutto il resto, LVI , che quando c'era i treni arrivavano in orario, non è ancora tornato. Con 200 minuti di ritardo sull'EuroNotte 294 per Monaco, del resto, LVI non sarebbe arrivato in tempo alla conferenza del 1938 e magari la Storia avrebbe preso un altro corso. Il fascismo, quindi, non c'è: si è fermato, sembra, tra Settebagni e Capena, alle porte di Roma, per un guasto sulla linea. La Nuova Resistenza comincia da Settebagni! E pure l'otto settembre!
lunedì 3 settembre 2018
La vita è breve e i libri son tanti
Si
va stavolta un po' indietro nel tempo,
nella
Firenze seicentesca che sarebbe stata ancora Medicea per un
secolo;
una Firenze che i libri di storia dicono oramai in decadenza,
oramai
priva da un secolo e mezzo della sua enorme potenza politica e
culturale,
avviata a un declino che sembra inarrestabile. E giа allora
i
fiorentini rimpiangono il passato, si lamentano della sporcizia e
della
mancanza di spazio, e si dividono in inutili fazioni tollerate
da
una blanda tirannia e da una dinastia di autocrati che sta
morendo nell'impotenza
e nella malattia. Non
vi sono più molti spiriti originali, ma è l'epoca della grande
erudizione; e di molti eruditi di quel tempo è piena ancora Firenze,
in nomi incisi su targhe stradali. Nomi che non dicono più niente
alla maggior parte di noi; alzi ad esempio la mano chi, passando da
Corso de' Tintori a Piazza di Santa Croce per un breve tratto di
strada, si è mai chiesto chi mai fosse quell'Antonio Magliabechi cui
la via è da sempre dedicata. Eppure, dietro ogni nome c'è una vita
ed una storia; ed è la vita e la storia proprio di quel nome di cui
si parlerа qui. La storia di un uomo che amava i libri più d'ogni
altra cosa al mondo.
Antonio
Magliabechi era nato a Firenze, in via de' Pepi, il 28 o 29 ottobre 1633.
Era figlio d'un piccolo orefice, Marco Magliabechi, e d'una donna dal
nome assai singolare: si chiamava infatti Ginevra Baldorietta. Il
padre lo avviò, com'era d'uso, al mestiere di bottega fin dalla più
tenera etа; e Antonio divenne un orefice di valore. Ma la sua vera
passione, quella che davvero la divorava, era un altra: sapere,
conoscere, leggere, apprendere. Il giorno lavorava, e la notte
leggeva e studiava i libri che si comprava coi pochi soldi che il
padre gli dava; perché il figlio a bottega dal padre riceveva, e non
sempre, poco o niente. La vera paga era imparare il mestiere alla
perfezione in modo, poi, da trasmetterlo a sua volta al figlio.
Questo è stato l'artigianato fiorentino fino a non molto tempo fa.
Antonio
Magliabechi tenne coscienziosamente la bottega fino all'età di
quarant'anni; ma già da quanto ne aveva solo sedici in città si
parlava di lui come di un vero e proprio genio. Dotato di una memoria
assolutamente stupefacente, paragonabile veramente a quella del
famoso Pico della Mirandola, quando poteva si aggirava per i librai
della città e comprava tutto quello che poteva; senza contare che
qualche libraio, commosso e incuriosito dalla passione del giovane, i
libri glieli "prestava" ben sapendo che non sarebbero mai
stati restituiti. Fu cosí che Michele Ermini, bibliotecario del
cardinale de' Medici, si accorse delle sue capacità e gli insegnò
gratuitamente il Latino, il Greco e l'Ebraico, lingue che Antonio
apprese alla perfezione e con una rapidità sconcertante. La sua
fama cresceva e cresceva, ma continuava a tenere la bottega paterna
ed a fabbricar gioielli e vezzi, perché nella vita non si sa mai.
Giunto
all'età di quarant'anni, dotato di una cultura assolutamente immensa
in ogni campo dello scibile umano, il modesto orefice continuava la
sua vita spartana fra i suoi libri, che oramai erano divenuti in
numero assai considerevole. Per i libri rinunciava a tutto: si faceva
bastare un tozzo di pane, vestiva in modo che definire trasandato
sarebbe stato un eufemismo e non gli si era mai vista accanto una
donna nemmeno col cannocchiale. Quale donna, del resto, avrebbe
voluto vivere accanto ad una persona del genere? L'unico vizio che si
concedeva era il fumo del tabacco; non mangiava quasi, ma fumava come
un turco aggiungendone il puzzo all'odore non propriamente gradevole
che già emanava.
Fu
a quel punto che il sogno della sua vita ebbe finalmente ad
avverarsi: morto in tarda etа Michele Ermini, il suo vecchio
maestro, il granduca Cosimo III trovò del tutto naturale nominare
suo bibliotecario personale quello strano e stupefacente personaggio,
che i fiorentini di allora chiamavano affettuosamente "Zio
Tarlo" (o semplicemente " I' Tarlo"). Correva l'anno
1673; Antonio Magliabechi vendette la bottega, prese i suoi libri e
s'installò a palazzo, rifiutando però il sontuoso appartamento che
il granduca gli aveva messo a disposizione. Non ne aveva bisogno; si
fece dare una stanzetta spoglia, che gli era più che sufficiente. In
realtà campava nella biblioteca.
Ben
presto, il ripugnante bibliotecario divenne la figura centrale nella
vita culturale fiorentina. La sua memoria prodigiosa gli permetteva
di sapere non solo tutto su ogni cosa, ma addirittura di conoscere
alla perfezione ogni libro che si trovava nella biblioteca ed in
altre biblioteche che non aveva mai visto, che gli comunicavano per
lettera gli inventari e il contenuto delle opere che possedevano. Non
contentandosi di questo, se qualcuno solo gli nominava un breve brano
di un'opera contenuta nella sua biblioteca, senz'altra
specificazione, era capace all'istante di dirne l'autore, il titolo,
il paragrafo e la pagina esatta in cui il brano si trovava. La
Biblioteca Medicea conteneva allora più di sessantamila volumi,
ventisettemila dei quali costituivano la biblioteca privata che
Antonio Magliabechi s'era formato negli anni e che s'era portato
dietro aggiungendola a quella storica.
Antonio
Magliabechi divenne celebre in tutta Europa. Studiosi ed eruditi di
ogni nazione corrispondevano con lui e ne ricercavano il parere;
malgrado i suoi costumi assolutamente spartani, anzi diogeneschi (con
la biblioteca al posto della botte), non era un "orso" ed
aveva anzi un carattere spiritoso, amichevole. A chiunque gli
ponesse anche la domanda più difficile e astrusa, era pronto a
rispondere, direttamente o per lettera, in modo esauriente e
gentilissimo, senza fare assolutamente pesare le proprie conoscenze
inarrivabili. La sua modestia, tra l'altro, gli impedí sempre di
firmare con il proprio nome una gran quantità d'opere "altrui"
delle quali era invece, quando non l'autore completo, perlomeno il
collaboratore principale.
Gli
stranieri che arrivavano a Firenze ed avevano a che fare con lui ne
tracciano un ritratto ammirato e inconfondibile. Nel lodare
ovviamente la sua cultura miracolosa, ne parlano come un vecchio ed
eccentrico scapolo dall'aspetto sempre più ripugnante con il passar
degli anni. Sporco, sempre a fumare o a masticare tabacco,
perennemente a leggere nella biblioteca dove sbocconcellava anche i
suoi magerrimi pasti infilando fette di salame tra le pagine, a mo'
di segnalibro, riprendendole magari il giorno dopo e mangiandosele
come se niente fosse. Per più di vent'anni gli si vide addosso
sempre lo stesso vestito, finché, non restandogliene che dei
brandelli, il granduca non lo costrinse ad acquistarsene uno nuovo. E
a chi gli chiedeva come mai insistesse a far quella vita, dato che la
sua carica era ben pagata ed era diventato ricco, rispondeva sempre
con la stessa frase: "La vita è breve, e i libri son tanti".
I
soldi che guadagnava, li adoperava ancora allo stesso modo: comprando
libri, libri, libri e libri. Che imparava a memoria in un
battibaleno, perché la memoria gli era rimasta quella dei vent'anni,
ed ammassandoli in ogni dove. La Biblioteca Medicea divenne troppo
stretta, ed era l'unica al mondo dove il catalogo fosse inutile.
C'era già un catalogo vivente che si chiamava Antonio
Magliabechi. E fu cosí che la sua vita continuò fino alla fine,
quella vita troppo breve per tutti i libri del mondo ma singolarmente
lunga per l'epoca e, soprattutto, per la condotta di vita che aveva
sempre menato. Il vecchio Magliabechi, però, ad un certo punto,
s'ammalò gravemente; necessitando di assistenza, fu portato al
convento di Santa Maria Novella dove si lasciò morire perché era
stato strappato ai suoi libri, cioè all'amore unico ed assoluto
della sua vita. Morí il 4 luglio 1714, all'età di ottantun anno.
Lasciò tutti i suoi libri al granduca di Toscana, alla sola
condizione che egli costituisse una biblioteca veramente pubblica,
aperta a tutti, libera. Il suo patrimonio, praticamente mai
intaccato, volle che andasse invece ai poveri della città.
Il
granduca esaudí scrupolosamente le ultime volontà di Antonio
Magliabechi; e la Magliabechiana divenne la prima biblioteca
autenticamente pubblica di tutta Europa. Nel 1861, appena costituito
il Regno d'Italia, Vittorio Emanuele I emise un decreto "ad hoc"
con il quale, dopo secoli, la Magliabechiana tornava ad unirsi con
l'ex biblioteca granducale, la Palatina. E' questo il nucleo
originale di quella che adesso è la Biblioteca Nazionale Centrale.
Via Antonio Magliabechi sorge su un suo lato. E m'immagino se il
vecchio Antonio potesse tornare anche un sol giorno sulla terra, e
vederla -pur nelle sue tante magagne e con un'alluvione sul groppone-
coi suoi nove o dieci milioni di volumi. Chissа cosa chiederebbe al
Padreterno, forse una quindicina d'altre vite brevi perché i libri
son diventati davvero tanti.
Originariamente pubblicato sul newsgroup Usenet "italia.firenze.discussioni" il 9 giugno 2003.
lunedì 20 agosto 2018
Jettatori !
Insomma, in pochi giorni prima salta in aria la tangenziale di Bologna, poi l'incidente di Foggia, poi crolla il ponte a Genova, c'è il terremoto in Molise e, infine, il torrente calabrese travolge gli escursionisti!!!
Secondo me è tutto chiaro: questi due qua sotto PORTANO UNO SCULO DELLA MADONNA !!!
D'accordo che sembrano due beccamorti già di loro; ma sarebbe bene che vi poneste qualche domanda, invece di applaudirli ai funerali!
Lancia anche tu l'ascetàgghe #salviniedimaioportanoiella! Fai anche tu ogni tanto una cosa utile coi tuoi social del cazzo !!!
venerdì 17 agosto 2018
Claudio Lolli è andato tra gli zingari felici
Aveva scritto, anni fa, una canzone sull'amore al tempo del fascismo. Se n'è andato in un giorno d'agosto, Claudio Lolli, al tempo del fascismo e della stupidità non più dilagante, ma dilagata, strabordata. In un giorno d'agosto dove a Bologna imperversano le Bergonzoni. Se n'è andato e basta, tra gli zingari felici, in piazza Maggiore, a ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.
giovedì 9 agosto 2018
Goliardia
Un "momento goliardico, escludendo qualsiasi riconducibilità a motivi razziali o politici". Ora, inviterei ad immaginare due bimbiminkia di 13 anni, e in modo particolare due italici bimbiminkia di 13 anni di questi tempi, che a malapena sanno emettere qualche indistinto grugnito per poi tentare di scriverlo sui loro telefonini di merda, che "motivano" in questo elegante modo il fatto di avere sparato a salve contro un immigrato del Gambia, Buba Seaasay, accompagnando naturalmente il tutto con grida varie ("negro di merda" ecc.) presso Pistoia. Tutto normale, tutto così goliardicamente normale.
Altrettanto goliardicamente, mi premerebbe dire che in casa dei due goliardici bimbiminkia tredicenni pistojesi, sono state rinvenuti, oltre alla scacciacani così goliardica, anche circa 200 proiettili a salve. Come è noto, i due, essendo minori di anni 14, non sono imputabili; ai vecchi tempi, all'imputazione ci avrebbero però sanamente pensato le loro famigliuole, sottoponendo i fanciulli ad una corposa seduta di manrovesci nel muso, calci nel culo, picchi ne' denti e quant'altro, secondo i più moderni dettami educativi; non posso naturalmente parlare della pena più efficace, vale a dire l'immediato sequestro dei telefonini inserendoli sotto le ruote di un autoarticolato di passaggio e obbligando i pargoletti ad assistere alla scena. Ai vecchi tempi i telefonini non c'erano ancora, ohibò.
Il problema è che le famigliuole dei goliardici bimbiminkia non imputabili sono, attualmente, esattamente come loro. Ci sono i bimbiminkia di tredici anni perché sono figli dell'idiocrazia, di trentacinquenni mammeminkia e babbiminkia che, sui telefonini, scrivono le medesime cose. Che si esprimono coi medesimi grugniti. Uno di questi, che tiene peraltro continuamente a dire di essere un papà, ce lo abbiamo addirittura come ministro dell'interno, il che esprime in modo perfetto la consistenza morale e intellettuale del popolo italiano. E la prossima volta c'è anche il caso che i proiettili goliardici non siano affatto a salve.
domenica 29 luglio 2018
Quando si schiude a sera
GIGLIO DI MARE, o GIGLIO DELLE SABBIE
Pancratium maritimum (L.)
Spiaggia di Fetovaia, Isola d'Elba, 29 luglio 2018
Quando si schiude a sera.
A Gaetano Bresci.
Arrivederci.
venerdì 6 luglio 2018
Torna a casa, Alassie!
Non lasciatevi ingannare, e spaventare, dalle apparenze. È il mio nuovo cagnolino, che mi tiene compagnia in questa calda estate (sí, fa caldo nonostante le usualmente catastrofiche previsioni del meteo.it, che a un certo punto aveva paventato persino la famosa non-estate del 1816...). In realtà è buonissimo, coccolone, fa amicizia con tutti, dà la zampa e non mi costa nemmeno tanto, perché gli do da mangiare degli ottimi bambini italiani, ben nutriti e figli di No-Vax; ne va pazzo! E che vorreste, del resto, che gli dessi da pappare laceri bambini Rom o figli di immigrati?
Si chiama Alassie, e mi ci trovo davvero bene. Nonostante io sia uno storico gattòfilo, mi sono finalmente deciso a prendere un cane; vivendo in un quartiere oramai in preda a i' degràdo e all'insihurezza, si trattava di una decisione necessaria. Nonostante questo, e nonostante i 420 dentacci che si vedono bene nella foto, voglio ripeterlo: è un cane che non presenta particolari problemi. Ha una sola particolarità: deve essere chiamato sempre Alassie, pronunciato Alèssi (come Lassie si pronuncia Lèssi). E' pur vero che Lassie era una femmina (il suo nome, in scozzese, significa "Ragazzina"!), ma mi piaceva di chiamarlo così proprio per una caratteristica che ha: se sente la parola "Alassio" (con la "o", e pronunciata "Alàssio"), attacca. E sono cazzi tuoi, se attacca.
Non so esattamente che cosa gli sia capitato da cucciolo; però non soltanto non sopporta il suono della parola "Alàssio", ma abbaia, ringhia e morde in modo assai selettivo. In pratica, riconosce gli alassioti (non so se si dice così, ma suona benissimo!) dall'odore, e c'è chi dice persino dal puzzo. E non soltanto gli alassioti, ma anche i vacanzieri che sono stati a Alassio, i bagnanti, i gestori e i clienti dell'Hotel Milano, i frequentatori di Facebook che hanno avuto a che fare con Alassio, i muretti di Alassio, 'gnihòsa. Sí, ci dev'essere qualcosa nel passato di questo cane, come quello che a Alassio abbaia e ringhia ai negri e ai marocchini e è diventato una specie di star.
Il mio cagnolone fa all'incontrario; sarà stato per caso espulso da Alassio? Avrà ringhiato e mostrato i denti all'Hotel Milano? Avrà azzannato qualche alassiota dando magari la zampa e facendo le coccole a uno del Ghana? Avrà pisciato sul muretto? Chi lo sa. Intanto ho avuto un'idea: sul collare ci voglio scrivere This dog kills fascists, come la chitarra di Woody Guthrie. Se poi, un giorno, vorrà tornare a casa e fare un giretto all'Hotel Milano, o sulla spiaggia di Alassio, non sarò certo io a impedirglielo! E mi ripiglierò un gatto nero. Miao!
mercoledì 27 giugno 2018
martedì 26 giugno 2018
Domande di un Blogger Asociale
Nel cerchio: August Landmesser. |
Il caporale Adolfo, chi lo ha votato,
Nel '33, quando c'era la crisi?
C'è stato forse un colpo di stato in
Doichlandia?
E in Spaghettonia, le piazze acclamanti
per l'Imperivm, erano colme di
aristocratici e ricchi?
Y el pueblo de Opusdeya stava proprio
tutto quanto,
nel '36, con los republicanos y los
anarquistas?
Potere al popolo! Sí, certo,
d'accordo,
ma 'sto popolo ve lo siete fabbricato
da soli?
La coscienza di classe
sarebbe necessaria, ma se poi va da una
parte che non vi garba?
Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì
magari stavano urlando
“Le case agli Atlantidèi!”, o “gli
schiavi ci rubano il lavoro!”,
e il re di Atlantide twittò fino
all'ultimo.
Il ricco Donaldo di Dollaria eresse
muri e cacciò tutti i Maya,
da solo?
Nell'antica Sarmatia ci fu una gran
rivoluzione
in nome del popolo, che un tempo
adorava il suo vittorioso
zar con i baffi, e dal quale era
mandato a svernare in Siberia;
che avrà pensato il narod
quando si ritrovò con un altro zar baffuto
che vinceva le guerre e mandava a
svernare in Siberia?
Nell'Etruria Felix dove regnava i'
pòpholo,
a un certo punto i' pòpholo s'accorse
che ugn'andàa più di regnare, ma di
èsse' regnaho.
Avrà cessato di essere un popolo?
Al popolo garban gli dèi, i telefonini
e il pallone,
al popolo garban l'ammòre, la
famìgghia e la schiavitù,
siete poi poi sicuri di esser tanto per
il popolo?
Sennò vi tocca sciogliere il popolo
e indirne un altro.
Il popolo non è mai
come si vorrebbe che fosse;
il popolo vuole pane e lavoro,
vuole capipòpolo e cazzi in culo.
Vuole ogni anno un grand'uomo
e, per le quote rosa, anche una gran
donna.
E la cosa che vuole di meno
è farsi domande.
giovedì 7 giugno 2018
La guerra
Vivo
nel sottobosco di vecchi alberi
Senza
sapere che esistono la Macchina e la Ragione.
Riconosco
la presenza dell'alce dalle tracce di escrementi
Ammazzo
pesci e mi lavo via il sangue nell'acqua.
Vedo
come l'àstore devasta i nidi
E
come il lago svela il percorso della lontra
E
so, quando rivolgo lo sguardo alle stelle
Che
non sono solo il muschio di zolle infuocate -
Per
questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Per
questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Ogni
sera mi chino verso il fuoco
E
mormoro preghiere ideate alla svelta.
Ho
paura del buio e del rumore del braccaggio -
Ci
sono poche cose che io non presenta.
Io
esisto, e basta questo perché il mondo esista,
Traggo
auspici gettando la corteccia nel fuoco
E
vedo in me la Follia e l'Ordine,
Così
come nello specchio del fuoco vedo il Caldo e il Freddo -
Per
questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Per
questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Gli
uomini sono cattivi, ma ne conosco alcuni buoni.
Non
uccidono l'aquila per averne i pennacchi,
E
nelle loro anime non si scorge la Razza Vittoriosa.
Dio
ama gli Uomini, non l'Umanità o il Popolo.
La
paura governa la mente dei rettili,
Ma
nel fulgore del sole d'estate
Sui
cammini ricoperti d'erba
Il
loro andare calmo non lascia tracce -
Per
questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Per
questo credo al prodigio e alla verità delle profezie.
Jacek Kaczmarski (1957-2004)
venerdì 1 giugno 2018
Mynystry
Dai nominativi dei mynystry del nuovo esecutivo, risultano alcune importanti considerazioni a caldo.
1. Centinaio all'agricoltura e Trenta alla difesa. Si comincia subito con gli sprechi. Si potevano accorpare i due ministeri, istituire il ministero della difesa agricola e chiamare Centotrenta.
2. Bonafede alla giustizia. Non potrà mai dire di non essere in bonafede. E' già qualcosa.
3. Lezzi al Sud. Rigurgito della vecchia Lega, quella della Padania e dei terùn, o di Salvini che in certi video invitava caldamente i napoletani a lavarsi. Ora la cosa è certificata anche con un mynystro.
4. Bongiorno alla pubblica amministrazione. E bonanotte al secchio. Dimenticavo: anche bonafede alla giustizia. Primo provvedimento: bordata di quiz per entrare in p.a. Fiato alle trombe!
5. Costa all'ambiente. Sarà il ministro della Concordia, anche se costa un po' all'ambiente.
6. Savona alle politiche comunitarie. Da questo preciso momento, un'intera città della Liguria diventa ministro.
Nella foto: una ghigliottina.
lunedì 28 maggio 2018
sabato 26 maggio 2018
Le due bombe
In realtà non l'ho mai saputo, non lo saprò mai e non lo vorrò mai
sapere se le due bombe sono scoppiate assieme; quella che mandò in
polvere via dei Georgofili, via Lambertesca, mezzi Uffizi, la vita di
una famiglia intera e di uno studente, e quella che, a
duecentosettanta chilometri di distanza, mandò in polvere la mia
vita di allora. Le ho sempre tenute legate, è vero; e può essere
che, in fondo, sia una specie di mitologia personale anche se il
periodo, giorno più o giorno meno, è pur sempre quello. E così,
l'inferno di quella notte e di quel giorno che venne, che vidi coi
miei occhi, ha fatto e continua a fare da spartiacque: c'è un prima,
e c'è un dopo. Il tempo riconduce gradatamente tutto alla realtà
delle cose; ma in quel “prima” ci sono pur sempre la mia
adolescenza, la mia giovinezza, i miei sbagli, le mie speranze, i
miei rimpianti, le mie colpe e le mie innocenze. Mi tengo e mi assumo
tutto quanto. Poi, durante il lungo dopo, mi sono capitate delle cose
curiose; come, ad esempio, capitare per puro caso alla Romola senza
sapere nulla, e scoprire che in quel paesino, oltre a Jacovitti,
riposa anche quella famiglia intera che ho visto, davanti a me,
tirare fuori calcinata dalle macerie della Torre del Pulci, piedi
morti, lembi di pigiama, ovetti Kinder, brandelli. O come, ad
esempio, andare, e sempre per puro caso e senza saperlo, a dormire
qualche giorno all'anno in un “bed & breakfast” di Sarzana, a
due passi dal cimitero di Sarzanello dove riposa invece lo studente.
Perché la seconda bomba, quella che scoppiava per me solo, non mi ha
mai fatto neppure per un momento dimenticare quelle povere vite
spezzate. Mai. Succedeva venticinque anni fa, un “quarto di secolo”
come si dice a volte. Non sono mai andato a nessuna iniziativa o a
nessuna commemorazione pubblica. A volte sono ripassato di là, dove
tutto è stato ricostruito.
giovedì 24 maggio 2018
Joël
Quel che segue è di notevole lunghezza. Come sempre ho fatto e sempre farò, suggerisco a chi lo desiderasse leggere di farlo con calma e di prendersi il suo tempo.
Ecco, nonostante tutti
gli sforzi per evitare di iniziare con “tutto comincia” eccetera,
non ce l'ho fatta, maledizione.
1.
Tutto comincia nella
tardissima serata del 6 giugno 1987, su una strada secondaria, in
piena campagna, che mena al paese di Ceilhes-et-Rocozels, nel
dipartimento dell'Hérault, Francia meridionale. Un banalissimo
incidente stradale: un'utilitaria, una Austin Metro rossa, va a
sbattere contro un ostacolo sulla strada, un grosso masso sporgente
dal lato destro di un rettilineo in una zona leggermente collinosa,
vallonnée come si dice in
Francia. A bordo dell'autovettura ci sono due persone, due
amici che sono stati a mangiare in un ristorante della zona, e che si
recano a passare la notte in albergo.
L'Austin rossa è
condotta da tale Daniel Blouard, che deve vedersela con quella
vecchia carretta inglese: ha, ad esempio, problemi ai fari e gli
abbaglianti non funzionano. Succede, specie dopo che si è mangiato e
ben bevuto in compagnia di un amico; Daniel Blouard è incolume.
Peggio è andata al suo amico, Yves Dandonneau, che è rimasto ferito
sul sedile anteriore a fianco, quello del passeggero. Ferito, e ha
perso addirittura conoscenza; Daniel Blouard si spaventa e corre a
cercare soccorso; facile a dirsi, ora come ora, coi telefonini e
tutto quanto. Il 6 giugno 1987, nel buio più completo, in un luogo
deserto e con i cellulari che ancora sono esclusivamente quegli
automezzi coi quali la Polizia porta in galera, è un po' meno
facile. Mentre Yves Dandonneau rimane in macchina privo di sensi,
Daniel Blouard s'infila in un viottolo nella foresta, sperando che
porti da qualche parte; ha fortuna. Ad un certo punto, c'è una
sperduta casa di campagna, e Daniel Blouard comincia a picchiare alla
porta e alle persiane sperando che dentro ci sia qualcuno; c'è il
padrone di casa, Fernand Pégurier. Tutto un programma: la casa in
fondo alla foresta abitata da un tizio che, di cognome, fa
“pecoraio”.
Daniel Blouard è
preoccupatissimo per il suo amico: in particolare, ha una paura folle
che l'autovettura incidentata prenda fuoco. Fernand Pégurier si
attacca al telefono di casa e chiama i pompieri di Ceilhes; dice loro
di andare verso la località che si chiama il “Col de l'Homme
Mort”, il Colle dell'Uomo Morto. Da Ceilhes ci vuole una mezz'ora
buona; Daniel Blouard è parecchio agitato, e accetta un caffè da
Fernand Pégurier prima di tornare sul luogo dell'incidente.
Disgraziatamente per il povero Yves Dandonneau, è un nome perfetto
per quel posto: come presagito di continuo dal suo amico, l'Austin
rossa è in fiamme e dentro c'è l'uomo morto, nella fattispecie
carbonizzato. Daniel Blouard, disperatissimo, dice che aveva dovuto
lasciari accesi i fari della vettura a causa del buio pesto, e che
quei fari erano difettosi. Hanno fatto corto circuito, dando fuoco
alla macchina e a chi c'era rimasto intrappolato e svenuto dentro.
Le prime constatazioni
dei pompieri e della Gendarmeria confermano l'accaduto: un maledetto
incidente, e una sfortuna ancor più maledetta per il passeggero che
ci ha rimesso la pelle in modo atroce. La compagna dell'Uomo Morto,
che si chiama esattamente come il dipartimento (Marie-Thérèse
Héraut, la pronuncia è la la stessa di “Hérault”) e la
segretaria, Danièle Simonin, vengono chiamate a riconoscere il
cadavere, cosa che fanno senza esitazione. Tutto terminato, insomma.
Un incidente stradale come tanti, sebbene con terribili conseguenze.
Una delle migliaia di vittime della strada che nutrono le
statistiche.
L'Uomo Morto, peraltro,
vale a dire Yves Dandonneau, era stato parecchio previdente e,
purtroppo per lui, presago. Solo due mesi prima la sua morte,
nell'aprile del 1987, aveva pensato di mettere al riparo la sua
compagna da eventuali disgrazie che potessero capitare; Yves è un
uomo giovane, ma certi presentimenti, è inutile negarlo, possono
sorgere a qualsiasi età. Per farla breve, due mesi prima di morire
Yves Dandonneau aveva stipulato a favore della sua compagna non una,
ma otto assicurazioni sulla
vita, per un ammontare totale di undici milioni e novecentomila
franchi dell'epoca, vale a dire circa un milione e ottocentomila euro
attuali. Non solo: avendo già redatto le sue ultime volontà, Yves
Dandonneau aveva disposto che il suo corpo fosse cremato. Metà
dell'opera già eseguita dall'incidente stesso e dal corto circuito
dei fari dell'Austin, ben presto viene eseguita la seconda parte con
la completa incinerazione delle spoglie mortali. La cosa avviene
rapidamente, perché non era stata disposta nessuna autopsia.
Yves
Dandonneau aveva, come detto, una segretaria. Di lavoro faceva, del
tutto casualmente, il bravo assicuratore, nella cittadina di
Montmorency; ma aveva ultimamente deciso di cambiare completamente
attività. Nato a Béziers (la città della strage dei Catari, quella
del famoso detto di Simon de Montfort, “Ammazzateli tutti, Dio
riconoscerà i suoi”), è figlio di un gendarme singolarmente
violento e tirannico, e di un'insegnante di violino. Il
padre-padrone, uomo d'ordine, mantiene la disciplina nella
famigliuola pestando a ripetizione moglie e figlio, e spaccando
regolarmente sia i violini della consorte che la faccia del
figlioletto. Il quale, dopo aver messo incinta da ragazzotto una
vicina di casa che è costretto a sposare, pensa bene, come
contrappasso, di far domanda per entrare nella Polizia. Dopo un
periodo di prova, viene rispedito a casa a calci nel didietro per il
suo carattere ribelle e violento; prova inconfutabile della missione
educativa della famiglia tradizionale. Dopo un po', scopre la sua
vocazione autentica: le assicurazioni. Presto ottiene un successo
clamoroso: viene soprannominato il “Lucky Luke delle
Assicurazioni”, per la velocità con cui conclude i contratti. E'
un bel ragazzo, sa intortare la gente, e nel ramo questa è una dote
non di poco conto. Un bel giorno, in televisione, danno un vecchio
film di Billy Wilder, del 1944, che in italiano si chiama La
fiamma del peccato, con quel
viziaccio che abbiamo di tradurre i titoli dei film in modi che non
c'entrano un accidente con l'originale; in inglese si chiama
propriamente Double Indemnity,
e in francese Assurance sur la mort.
A Yves Dandonneau frulla qualcosa in testa, assieme al desiderio di
cambiare vita. Essendo stato vittima, da bambino, di violenze
familiari, gli viene in mente, almeno a suo dire, di aprire una
scuola-rifugio per bambini che avevano subito le medesime violenze in
quel luogo di delizie e d'amore che si chiama “famiglia”; per
tale encomiabile progetto, gli necessitavano circa dieci milioni di
franchi. Una benefica istituzione per la quale Yves Dandonneau ha
scelto anche il luogo preciso: l'isola greca di Rodi.
Daniel
Blouard, il suo disperato amico e causa involontaria dell'incidente,
ha invece un mestiere del tutto diverso: è infermiere ospedaliero.
E' una persona depressa, e ha costante bisogno di soldi, du
fric (o du pognon,
come si preferisce). Danièle Simonin, la segretaria di Yves
Dandonneau, è sposata; ma, da buona segretaria, è diventata anche
l'amante di Yves Dandonneau, cosa sulla quale sia il di lei marito
che la di lui compagna sembrano chiudere un occhio, e forse anche
tutti e due. Insomma, alla morte del povero Dandonneau, tutto sembra
andare come deve andare; cinque delle otto polizze di assicurazione
vita sono già state regolate, e si attendono le altre tre. Alla
riscossione delle polizze si recano sempre tutti e tre: la compagna,
la segretaria-amante e il marito di lei. Un'amicizia au-délà
de la mort, con qualche risvolto
un po' boccaccesco.
Ci
si mette, però, di mezzo la Perfida Albione.
Tra
le otto compagnie assicurative con cui il morituro Yves Dandonneau
aveva contratto le polizie, ve n'è infatti una britannica, con
regolare ufficio a Parigi. Con essa, Dandonneau aveva stabilito
un'interessante clausola, limitata al rischio di decesso accidentale
e con triplicazione del premio nel caso particolare di morte
sopravvenuta per incidente stradale. Informata del sinistro, la
compagnia britannica rileva che il contraente ha omesso di dichiarare
l'importo cumulativo delle polizze previamente sottoscritte presso
altre compagnie; e avete visto qui come sono bravo col linguaggio
burocratico-assicurativo, frutto di chilogrammi di traduzioni del
genere effettuate in passato, ancorché quasi tutte dall'inglese.
Insomma, come dire, agli assicuratori britannici salta la mosca al
naso. C'è qualcosa che non quaglia, e viene ingaggiato un
investigatore privato per fare un po' di chiarezza su questa strana
cosa. Il detective, francese,
si chiama Jean Porcer; e mi piace rimarcare che in questa bizzarra
storia interviene prima un pecoraio, il Pégurier della casetta nella
foresta, e poi un porcaro, il Porcer che indaga per conto della
compagnia assicurativa britannica.
Il
detective Porcaro si trova subito di fronte a dei fatti inquietanti
assai. Intanto, l'Austin Metro è completamente bruciata e non ne
resta che lo scheletro metallico, in condizioni che è facile
immaginare. All'interno vengono ritrovati anche dei resti di ossa,
che la Gendarmeria infila nel primo sacchetto di plastica a
disposizione, uno di quelli del supermercato. I resti della vettura
vengono depositati in un garage di Ceilhes, dove il sindaco, monsieur
le Maire, suggerisce di tenere
per la notte anche il sacchetto della spesa contenente poco più di
tre grammi di ossa umane sbriciolate. La salma carbonizzata di Yves
Dandonneau è stata, come detto, fatta cremare a tempo di record: a
questo punto, la mosca al naso salta anche ad un'altra compagnia
assicurativa tra le famose otto, francese stavolta. La FPA,
Fédération Professionnelle des Assureurs,
dispone di una “cellula anti-frode”, detta ALFA, che si mette
all'opera con un ispettore incaricato.
L'ispettore
dell'ALFA stabilisce in primo luogo, basandosi sulla deposizione di
Daniel Blouard, che l'Austin andava piano, in seconda. Blouard tiene
a ribadire la sua scalogna nera: sulla strada, infatti, non c'era che
quell'ostacolo e lui vi era andato a sbattere mentre procedeva pian
pianino e senza abbaglianti. Nonostante questo, l'ispettore rileva
che il tratto di strada del “Colle dell'Uomo Morto” è in
rettilineo, e che il masso dell'incidente si trova in una posizione
del tutto visibile, ed evitabile anche a notte fonda con gli
anabbaglianti. Non c'è peraltro alcun segno di frenata: a meno di
non buttarcisi contro, qualsiasi guidatore, anche leggermente
“bevuto”, lo avrebbe evitato senza problemi. L'ispettore, poi,
non riesce assolutamente a capire come mai Daniel Blouard abbia preso
quella stradina secondaria per recarsi a Ceilhes, quando esiste
un'altra strada, di transito ben più facile e maggiormente
frequentata, che vi si reca. Il 12 agosto 1987, dietro relazione
puntigliosa e circostanziata dell'ispettore assicurativo, viene
presentata una denuncia (qui mi preme far notare la meravigliosa
espressione francese, porter plainte,
vale a dire “portar lagnanza”) presso la Procura di Montpellier;
la possibilità di una gigantesca truffa, un escroc
di dimensioni colossali ai danni delle compagnie assicurative, si è
fatta decisamente strada; tanto che il giudice istruttore, che poi è
istruttrice trattandosi di M.me Claudine Laporte, ordina alla
Gendarmeria della regione Linguadoca e Rossiglione di ripigliare
immantinente le indagini.
A
indagini gendarmesche già riprese, e come si è già accennato,
cinque delle otto compagnie assicurative hanno già saldato il
sinistro; restano le altre tre, che attendono i risultati
dell'inchiesta. I tre grammi di ossa rinvenuti nell'Austin bruciata
(per la precisione, 3,7 grammi) vengono inviati per le analisi al
CARME (Centro di Applicazione e Ricerca in Microscopia Elettronica),
il laboratorio privato della Polizia francese. All'epoca,
naturalmente, non si parlava ancora di DNA. Qui, ne scongiuro, non mi
si domandi di dire come, perché già sto facendo i salti mortali per
tenere un tono très policier;
però, coi tre grammi virgola sette di ossa, gli esperti del CARME
riescono a ricostituire parte di una mascella umana alla quale
mancano due denti del giudizio; e si dà il caso che essa non
corrisponda affatto all'impronta dentale (o dentaria? Perdonatemi,
sto quasi fondendo) conservata dall'odontoiatra di Yves Dandonneau.
Insomma, l'uomo morto carbonizzato nell'Austin presso il Colle
dell'Uomo Morto, non è l'uomo morto ufficiale. Yves Dandonneau è
vivo e vegeto, da qualche parte, e pronto a godersi i soldoni della
sua truffa assieme alla compagna, all'amante e al di lei marito heureux cocu. Qualcosa, naturalmente,
toccherà anche a Daniel Blouard, l'amico disperato che guidava
l'Austin.
Restano
quindi da stabilire un paio di cose assolutamente elementari. La
prima è rintracciare tutta la banda, la quale, a questo punto, non è
ricercata solo per truffa, ma anche per omicidio volontario perché
qualcuno, in quella macchina, è comunque morto. Qui interviene un
fatto très français et républicain,
che del resto noialtri ben conosciamo con la rivalità tra
Carrabbinèra e Polizia: nonostante tutta la ricerca sia stata
affidata alla Gendarmeria, è la Polizia che ci mette il becco. Due
giorni dopo l'apertura dell'inchiesta a Montpellier, a Parigi, si
presentano ad un ufficio postale del 15° Arrondissement tre persone
per ritirare qualche spicciolo: due milioni e quattrocentomila
franchi in contanti. Le tre persone in questione sono, guarda caso,
Marie-Thérèse Hérault, la compagna dell'ex-defunto Yves
Dandonneau, Danièle Simonin, la segretaria-amante, e il marito di
quest'ultima. Gli impiegati dell'ufficio postale versano ai tre la
somma dietro regolare presentazione di assegni validi di due
compagnie assicurative; ma [barrare qui con una X] a) dotati di
notevole senso civico [ ]; b) non facendosi i cazzi loro [ ],
avvertono la Polizia, che interpella i
tre e li mette in garde à vue
(il fermo di polizia, spiacevole condizione in cui, recentemente, è
incorso anche l'ex presidente Nicolas Sarkozy). Quando arriva la
notizia, àpriti cielo: la giudice istruttrice di Montpellier, la
succitata Claudine Laporte, si incazza parecchio assieme alla
Gendarmeria, e ordina l'immediato rilascio dei tre. Nel frattempo,
Yves Dandonneau, il morto risuscitato, è fatto oggetto di
intercettazioni telefoniche: viene localizzato nel dipartimento delle
Alpi Marittime, vicino a Cannes. Il 15 gennaio 1988 viene finalmente
scovato in una villetta di Rouret, arrestato e messo in galera. Ha
trovato, naturalmente, modo di farsi un po' di chirurgia plastica, e
ora si fa passare per tale Bernard Depenne, oppure per altrettanto
tale François Meunier; dimodoché, dopo il Pecoraio e il Porcaro,
nella storia interviene anche il Mugnaio. Tutto inutile, dato che si
possono cambiare un po' i connotati, ma non l'impronta dentale (o
dentaria); Yves Dandonneau torna quindi ufficialmente in vita, e la
prima cosa che fa da novello Lazzaro è denunciare tutti i suoi
complici. I quali, stavolta, vengono messi al gabbio a Parigi, senza
remissione, e con accuse da far rizzare i capelli.
Fin
qui la storia della truffa. Diciamocelo francamente: le truffe ai
danni delle assicurazioni restano abbastanza simpatiche, nonostante
si tratti sempre e comunque di vile denaro, di quattrini a palate (di
sicuro non si organizza una cosa del genere per cento euro), di
cambiar vita, di palmizi, atolli & lagune blé. Le assicurazioni,
generalmente, restano sul culo a tutti, e raccontando una truffona ai
loro danni, ancorché finita male, si tende a parteggiare un po' per
i truffatori. Si può tenere anche un tono un pochino giocoso nella
narrazione, alla Marco Malvaldi per intendersi. Riconosco onestamente
e volentieri di essermi un po' ispirato al suo modo di narrare,
nonostante egli sia -quel horreur!-
pisano. Ma lo perdono un po', perché nei suoi ultimi libri del Bar
Lume ha dato a Massimo Viviani una fidanzata elbana, e perché lo
sceneggiato televisivo è girato a Marciana Marina.
2.
Ora,
però, si cambia radicalmente tono. Perché resta da parlare della
seconda delle due cose elementari in questa storia. Nell'Austin Metro
rossa, la sera del 6 giugno 1987 al Colle dell'Uomo Morto, chi è
morto? Di chi sono i tre grammi virgola sette di ossa della mascella?
Chi è stato prima carbonizzato e poi cremato al posto del redivivo Yves
Dandonneau? Il tono cambia, e -almeno per quel che mi riguarda,
scompare ogni simpatia per tutta la banda.
L'amico
disperato, Daniel Blouard, colui che guidava la vecchia e scassata
Austin Metro, aveva, nell'organizzazione della truffa, un compito
fondamentale: quello di reperire un morto. Facendo l'infermiere in un
ospedale, la prima idea era stata quella più ovvia, nonostante la
cosa non sia propriamente semplice e che si tratti pur sempre di un
reato non da noccioline: quella di trafugare un cadavere
all'obitorio. Operazione non semplice, che infatti si rivela
impossibile: provateci un po' voi. Yves Dandonneau, a questo punto,
ha un'altra pensata: si rivolge ad un altro suo amico, tale François
Meunier (di cui, poi, assumerà l'identità nel suo periodo
mortuario), che fa il cuoco ed al quale ha promesso un impiego nella
sua futura scuola per i bambini maltrattati in famiglia, affinché
gli procuri un vivo da ammazzare, bruciare e cremare al posto suo.
Molto più semplice che trafugare un cadavere autentico. Chi può
essere? Naturalmente, un barbone. Un “senza fissa dimora”. Un
emarginato. Un senza nessuno e senza niente. Un non-uomo di cui
nessuno venga a chiedere conto. Un abbrutito, un minorato mentale, un
rifiuto umano, senza vita e senza storia, che comunque sarebbe finito
in una fossa comune. E' esattamente quest'ultima espressione che
verrà usata da Yves Dandonneau nella sua deposizione: un rifiuto
umano.
François
Meunier, quello vero, vive in un Hachelem
e non ha un soldo. Yves Dandonneau gli promette mari e monti,
compresi i due simboli dello status borghese: una villetta tutta sua,
un pavillon, e un SUV.
Basta che gli trovi il morto. François Meunier ha, del resto, già
la vittima predestinata. A Sarcelles frequenta spesso un bistrot, “Le
Ravel” (sì, dal nome del musicista del Bolero), dove, tra gli
avventori, “simpatizza” con un alcolizzato, tale Joël. Non sa
nemmeno come fa di cognome: è Joël e basta. La preda perfetta. Gli
offre da bere, ci fa gran chiacchiere e diventa suo grande amicone.
Joël,
un cognome invece ce l'ha. Si chiama Joël Hipeau e ha una
quarantacinquina, una cinquantina d'anni. A quindici anni ha
conseguito il Baccalaureato, la Maturità francese: è il più
giovane di tutta la Francia a livello storico. Ha un quoziente di
intelligenza superiore. E' laureato in giurisprudenza e ha iniziato
il corso di studi per la laurea in medicina. Una vita borghesemente
felice, sposa il suo grande e primo amore del liceo, lavora bene e ha
una vita piuttosto agiata. Finché non scopre, dopo un po', che la
moglie lo tradisce, e lo tradisce perché si è propro innamorata di
quell'altro. Divorziano. Joël Hipeau va nei pazzi, e la sua vita va
in pezzi. Può accadere, per amore, nonostante le volutamente finte
dichiarazioni di Violeta Parra nelle sue Décimas:
d'amore si crepa eccome. Si crepa a volte morendo, a volte vivendo e
diventando un relitto, una Épave,
come si dice spesso nelle canzoni di Georges Brassens (Sète, 20
ottobre 1922 – Saint-Gély-en-Fescq, 30 ottobre 1981). Una delle
canzoni di Brassens si chiama proprio così, L'épave;
ma lui stesso, nella sua più che autobiografica e bellissima
Princesse et le Croque-Notes,
si era definito une épave accrochée à sa guitare,
un relitto aggrappato alla sua chitarra.
Joël
Hipeau perde ogni cosa. Si mette a bere come un polacco, pianta il
lavoro, pianta la casa, pianta ogni cosa e diventa un routard.
E' un po' difficile rendere esattamente questa parola in italiano: si
potrebbe dire un “giramondo”. Gira di qua e di là per la
Francia, con il suo bagaglio: la sua umanità, la sua tristezza, la
sua cultura profondissima e le canzoni di Georges Brassens, nel cui
mondo si riconosce. Vive di espedienti, di lavoretti, di carità,
sempre in giro per le strade di Francia; ogni tanto, un giretto se lo
fa pure in prigione per furtarelli e quant'altro. Della sua vita
precedente, nessuno sa più niente; diventa un invisibile. Con la sua
antica laurea in legge, impara a detestare polizie, gendarmi, galere,
regolamenti e sacre unioni: bella fine ha fatto la sua, il suo
“amore”, la ragazzina dagli occhioni sognanti che magari gli
scriveva le frasette sui libri per diventare poi una borghese
qualsiasi. Chissà, un avvocato. Ma di avvocati si avrà a riparlare.
Nel frattempo, il figlio di un gendarme gli sta preparando il
destino, senza che lui lo sappia.
Joël
Hipeau è, per il momento, soltanto Joël. Quello che, in un dato
periodo, va a bere nel bistrot di Sarcelles, dove conosce l'amicone
François Meunier, a sua volta amico dell'assicuratore Yves
Dandonneau. Un giorno, François Meunier, alla ricerca del suo
cadavere per conto terzi, gli propone una specie di sogno: una gita
nientemeno che a Sète, la città natale di Georges Brassens. Non
solo: gli promette anche l'acquisto di un volume con tutti i testi
delle sue canzoni. Arrivato qui, mi fermo un secondo, mi sposto
leggermente all'indietro con la sèggiola e, da uno scaffale, cavo
giustappunto un libro: Georges Brassens, Poèmes et
chansons, Éditions du Seuil,
1993. Acquistato a Friburgo (Svizzera) il 22 marzo 2005, perché io
dato e localizzo scrupolosamente i miei acquisti di libri. La prima
edizione del volume è del 1973. Da questo momento, continuo a
scrivere con quel volume addosso, sulle ginocchia. Nemmeno a fianco,
o vicino: addosso.
La
gita a Sète viene organizzata con due automobili: assieme a François
Meunier, ci sono due suoi amici appassionati di Brassens, tali Yves
Dandonneau e Daniel Blouard. E giù verso il Sud, verso il Sole.
Verso Sète e verso la Plage de la Corniche,
quella della “Supplique pour être enterré à la plage de Sète”.
Ho cominciato a impararle, le canzoni di Brassens, da quando avevo
quindici anni: la prima volta che ho messo piede a Parigi, nel giugno
del 1979 in gita scolastica (et c'est là que jadis, à quinze ans révolus...), una delle prime cose che ho fatto è
acquistare una musicassetta con delle canzoni di Brassens, una
antologia con la dicitura “Attention! Chansons pas pour toutes les
oreilles”. Ne conosco almeno tre quarti a memoria. A volte, con
Brassens mi sono pure arrabbiato. A volte mi ha fatto piangere. A
volte mi ha fatto ridere e quasi sempre mi ha fatto pensare. Non sono
diventato né un routard,
né un clochard, né un cadavere su commissione; ognuno, del resto,
ha la sua maniera per essere fuori da ogni cosa, quale che ne sia la
causa e quali che ne siano le modalità. Sulla Plage de la Corniche,
a Sète, ho il ricordo di una foto. Un giovane di ventinove anni,
raggiante, commosso al tempo stesso, preso in un'angolazione che lo
faceva apparire bellissimo. Quella foto, chissà dove è finita; me
la aveva presa, si pensi un po', un futuro avvocato. La divagazione,
lo ammetto, è un po' noiosa; il ricordo personale in una narrazione
è deontologicamente e stilisticamente scorretto. Però mi andava di
farlo. Torniamo a Joël.
Durante
il lungo tragitto da Sarcelles (vicino Parigi) a Sète, i tre
compagni di viaggio di Joël hanno portato una scorta di alcool.
Birra e superalcolici. L'intenzione è, naturalmente, quella di
schiantare Joël a morte, però non hanno fatto i conti con un
imprevisto. Oltre che intelligentissimo, coltissimo, alcolizzato,
anarcoide, routard e
brassensiano, Joël è un costolone di un metro e novanta, e regge
l'alcool come una comitiva di portuali livornesi. Poco male, perché
l'infermiere Blouard si è portato dietro un rinforzino: una dose di
Pentothal da far stramazzare un toro, oltre ad altre pasticchine e
polverine. Il tutto viene, ovviamente e generosamente, aggiunto alle
bevande date a Joël durante il viaggio. Ma Joël non ci pensa
nemmeno, e i tre amiconi truffatori cominciano ragionevolmente a
pensare che sarebbe stato meglio portarsi dietro una pistola. Quello
lì canta Brassens, e beve i micidiali cocktails che gli vengono
ammanniti. A un certo punto, però, cede; va in coma etilico, in coma
tossico, in coma comico, in coma di ogni cosa, e i tre lo lasciano a morire in un campetto, sotto un albero (Auprès de mon arbre...). Poi se ne
vanno tranquillamente a farsi una bella mangiata di frutti di mare
nei dintorni di Montpellier, per tornare dopo a riprendere Joël
trasformato, finalmente, nell'agognato cadavere. Per la strada, si
fermano a una stazione di servizio e riempiono una tanica di benzina.
Daniel Blouard, l'infermiere, certifica che è morto là, sotto
l'albero. Fine del rifiuto umano, mentre lontano lontano, in un
altrove dove Iddio non c'entra assolutamente niente, si sente una
canzone che i tre senz'altro non conoscono: Elle est à
toi, cette chanson...
Lo
prendono e lo infilano, morto, nell'Austin Metro rossa di Daniel
Blouard, lato passeggero, mettendogli la cintura di sicurezza; a
questo punto, Joël diventa Yves Dandonneau il morituro. Yves
Dandonneau, quello vivo, prende invece posto nell'automobile che
segue, assieme a François Meunier. Le due automobili infilano la
stradina secondaria che mena a Ceilhes passando per il Colle
dell'Uomo Morto; il progetto originario è quello di far precipitare
l'Austin in una scarpata, e di darle fuoco, con il cadavere di Joël
dentro. Ma, per fare questo, qualcuno dei tre si sarebbe dovuto
calare al buio nella scarpata, e nessuno ha voglia di rompersi l'osso
del collo. Viene quindi escogitato il finto incidente contro il
masso, con la susseguente sceneggiata di Daniel Blouard preoccupatissimo che la vettura prenda fuoco. Nel
frattempo, appunto, gli altri due versano tutta la tanica di benzina nell'Austin e le danno fuoco; a bordo dell'altra automobile, Yves Dandonneau e François Meunier se la filano in direzione di Perpignano. Il resto è
già stato raccontato. Come cantava Brassens, pure tradotto da De
André: C'est pas seulement à Paris que le crime
fleurit... (“Non tutti nella
capitale sbocciano i fiori del male”...)
A
Joël viene dato un cognome, e una vita, grazie a un galeotto. Un suo
vecchio compagno di cella, che si ricorda di lui e lo riconosce da
una specie di identikit delle sue fattezze ricostruito dai suoi
assassini stessi. Si ricorda anche che Joël gli aveva parlato del
suo nuovo amore, Géneviève, pure lei una emarginata alcolizzata con la quale
aveva deciso, come Brassens con Jutta Heyman, detta “Püppchen”,
di non vivere assieme. J'ai l'honneur de ne pas te demander
ta main... Géneviève viene
rintracciata, ed è lei a fornire il cognome di Joël, e a raccontare
la sua vita. Al processo, che si apre anni dopo, il 30 giugno 1992
presso le Assise di Montpellier, viene ammessa come unica parte
civile. Il presidente della Corte, però, ha un'idea luminosa: prima
dell'apertura del processo, concede un'intervista alla stampa dove
definisce Dandonneau come “colpevole” e “assassino”, in barba
alla presunzione d'innocenza. Il difensore di Dandonneau, l'avvocato
Alain Furbury, monta su un putiferio e ottiene sia la destituzione
del presidente, sia il rinvio del dibattimento a data da destinarsi.
Alla fine, il processo comincia il 12 ottobre 1992, con un nuovo
presidente.
Yves
Dandonneau si presenta in aula con un aspetto grottesco. Chi lo ha
conosciuto prima, si trova davanti a una specie di maschera di cera.
Bel tipo coi capelli scuri e ricci, dopo la chirurgia plastica ha un
colorito che va dal terreo al rosaceo malaticcio, con i capelli
biondi. Suda di continuo, e sembra che da un momento all'altro tutta
quella specie di cerone che ha addosso si sciolga. Subito i
giornalisti prendono a chiamarlo La masque de cire.
Géneviève,
la compagna di Joël Hipeau, è rappresentata da un principe del foro
un po' particolare. Avevo detto che si sarebbe riparlato un po' di
avvocati, e devo premettere che, per certe mie vicende personali qui
solo vagamente accennate, ho verso l'avvocatura un rapporto che, per
cospicue parti della mia vita, è stato leggermente conflittuale.
Tanto leggermente, da farmi sobbalzare con hurrà di gioia alla
visione della famosa scena di Jurassic Park,
quella in cui il tyrannosaurus rex si divora l'avvocato rifugiatosi
dentro una latrina. Il principe del foro che patrocina Géneviève,
la compagna di Joël Hipeau, è maître Éric
Dupond-Moretti, nato a Maubeuge, nel Nord, il 20 aprile 1961. C'è
pure una surreale e famosa canzone che parla del chiardiluna di
Maubeuge, scritta da un tassista parigino, Pierre Perrin.
Éric
Dupond-Moretti è un proletario, anzi un “plebeo”, come ama
definirsi. E' figlio di un operaio metalmeccanico e di una domestica
di origine pistoiese, Elena Moretti. I nonni sono pure operai; rimane
orfano di padre all'età di quattro anni. Il nonno materno, immigrato
in Francia da Pontepetri (Pistoia), viene ritrovato morto in modo
sospetto nel 1957, ai bordi di una ferrovia; è anche per questo
episodio che il giovane Éric sceglie di studiare giurisprudenza.
Dopo essersi diplomato a un collegio cattolico di Valenciennes, si
iscrive all'università e si mantiene agli studi facendo,
nell'ordine: a) il becchino in un cimitero; b) il manovale in un
cantiere; c) l'operaio alla catena di montaggio: d) lo scaricatore di
sacchi di sabbia; e) il cameriere prima in un night-club, e poi in un
ristorante. Nel 1976, quando ha ancora solo 15 anni, segue alla radio
il processo di Christian Ranucci, che verrà condannato a morte su
basi quantomeno dubbie; è, per il ragazzo, la “molla”. “Sono
diventato avvocato per odio alla pena di morte”, dirà in seguito.
Diventa avvocato penalista nel 1984; attualmente è il detentore del
record assoluto delle assoluzioni nella storia del diritto francese
(141 a tutto il 2017), che gli ha valso il soprannome di
“Acquittator”. E' un socialista di sinistra; nel 2013 rifiuta la
concessione della Legion d'Onore, e nel 2015 si dichiara
pubblicamente in favore della messa fuori legge del Front National.
Nell'ottobre del 1992, invece, lo vediamo come pubblico accusatore.
A
parte il fatto che l'avvocato Dupond-Moretti è un omone di un
centinaio di chili e rotti, sono propenso a credere che, per lui,
avrei fatto un'eccezione e che non mi avrebbe fatto piacere che fosse
stato sgranocchiato dal tyrannosaurus rex. Ma, al termine di questa
lunga, lunga storia, non lo dico tanto per la sua storia e per le sue
convinzioni, che pure ritengo altamente rispettabili. Lo dico per
quanto fece al processo contro Yves Dandonneau e la sua banda di
piccoli, miseri truffatori e assassini per denaro. A proposito: la
storia della scuola-rifugio per i bambini maltrattati era,
naturalmente, del tutto finta. Più che far condannare Yves
Dandonneau, l'avvocato Dupond-Moretti volle ridare a Joël Hipeau, il
“rifiuto umano”, la sua vita e la sua storia. Poiché quel che
disse esattamente è stato raccontato in una trasmissione dedicata ai
faits divers, ve lo
voglio far leggere in traduzione:
“Sono stato
incaricato da Géneviève Conce, che è la compagna di Joël Hipeau,
e che mi aveva chiesto di potersi costituire parte civile. Ma, per
fare qualcosa di inedito, è questione di dire all'imputato che ha
ucciso una persona straordinaria. Ho detto che, nonostante il suo
stile di vita, era un uomo eccezionale. Era un emarginato, un
“routard”, un giramondo, ed era così che lo definiva, non aveva
un lavoro stabile, non era un borghese, ma era una persona
eccezionale. Eccezionale per la sua generosità, per la sua cultura,
per la sua sensibilità, e non bisognava soltanto dire tutto questo,
ma anche far sì che Dandonneau non fosse condannato a una pena
troppo severa. Joël non amava affatto la polizia, i gendarmi e la
giustizia. Era un adepto di Brassens, sul piano estetico certamente,
ma anche su quello filosofico. Ed è questo che ho detto davanti a
una Corte d'Assise. Per un avvocato, è qualcosa di straordinario.
Quando sono entrato alle Assise, il presidente della Corte era
disposto molto favorevolmente nei miei confronti, e questo è normale
quando si rappresenta l'accusa...ci si aspetta che il rappresentante
dell'accusa corrobori l'azione giudiziaria. Questo sarebbe
consistito, in quel caso, nel dire un sacco di schifezze su
Dandonneau, e nel fare sì che fosse condannato alla pena più
pesante possibile. Io non ero là per questo. Ero là per parlare
della personalità di quest'uomo [Joël Hipeau], per tentare di
riabilitare la sua memoria, e per dire all'imputato che aveva
commesso l'irreparabile per uccidere una persona di valore. Quel
processo era contro uno che aveva scelto apposta la sua vittima, l'emarginato la cui vita non valeva niente e che era stato condannato a
morte, lo sappiamo, per denaro. Nella requisitoria...nella
requisitoria bisognava evocare Brassens, perché Brassens è come il
cuore di tutto il processo. Anche Géneviève ci teneva
particolarmente. A un certo punto ho detto ai giurati: Con quel dare
del tu che è tipico di chi ama subito, vi avrebbe detto 'Elle est à
toi cette chanson', e ho scelto proprio quel breve passaggio della
canzone dove i gendarmi portano via lo straniero, e colui che assiste
a questa scena non sorride. Ho esitato un attimo...l'aula era piena
stracolma...la canto, non la canto...e alla fine mi sono messo a
cantarla...'D'un grand soleil'...e ho terminato la requisitoria. Per
me è un ricordo eccezionale, e confesso che non ho più cantato
mentre patrocinavo. Non sta peraltro a me dire quale effetto abbia
avuto sui giurati, ma è stato un momento emozionante, un omaggio
postumo.
Il 16
ottobre 1992, Yves Dandonneau viene condannato a 20 anni di carcere.
François
Meunier, a 9 anni.
Daniel
Blouard, a 14 anni.
Marie-Thérèse
Héraut e Danièle Simonin a 4 anni con la condizionale.
Yves
Dandonneau è uscito di carcere nel 2001, dopo avere scontato 13
anni.
I tre
grammi virgola sette d'ossa della mascella rimasti di Joël Hipeau
riposano in pace da qualche parte che ignoro, senza i denti del giudizio. Le sue ceneri erano
state disperse. Qu'il te conduise, à travers l' ciel, au Père Éternel.
Iscriviti a:
Post (Atom)