lunedì 29 luglio 2013
Piole e guardrail
Me le ricordo, sì, le "piole".
Erano, boh, dei raduni, chiamiamoli così. Ai tempi di una Rete che non c'è più, quella quando a un certo punto ci si vedeva, per forza. Ci si vedeva e si credeva, persino, di essere "amici", di "condividere" e tante altre belle cose del genere. Ci avevamo persino l' "inno", la canzone degli "amici veri purtroppo o per fortuna", quella di Guccini per intendersi. Ne abbiamo fatte parecchie, in varie località italiane, di codeste "piole", negli anni fra il '99 e il 2005; la prima a Bologna e l'ultima a Firenze. Prima di accorgerci che s'era amici sì, amici no, amici un cazzo. Prima di tirar fuori tutta la carogneria e la meschinità che ci avevamo dentro, altro che "condivisione". Prima di spedirci a vicenda nel dimenticatoio quando è andata bene, e nell'odio quando è andata benissimo.
Restano, come sempre, i ricordi di un'illusione. Va bene così, sicuramente. Furono chiamati "piole", questi raduni con l'inno, quando ce lo disse uno di quei famosi "amici veri" (di cui attualmente ignoro se sia vivo o se sia morto), di provenienza piemontese. Ci spiegò che cos'era, in Piemonte, una "piola": vale a dire, se ben mi ricordo, un'osteria dove veniva servito il vino e dove ci si poteva portare il mangiare e le posate da casa. Piacque la cosa, e da allora i raduni si chiamarono "piole"; ognuna aveva una sua specie di "tema" e di nome. Poi c'era anche "Borgorosso", vabbè, e quante schitarrate, quanti alcool, quanti casini di ogni genere; mentre eravamo così "amici", imparavamo pian piano a non sopportarci. Vabbè, lezione imparata. Basta così.
Così, quando lo scorso anno, il venticinque di febbraio in Val di Susa prima di una manifestazione, ebbi modo di passare davanti, a Bussoleno, all' "Osteria Piola la Credenza", gioco forza mi vennero a mente queste cose. Eccomi là davanti, finalmente, a una piola vera e propria, con tanto di insegna. Sapevo che era un ritrovo dei No Tav della valle, ma non ci entrai; mi limitai a una specie di sorrisetto interno, un po' amaro e un po' non so, mi ripassò in testa l'immagine del filosofo culturista che sollevava di peso un "piolante" alto due metri e pesante centoventi chili, e via.
Leggo oggi che la Piola di Bussoleno è stata visitata dall'autorità giudiziaria, per ordine dei "piemme" (tali Padalino e Rinaudo) che si occupano diligentemente della repressione totale e indiscriminata del movimento No Tav. Oramai siamo al delirio totale di questi "fedeli servitori" che resteranno celebri per essere stati i primi "piemme preventivi", una task force che ha accompagnato i poliziotti già pronta a firmare in loco i provvedimenti di fermo. Questi qua che ordinano perquisizioni nelle osterie e che appioppano "finalità di eversione e terrorismo". Come scrive Baruda, giustamente, nell'articolo linkato: "Evidentemnte, non gli basta la figura di merda fatta con gli arresti
della scorsa settimana (già tradotti ai domiciliari) e continuano a
puntare in alto, verso la madre di tutte le imputazioni che Magistrati
di questo calibro sognano proprinare alle lotte sociali e ai movimenti,
specie quando questi non abbassano la testa!" Ma non credo che, a questi, interessi molto delle figure di merda che fanno assieme al loro capo supremo, l'eròo antimafio Caselli. Interessa loro mettere paura. Interessa loro far vedere le catene dello Stato e del Capitale, di cui sono al servizio per uno stipendio mensile. Questi sono gli "idoli" del Partito Nazionaldemocratico. Questi i loro fini terroristici, perché il terrore vogliono crearlo loro, in chiunque si opponga all'ordine delle loro "istituzioni democratiche".
Così, tocca anche alla Piola di Bussoleno. Quella dei No Tav, e anche quella del Guccini "stile Cavezzali" che si vede nel manifesto, della musica magari finto-irlandese o finto-occitana, ma chissenefrega. Nel frattempo, mentre si ammazza una valle intera e si creano i "terroristi eversori" per far piacere al mercato, al senatore E., alla "Cooperativa Muratori e Cementisti", all' "Europa" e quant'altro, le "grandi opere" si fanno notare, qualche chilometro più in giù, per certi loro guardrail un po' bassi per trattenere un pullman pieno di famiglie che avrebbero fatto meglio a andarsene a fare un giro altrove, senza prendere quella maledetta autostrada che rappresenta bene il "progresso" di questo paese.
Mi viene da pensare che, se per caso gli irpini e i matesani si fossero a suo tempo opposti alla costruzione di quell'autostrada di merda (la avete mai fatta?), non soltanto i gitanti di Pozzuoli sarebbero ancora tutti vivi. Ci sarebbero stati anche dei solerti magistrati pronti a distribuire eversioni e terrorismi a chiunque si fosse opposto. Ci sarebbero state galere e arresti domiciliari farciti di accuse ridicole. Ci sarebbe stato, in parole povere, lo Stato italiano nella sua essenza più profonda. Nato fascista, morirà fascista. Forse anche lui precipitato da un viadotto, durante una gita di "piemme" che vanno in Val Susa a firmar provvedimenti cautelari. Patapùnfete!
venerdì 26 luglio 2013
Una casa in riva al fiume
La casa che vedete nella foto è a pochi metri da casa mia, ma appartiene
ad un mondo che non c'è più. E' una vecchissima casa colonica
plurifamiliare di quando l'Isolotto era ancora una distesa di campi,
vale a dire fino agli anni '50 del XX secolo; non si sa come sia
sopravvissuta, là su una vecchia strada che, dopo esser passata sotto al
ponte dell'Indiano, si perde lungo l'Arno tra un campo nomadi, un
cementificio e un'installazione militare. Ad un certo punto diventa un
viottolo rivierasco fino alla foce della Greve; un'antica campagna
violentata dalla città. Ma questa cosa che ho scritto, non crediate che
sia una specie di “ragazzo della via Gluck”. E', invece, la storia di
uno dei miei sogni ad occhi aperti a contrasto con la realtà.
Quando ci si passa davanti, all'angolo tra la decrepita e polverosa via dell'Isolotto e la via dello Scalo che presuppone qualche scomparso porto di barche, si hanno strane sensazioni. Qualche anno fa è stata occupata da qualcuno che ne ha disegnato la facciata, con una scritta e una strana e bella figura che avvolge una finestra. E' lo stile, che ben conosco, degli squat; ma, attualmente, dev'essere abitata da qualcuno che non vuol farsi vedere. E s'immagina perfettamente chi possa essere. Sono gli invisibili delle nostre città, che non sono soltanto invisibili. Sono anche inimmaginabili. Proibito anche figurarseli, mentre sventolano dei poveri panni e si intravede un filo di fumo.
Quelle volte che ci passo, il sogno ad occhi aperti è sempre lo stesso; è talmente grande, quella casa, che me la vorrei rifare, o meglio rendere abitabile, a modo mio. Tenendo la scritta e la strana figura, e trasformarla in ciò che è probabilmente già stata per un periodo: uno squat aperto a tutti, pieno di gatti, di libri e di gente che ci vive, ci sogna e ci lotta. E' una sorta di “sogno comunitario” che mi porto dietro da tutta la vita, e che ho seminato letteralmente ai quattro angoli del mondo. Le vecchie case contadine che vanno in rovina nelle periferie delle città sono il mio mondo ideale, ma non per desiderio di “oasi”; per desiderio di condivisione, di ideali, di coscienza. O così mi dico di sognare, per un minuto o una vita che sia. A questo punto del sogno, però, interviene sempre la realtà. Il presente. Gli sgomberi forzati, le ruspe, le demolizioni. Il mondo che ho in testa, che è peraltro parecchio semplice, soccombe a ciò che hanno in testa i padroni. E guardo la casa in riva al fiume coi suoi invisibili e le sue macerie. La abbatteranno, un giorno, prima che crolli da sola. Non irradierà mai ciò che ho in testa, non sono del resto nessuno perché ciò possa accadere.
E allora, una data notte, le dedico una canzone. Una canzone che avevo in testa da tanto; ma doveva trovare, stavolta, la sua musica. L'ha trovata, alla perfezione assieme alla sua struttura metrica, in una vecchia e bellissima canzone di Ricky Gianco che parla di tutt'altro (e che riporto qui sotto). Ma, forse, anche la mia parla di un amore, e di un sogno, e di una rabbia che aumenta. Me la rivedo nella notte scura del passato con la vita che ci è scorsa, coi suoi volti e le sue vite, con l'alito enorme del tempo che non si ferma.
Quando ci si passa davanti, all'angolo tra la decrepita e polverosa via dell'Isolotto e la via dello Scalo che presuppone qualche scomparso porto di barche, si hanno strane sensazioni. Qualche anno fa è stata occupata da qualcuno che ne ha disegnato la facciata, con una scritta e una strana e bella figura che avvolge una finestra. E' lo stile, che ben conosco, degli squat; ma, attualmente, dev'essere abitata da qualcuno che non vuol farsi vedere. E s'immagina perfettamente chi possa essere. Sono gli invisibili delle nostre città, che non sono soltanto invisibili. Sono anche inimmaginabili. Proibito anche figurarseli, mentre sventolano dei poveri panni e si intravede un filo di fumo.
Quelle volte che ci passo, il sogno ad occhi aperti è sempre lo stesso; è talmente grande, quella casa, che me la vorrei rifare, o meglio rendere abitabile, a modo mio. Tenendo la scritta e la strana figura, e trasformarla in ciò che è probabilmente già stata per un periodo: uno squat aperto a tutti, pieno di gatti, di libri e di gente che ci vive, ci sogna e ci lotta. E' una sorta di “sogno comunitario” che mi porto dietro da tutta la vita, e che ho seminato letteralmente ai quattro angoli del mondo. Le vecchie case contadine che vanno in rovina nelle periferie delle città sono il mio mondo ideale, ma non per desiderio di “oasi”; per desiderio di condivisione, di ideali, di coscienza. O così mi dico di sognare, per un minuto o una vita che sia. A questo punto del sogno, però, interviene sempre la realtà. Il presente. Gli sgomberi forzati, le ruspe, le demolizioni. Il mondo che ho in testa, che è peraltro parecchio semplice, soccombe a ciò che hanno in testa i padroni. E guardo la casa in riva al fiume coi suoi invisibili e le sue macerie. La abbatteranno, un giorno, prima che crolli da sola. Non irradierà mai ciò che ho in testa, non sono del resto nessuno perché ciò possa accadere.
E allora, una data notte, le dedico una canzone. Una canzone che avevo in testa da tanto; ma doveva trovare, stavolta, la sua musica. L'ha trovata, alla perfezione assieme alla sua struttura metrica, in una vecchia e bellissima canzone di Ricky Gianco che parla di tutt'altro (e che riporto qui sotto). Ma, forse, anche la mia parla di un amore, e di un sogno, e di una rabbia che aumenta. Me la rivedo nella notte scura del passato con la vita che ci è scorsa, coi suoi volti e le sue vite, con l'alito enorme del tempo che non si ferma.
Una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
quando attorno c'era il cielo, quando attorno c'era il niente
finché la città è avanzata col suo grido sconvolgente,
ora passi là davanti, col suo muro disegnato
che nasconde quattro cose di qualcuno disperato
con i resti di una cena, fantasmi di scatolette
materassi bombardati, ruggine di sigarette.
Io ci passo e mi vien voglia di sognarmi muratore,
di reinfondere la vita in quelle mura ed il calore,
desiderio che mi prende nella carne e nelle ossa
di sconfiggere il futuro, spalancare la riscossa
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
porta che non aprirai
quando la guardi e non lo sai
Certo mi potrei sognare con i gatti e coi compagni
barricare le anarchie mentre ristrutturi i bagni,
allacciare all'infinito la corrente clandestina
mentre si dà vita a un sogno e si tira a far mattina,
certo sì che si potrebbe mitragliare d'allegria,
di rifiuto e di bagliori da questa periferia,
a tre passi da quel campo coi suoi odori penetranti
di occhi chiari e di Mercedes dai sedili esorbitanti,
fisarmoniche sparate, libri e scuole sotto braccio
vecchi e donne e labbra forti sulla via del Poderaccio
mentre il cielo a primavera fa incendiare la speranza,
mille vecchie case in festa, mille fiumi in lontananza
Quella casa che non hai,
e che non hai avuto mai,
vita che non rivivrai
quando la vivi e non lo sai
Ed immagino gli incroci tra il passato ed il presente,
cappellacci con gli attrezzi per vangar l'inesistente,
e conversa il contadino col bambino pakistano,
la ragazza di campagna con il venditore indiano
e la nonna alla finestra scuote il capo ad un ragazzo
con la cresta e gli sorride come si sorride a un pazzo
i miei mondi immersi e misti, variopinti, disassati,
confusioni delle lingue dentro ai miei pensieri armati
con le mura trasparenti dei miei amori sconfinati
nelle albe e nei tramonti dove il fiume è come un mare
che non vuole mai confini, che non vuole limitare
neanche l'ieri ed il domani, neanche il tempo da oscillare
Quella casa che non sai,
che anche stanotte sognerai,
quella casa, tu lo sai,
è grande quanto i tuoi guai
Ma poi sento dei rumori e gli sguardi clandestini
mentre ondeggiano dei panni e si sfregano cerini,
c'è il nessuno alle finestre e c'è un nulla negli strami
da gommoni e da miserie, e da guerre e dalle fami,
forse scorgo aliti sporchi, forse scorgo una mano
dalle vite sconosciute che son giunte da lontano,
tiro avanti o tiro indietro, il cielo si fa bluastro,
già ti vedi all'orizzonte la ruspa del borgomastro
e divise caschi e scudi e manganelli e polizia
sgomberare e sicurezza, la ferocia e la follia
e ora vedi quelle facce miste ai vecchi contadini
e la casa in riva al fiume vola via coi suoi cerini
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
quando ci ripasserai
non sarà mai esistita mai.
Vecchia strada ormai sbarrata con i blocchi di cemento,
vecchia casa là a disfarsi coi suoi spettri controvento,
casermoni e lassù il ponte col suo traffico impazzito
mentre torno a casa a piedi con lo sguardo un po' stranito,
è una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
Quella casa che non sai,
e che non vuol morire mai,
quella porta la aprirai
se questo mondo abbatterai.
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
quando attorno c'era il cielo, quando attorno c'era il niente
finché la città è avanzata col suo grido sconvolgente,
ora passi là davanti, col suo muro disegnato
che nasconde quattro cose di qualcuno disperato
con i resti di una cena, fantasmi di scatolette
materassi bombardati, ruggine di sigarette.
Io ci passo e mi vien voglia di sognarmi muratore,
di reinfondere la vita in quelle mura ed il calore,
desiderio che mi prende nella carne e nelle ossa
di sconfiggere il futuro, spalancare la riscossa
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
porta che non aprirai
quando la guardi e non lo sai
Certo mi potrei sognare con i gatti e coi compagni
barricare le anarchie mentre ristrutturi i bagni,
allacciare all'infinito la corrente clandestina
mentre si dà vita a un sogno e si tira a far mattina,
certo sì che si potrebbe mitragliare d'allegria,
di rifiuto e di bagliori da questa periferia,
a tre passi da quel campo coi suoi odori penetranti
di occhi chiari e di Mercedes dai sedili esorbitanti,
fisarmoniche sparate, libri e scuole sotto braccio
vecchi e donne e labbra forti sulla via del Poderaccio
mentre il cielo a primavera fa incendiare la speranza,
mille vecchie case in festa, mille fiumi in lontananza
Quella casa che non hai,
e che non hai avuto mai,
vita che non rivivrai
quando la vivi e non lo sai
Ed immagino gli incroci tra il passato ed il presente,
cappellacci con gli attrezzi per vangar l'inesistente,
e conversa il contadino col bambino pakistano,
la ragazza di campagna con il venditore indiano
e la nonna alla finestra scuote il capo ad un ragazzo
con la cresta e gli sorride come si sorride a un pazzo
i miei mondi immersi e misti, variopinti, disassati,
confusioni delle lingue dentro ai miei pensieri armati
con le mura trasparenti dei miei amori sconfinati
nelle albe e nei tramonti dove il fiume è come un mare
che non vuole mai confini, che non vuole limitare
neanche l'ieri ed il domani, neanche il tempo da oscillare
Quella casa che non sai,
che anche stanotte sognerai,
quella casa, tu lo sai,
è grande quanto i tuoi guai
Ma poi sento dei rumori e gli sguardi clandestini
mentre ondeggiano dei panni e si sfregano cerini,
c'è il nessuno alle finestre e c'è un nulla negli strami
da gommoni e da miserie, e da guerre e dalle fami,
forse scorgo aliti sporchi, forse scorgo una mano
dalle vite sconosciute che son giunte da lontano,
tiro avanti o tiro indietro, il cielo si fa bluastro,
già ti vedi all'orizzonte la ruspa del borgomastro
e divise caschi e scudi e manganelli e polizia
sgomberare e sicurezza, la ferocia e la follia
e ora vedi quelle facce miste ai vecchi contadini
e la casa in riva al fiume vola via coi suoi cerini
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
quando ci ripasserai
non sarà mai esistita mai.
Vecchia strada ormai sbarrata con i blocchi di cemento,
vecchia casa là a disfarsi coi suoi spettri controvento,
casermoni e lassù il ponte col suo traffico impazzito
mentre torno a casa a piedi con lo sguardo un po' stranito,
è una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
Quella casa che non sai,
e che non vuol morire mai,
quella porta la aprirai
se questo mondo abbatterai.
giovedì 25 luglio 2013
Salari, esplosioni.
" 11 aprile 1975. Passata ora di pranzo. A Sant'Anastasia, in provincia di
Napoli, si sente un boato. La fabbrica Flobert, che produce proiettili
d’arma giocattolo e fuochi d’artificio, è esplosa. Dodici le vittime,
tutte giovani. I capannoni erano situati in contrada Romani, alle
pendici del Monte Somma, nel vesuviano. Sono tanti ad accorrere sul
luogo della sciagura. Molti temono per la vita dei propri cari. “Nun se
capette 'niente”, dirà Ciro Liguoro, uno dei sopravvissuti. E niente si
capirà per molto tempo ancora.
Era un venerdì come tanti. Al lavoro quel giorno si trovavano sessanta persone, molte donne, più remissive, con le mani più piccole degli uomini e dunque più adatte ad inserire polvere da sparo nei proiettili di gomma. Nel reparto dove scoppia la scintilla che causerà la deflagrazione si trovano tredici operai, maschi, e circa 200mila cartucce, che per mesi verranno ritrovate per le vie del paese dai bambini che si divertivano a farle scoppiare. Dodici di loro muoiono sul colpo, solo uno si salva per miracolo. Cinque donne e cinque uomini subiranno gravi ferite. Pezzi dei loro corpi appaiono a 100 metri di distanza, di uno non si ritroverà nemmeno più il corpo. Due cadaveri carbonizzati verranno trovati dai primi soccorritori aggrappati a una rete, nel vano tentativo di scappare.
Venivano tutti da paesi confinanti: Sant'Anastasia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano D'Arco, Cercola, San Sebastiano al Vesuvio, Portici. Si conoscevano tutti: Giuseppe Mosca, 20 anni, Antonio Tramontano, 21 anni, Giuseppe Sorrentino, 22 anni, Antonio Savarese, 23 anni, Mariano Barra, 24 anni, Giovanni Esposito, 25 anni, Antonio Frasca, 25 anni, Michele Allocca, 32 anni, Michele Esposito, 34 anni, Giovanni Caruso, 35 anni, Giovanni Cerciello, 39 anni, Vincenzo Florio, 42 anni.
Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima. Molte delle 60 persone presenti lavoravano in nero in capannoni di legno e lamiera, privi delle più basilari norme di sicurezza. Alcuni degli operai risulteranno assunti solo 5 giorni prima dell'incidente. All'inizio si pensa che a far scattare la scintilla sia stata una cicca di sigaretta lasciata cadere da un operaio. Non è così: le inchieste successive ipotizzeranno che la causa siano alcune sostanze proibite contenute nella miscela utilizzata durante la lavorazione.
“Il padrone ci aveva chiamato negli uffici pochi giorni prima per dirci che avevamo il posto di lavoro, eravamo tutti giovani e contenti. Però, ci disse, c'è una cosa – racconta Liguori in un documentario dal titolo A' Flobert (ma pecchè per faticà pure a morte amm’affruntà) di M. Gibo Gibertini del gruppo Le Nacchere Rosse – una cosa da niente, disse. Dovete costruire dei proiettili per le pistole Flobert. Però ci assicurò che non c'era nessun problema". Pochi giorni dopo lo scoppio non c'era più nulla. Solo silenzio. Odore di morte. I funerali si tennero nella Casa del Pellegrino all’interno del Santuario della Madonna dell’Arco. Tanti gli operai presenti. I pianti dei familiari delle vittime riempiono l'aria. Dei camion militari trasporteranno le dodici bare al cimitero del paese, dove tutt'ora si trova una lapide, ormai logora e vecchia, con su scritto: Pagarono con la vita il pane, la pietà del popolo li volle qui riuniti.
Una donna, che allora era poco più di una bambina e lavorava già nella fabbrica, racconta che il proprietario è morto di vecchiaia. Lei si chiama Immacolata Russo e per puro caso fu sostituita da un giovane di cui non ha mai saputo il nome, che morirà al suo posto. Imma racconterà anni dopo, in una bella intervista a Girolamo De Simone, quale era il suo lavoro: “Preparavo gli ‘scatolini’, quelli con le munizioni per le armi giocattolo. La caposquadra si chiamava Rosa, mi chiese 'vuoi andare sulla macchina dei guagliuni?', cioè dove lavoravano i maschi, ma io le dissi che non sapevo usare le macchine, che non le avevo mai viste..., ma lei ribadì 'tu non devi fare niente, devi solo guardare'... Li metteva a lavorare così, senza preparazione. Erano quasi tutti nuovi quelli che morirono. Il padrone mi pagava milleduecento lire al giorno. A me doveva dare ventimila lire al mese, perché ero l’ultima arrivata, ma agli altri dava qualcosa in più".
"Lui si chiamava Emanuele, era di Cercola - prosegue il racconto di Immacolata. È morto di vecchiaia. A volte non ci pagava neppure: faceva freddo, ci dava il panettone di Natale e non ci dava i soldi. E noi come e puverelle là fora, ce mureveme e friddo e chillo nun ce vuleva dà i soldi... Non ci teneva a posto, ma so che lui voleva farlo, perché la fabbrica si era ingrandita. Ma poi scoppiò e basta. Finì tutto. Fui nella stanza tutta la mattina, fino all’ora di pranzo, quando andammo a mangiare. Al ritorno il mio posto fu preso da un giovane, ed io ebbi il tempo di tornare nel capannone, sedermi e poi... scoppiò tutto. Scappavano, urlavano, c’era chi sveniva, c’era anche una donna incinta di Pomigliano, che venne meno, cadde a terra e poi non si capì nulla, una tragedia. Ricordo anche un ragazzo di diciotto anni, stava portando tra le mani una bacinella con la polvere da sparo: fece una lampa. Se non sono morta allora, non morirò più: dovevo morire io al posto di quel giovane, ma non c’era una fossa per me. Io me ne andai, lui si mise al posto mio, e morì: non so nemmeno il suo nome. Sono passati trent’anni, ma non ne conosco ancora il nome”.
Era l'11 aprile del 1975. Ad ottobre dello stesso anno gli E-Zezi, gruppo operaio di Pomigliano canterà alla Festa dell'Unità una canzone rimasta indelebile nella memoria, A' Flobert, conosciuta però come Sant'Anastasia. Un canto di morte e memoria. Un pianto sulle tombe di quei dodici operai, brandelli di corpi riuniti in un unico “tavuto”, una lapide posta sulle migliaia di vittime del lavoro che ogni anno fanno vergognare il nostro paese, ma non i responsabili di tanta tragedia. " - Sara Picardo.
Era un venerdì come tanti. Al lavoro quel giorno si trovavano sessanta persone, molte donne, più remissive, con le mani più piccole degli uomini e dunque più adatte ad inserire polvere da sparo nei proiettili di gomma. Nel reparto dove scoppia la scintilla che causerà la deflagrazione si trovano tredici operai, maschi, e circa 200mila cartucce, che per mesi verranno ritrovate per le vie del paese dai bambini che si divertivano a farle scoppiare. Dodici di loro muoiono sul colpo, solo uno si salva per miracolo. Cinque donne e cinque uomini subiranno gravi ferite. Pezzi dei loro corpi appaiono a 100 metri di distanza, di uno non si ritroverà nemmeno più il corpo. Due cadaveri carbonizzati verranno trovati dai primi soccorritori aggrappati a una rete, nel vano tentativo di scappare.
Venivano tutti da paesi confinanti: Sant'Anastasia, Somma Vesuviana, Pollena Trocchia, Pomigliano D'Arco, Cercola, San Sebastiano al Vesuvio, Portici. Si conoscevano tutti: Giuseppe Mosca, 20 anni, Antonio Tramontano, 21 anni, Giuseppe Sorrentino, 22 anni, Antonio Savarese, 23 anni, Mariano Barra, 24 anni, Giovanni Esposito, 25 anni, Antonio Frasca, 25 anni, Michele Allocca, 32 anni, Michele Esposito, 34 anni, Giovanni Caruso, 35 anni, Giovanni Cerciello, 39 anni, Vincenzo Florio, 42 anni.
Dieci degli operai scomparsi avevano iniziato a lavorare solo due settimane prima. Molte delle 60 persone presenti lavoravano in nero in capannoni di legno e lamiera, privi delle più basilari norme di sicurezza. Alcuni degli operai risulteranno assunti solo 5 giorni prima dell'incidente. All'inizio si pensa che a far scattare la scintilla sia stata una cicca di sigaretta lasciata cadere da un operaio. Non è così: le inchieste successive ipotizzeranno che la causa siano alcune sostanze proibite contenute nella miscela utilizzata durante la lavorazione.
“Il padrone ci aveva chiamato negli uffici pochi giorni prima per dirci che avevamo il posto di lavoro, eravamo tutti giovani e contenti. Però, ci disse, c'è una cosa – racconta Liguori in un documentario dal titolo A' Flobert (ma pecchè per faticà pure a morte amm’affruntà) di M. Gibo Gibertini del gruppo Le Nacchere Rosse – una cosa da niente, disse. Dovete costruire dei proiettili per le pistole Flobert. Però ci assicurò che non c'era nessun problema". Pochi giorni dopo lo scoppio non c'era più nulla. Solo silenzio. Odore di morte. I funerali si tennero nella Casa del Pellegrino all’interno del Santuario della Madonna dell’Arco. Tanti gli operai presenti. I pianti dei familiari delle vittime riempiono l'aria. Dei camion militari trasporteranno le dodici bare al cimitero del paese, dove tutt'ora si trova una lapide, ormai logora e vecchia, con su scritto: Pagarono con la vita il pane, la pietà del popolo li volle qui riuniti.
Una donna, che allora era poco più di una bambina e lavorava già nella fabbrica, racconta che il proprietario è morto di vecchiaia. Lei si chiama Immacolata Russo e per puro caso fu sostituita da un giovane di cui non ha mai saputo il nome, che morirà al suo posto. Imma racconterà anni dopo, in una bella intervista a Girolamo De Simone, quale era il suo lavoro: “Preparavo gli ‘scatolini’, quelli con le munizioni per le armi giocattolo. La caposquadra si chiamava Rosa, mi chiese 'vuoi andare sulla macchina dei guagliuni?', cioè dove lavoravano i maschi, ma io le dissi che non sapevo usare le macchine, che non le avevo mai viste..., ma lei ribadì 'tu non devi fare niente, devi solo guardare'... Li metteva a lavorare così, senza preparazione. Erano quasi tutti nuovi quelli che morirono. Il padrone mi pagava milleduecento lire al giorno. A me doveva dare ventimila lire al mese, perché ero l’ultima arrivata, ma agli altri dava qualcosa in più".
"Lui si chiamava Emanuele, era di Cercola - prosegue il racconto di Immacolata. È morto di vecchiaia. A volte non ci pagava neppure: faceva freddo, ci dava il panettone di Natale e non ci dava i soldi. E noi come e puverelle là fora, ce mureveme e friddo e chillo nun ce vuleva dà i soldi... Non ci teneva a posto, ma so che lui voleva farlo, perché la fabbrica si era ingrandita. Ma poi scoppiò e basta. Finì tutto. Fui nella stanza tutta la mattina, fino all’ora di pranzo, quando andammo a mangiare. Al ritorno il mio posto fu preso da un giovane, ed io ebbi il tempo di tornare nel capannone, sedermi e poi... scoppiò tutto. Scappavano, urlavano, c’era chi sveniva, c’era anche una donna incinta di Pomigliano, che venne meno, cadde a terra e poi non si capì nulla, una tragedia. Ricordo anche un ragazzo di diciotto anni, stava portando tra le mani una bacinella con la polvere da sparo: fece una lampa. Se non sono morta allora, non morirò più: dovevo morire io al posto di quel giovane, ma non c’era una fossa per me. Io me ne andai, lui si mise al posto mio, e morì: non so nemmeno il suo nome. Sono passati trent’anni, ma non ne conosco ancora il nome”.
Era l'11 aprile del 1975. Ad ottobre dello stesso anno gli E-Zezi, gruppo operaio di Pomigliano canterà alla Festa dell'Unità una canzone rimasta indelebile nella memoria, A' Flobert, conosciuta però come Sant'Anastasia. Un canto di morte e memoria. Un pianto sulle tombe di quei dodici operai, brandelli di corpi riuniti in un unico “tavuto”, una lapide posta sulle migliaia di vittime del lavoro che ogni anno fanno vergognare il nostro paese, ma non i responsabili di tanta tragedia. " - Sara Picardo.
Viernarì unnice aprile
'a Sant'Anastasia
n'u tratto 'nu rummore
sentiett' 'e ch' paura.
Je ascevo 'a faticà
manc'a forza 'e cammenà
p'à via addumandà:
'sta botta che sarrà.
'A Massaria 'e Rumano
'na fabbrica è scuppiata
e 'a ggente ca fujeva
e ll'ate ca chiagneva.
Chi jeva e chi turnava
p'à paura e ll'ati botte
ma arrivato 'nnanz' 'o canciello
Maronn' e ch' maciello!
Din't vuliette trasì
me sentiette 'e svenì
'nterr' 'na capa steva
e 'o cuorpo nn' 'o teneva.
Cammino e ch' tristezza
m'avoto e ncopp' 'a rezza
dduje pover' operaje
cu 'e carne tutt'abbruciat'.
Quann' arrivano 'e pariente
'e chilli puverielle
chiagnevano disperati
pè 'lloro figlie perdute.
«'O figlio mio addò stà
aiutateme a cercà
facitelo pe pietà
pe fforza ccà adda stà».
«Signò, nun alluccate
ca forse s'è salvato»
e 'a mamma se va avvutà
sott' 'a terra 'o vede piglià.
So' state duricie 'e muorte
p'è famiglie e ch' scunfuorto
ma uno nun s'è trovato,
povera mamma scunzulata.
Sò arrivat' 'e tavute
e 'a chiesa simmo jute
p'ò l'urdemo saluto
p'e cumpagne sfurtunate.
P'e mmane nuje pigliamm'
tutti 'sti telegramm'
so' lettere 'e condoglianze
mannate pè crianza.
Atterrà l'ajmm' accumpagnat'
cu a rraggiaria 'ncuorpo
e 'ncopp' 'a chisti muort'
giurammo ll'ata pavà...
E chi va 'a faticà
pur' 'a morte addà affruntà
murimm' 'a uno 'a uno
p'e colpa 'e 'sti padrune.
A chi ajmma aspettà
sti padrune a' cundannà
ca ce fanno faticà
cu 'o pericolo 'e schiattà.
Sta ggente senza core
cu 'a bandiera tricolore
cerca d'arriparà
tutt' 'e sbaglie ca fà.
Ma vuje nun'ò sapite
qual'è 'o dolore nuoste
cummigliate cu 'o tricolore
'sti durici lavoratori.
Ma nuje l'ajmm' capito
cagnamm' 'sti culuri
pigliammo a sti padrune
e mannammel' 'affanculo.
E cu 'a disperazion'
'sti fascisti e 'sti padrune
facimmo nu muntone,
nu grand' fucarone.
Cert' chisto è 'o mumento
e 'o mumento 'e cagnà
e 'a guida nostra è grossa
è 'a bandiera rossa.
Compagni pè luttà
nun s'adda avè pietà
me chesta è 'a verità
'o comunismo è 'a libertà.
'a Sant'Anastasia
n'u tratto 'nu rummore
sentiett' 'e ch' paura.
Je ascevo 'a faticà
manc'a forza 'e cammenà
p'à via addumandà:
'sta botta che sarrà.
'A Massaria 'e Rumano
'na fabbrica è scuppiata
e 'a ggente ca fujeva
e ll'ate ca chiagneva.
Chi jeva e chi turnava
p'à paura e ll'ati botte
ma arrivato 'nnanz' 'o canciello
Maronn' e ch' maciello!
Din't vuliette trasì
me sentiette 'e svenì
'nterr' 'na capa steva
e 'o cuorpo nn' 'o teneva.
Cammino e ch' tristezza
m'avoto e ncopp' 'a rezza
dduje pover' operaje
cu 'e carne tutt'abbruciat'.
Quann' arrivano 'e pariente
'e chilli puverielle
chiagnevano disperati
pè 'lloro figlie perdute.
«'O figlio mio addò stà
aiutateme a cercà
facitelo pe pietà
pe fforza ccà adda stà».
«Signò, nun alluccate
ca forse s'è salvato»
e 'a mamma se va avvutà
sott' 'a terra 'o vede piglià.
So' state duricie 'e muorte
p'è famiglie e ch' scunfuorto
ma uno nun s'è trovato,
povera mamma scunzulata.
Sò arrivat' 'e tavute
e 'a chiesa simmo jute
p'ò l'urdemo saluto
p'e cumpagne sfurtunate.
P'e mmane nuje pigliamm'
tutti 'sti telegramm'
so' lettere 'e condoglianze
mannate pè crianza.
Atterrà l'ajmm' accumpagnat'
cu a rraggiaria 'ncuorpo
e 'ncopp' 'a chisti muort'
giurammo ll'ata pavà...
E chi va 'a faticà
pur' 'a morte addà affruntà
murimm' 'a uno 'a uno
p'e colpa 'e 'sti padrune.
A chi ajmma aspettà
sti padrune a' cundannà
ca ce fanno faticà
cu 'o pericolo 'e schiattà.
Sta ggente senza core
cu 'a bandiera tricolore
cerca d'arriparà
tutt' 'e sbaglie ca fà.
Ma vuje nun'ò sapite
qual'è 'o dolore nuoste
cummigliate cu 'o tricolore
'sti durici lavoratori.
Ma nuje l'ajmm' capito
cagnamm' 'sti culuri
pigliammo a sti padrune
e mannammel' 'affanculo.
E cu 'a disperazion'
'sti fascisti e 'sti padrune
facimmo nu muntone,
nu grand' fucarone.
Cert' chisto è 'o mumento
e 'o mumento 'e cagnà
e 'a guida nostra è grossa
è 'a bandiera rossa.
Compagni pè luttà
nun s'adda avè pietà
me chesta è 'a verità
'o comunismo è 'a libertà.
![]() |
Città S. Angelo, Pescara, 25 luglio 2013. |
" Ci vorrebbero morti. Vorrebbero vedere morti gli operai, i precari
e tutta l’Alfasud, i disoccupati e i cuozzi. Vorrebbero vedere morti, e
seppelliti, una volta per sempre, tutti i poveri maronna. Utili e
inutili. I verniciatori, i fabbri, gli imbianchini, i falegnami, i
cottimisti, i part-taim, le colf e le maestrine. E pure ’e mpagliasegge,
’e collcenter, i commessi, i facchini, i camerieri, i contadini, i
portantini, ’e guardiamachine, chille ca cogliono ’e patane e chille ca
te portano ’a pizza nfino â casa. Vulessero verè muorte ’e zingare, ’e
nire, ’e gialle, e, primm’e tutto, ’e russe. Vulessero appiccià ’e case,
’e ciardine, ’e rullotte, ’e baracche (e pure ’e cucce de’ cani) di
tutti i rom, gli immigrati, i senza tetto, i senza soldi, i senza
niente. Come hanno ucciso l’Italsider, come hanno riempito di merda e
rifiuti tossici la campagna e i quartieri, come hanno baciato la
camorra, come ne sono stati baciati e ripagati. Come hanno inquinato le
teste con piccoli e grandi fratelli, amici, markette, otto e mezzo,
quiz, lotterie, cantagiro e porte aperte. Come hanno ucciso la storia,
la geografia e la grammatica italiana. Come hanno condonato tutto
l’abuso, il pertuso, le ville, l’evasione fiscale, ’a corruzione,
’o falso in bilancio, asoretaemmammeta, il furto con destrezza, la rapina,
l’usura, Genova, la Diaz e Bolzaneto, i prestiti bancari. Con la stessa
velocità e malvagità, ci vorrebbero tutti morti. E quindi tutti muti.
Senza musica e senza voce, senza ricordo e senza allegria. Senza vino e
scarze ’a formaggio. Ma nuie l’avimme schiatta ncuorpe! So’ loro c’hanna
murì. " (Gruppo Operaio 'E Zezi)
Contusi
Dal punto di vista dell'evoluzione della lingua italiana contemporanea, sarebbe molto interessante compilare un lessico ragionato (e diacronico, reperendo le prime attestazioni dell'uso di un dato vocabolo in una particolare accezione -principio lessicografico fondante alla base, tra l'altro, dell'Oxford English Dictionary) della terminologia che si potrebbe definire "di servitù mediatica". È chiaro che molte altre definizioni sarebbero possibili; per chiarire meglio il concetto, si tratta di tutta una gamma di termini (oramai parecchio vasta) che sono utilizzati per veicolare "a battage" il pensiero unico della cosiddetta "Democrazia di inizio millennio". Anche lessicograficamente, si tratta di una cosa non di poco conto: si va dalla reimmissione in circolo di parole precedentemente in declino (come decoro) alle nuove accezioni di termini esistenti (degrado), dalla restrizione semantica (sicurezza) all'ipertrofia martellante (paura, terrore), dalla creazione di espressioni (tolleranza zero) all'antitesi (telecamera amica). Come si può facilmente vedere, sono osservati, almeno lessicalmente, i principi fondamentali della Neolingua orwelliana: certo, non si è arrivati alla creazione di un "nuovo linguaggio" anche dal punto di vista morfosintattico, ma siamo comunque di fronte a tutta una terminologia che presuppone il Crimethink, sintetizzato dalla parola fondamentale: Legalità.
Ci occuperemo qui di un termine apparentemente comune: contuso. Si tratta del participio passato di un verbo non usato comunemente, contundere (latino contundo, -is, contusi, contusum, dal significato più antico di "soggiogare", poi passato a quello di "battere, picchiare, ferire"). Del verbo italiano, oltre al participio passato, si usa praticamente soltanto il participio presente nell'espressione corpo (o oggetto) contundente. Si tratta di usi prevalentemente medici e giuridici, unitamente al sostantivo derivato contusione. Comunemente, è sinonimo pieno del comune termine "botta": se, a livello popolare, si dice "prendersi (beccarsi) una botta in testa", in un referto medico si parla di "riportare una contusione cefalica".
Da un po' di tempo, il termine contusi ha sviluppato una sua particolare accezione riservata esclusivamente alle forze di polizia. Non esiste praticamente azione di piazza, infatti, dove non si abbiano dei contusi tra le forze dell'ordine; "quindici contusi tra gli agenti a Terni", "ventotto poliziotti contusi a Chiomonte", eccetera. Alla cosa, naturalmente, viene dato un grosso risalto: essa serve a mille cose (la pura e semplice propaganda, la condanna dei violenti, le interrogazioni parlamentari, la carriera del sen. Esposito, i messaggi di solidarietà, le azioni del COISP, i titoli di Repubblica...) e può sostenere fortemente l'immagine del poliziotto che si fa "massacrare" per un misero stipendio nonché, soprattutto, giustificare arresti e repressione. Dunque, largo ai contusi. Organicamente, non potrebbe esistere alcuna azione di repressione poliziesca senza un numero vario di contusi tra i repressori.
La foto a lato mostra un gruppo di potenziali contusi in azione in Val di Susa. Come si può osservare, si tratta di truppe antisommossa dotate di potenti mezzi meccanici per il getto d'acqua ad alta pressione, e di protezioni personali capaci di assorbire urti di notevole entità (nonché, ovviamente, di armi da fuoco). Le contusioni sarebbero dovute al "lancio di pietre", fermo restando che neppure il più forzuto dei NO TAV sarebbe capace di lanciare macigni, a meno che non abbiano ingaggiato Obelix. Ricordo a tale riguardo che il record mondiale maschile del getto del peso è di m. 23,12, stabilito nel 1990 dall'americano Randy Barnes con l'attrezzo dal peso di kg 7,260, mentre quello femminile è di m. 22,63, stabilito nel 1987 dalla sovietica Natal'ja Lisovskaja con un attrezzo di 4,000 kg. Si hanno notizie di incidenti occorsi durante delle gare di getto del peso, ma naturalmente i giudici di gara impegnati nelle competizioni di atletica leggera non sono dotati di una tenuta antisommossa.
La foto a fianco mostra invece un manifestante NO TAV nelle condizioni in cui è stato prelevato dalle forze dell'ordine contuse. Si tratta di un esempio tra centinaia. Mentre qualche esponente dell'UDC o roba del genere esprime solidarietà alle forze dell'ordine, mentre i giornali parlano con toni accorati di fermare la violenza, mentre il pool di magistrati si fa addirittura trovare già sul posto con due PM "ad hoc" pronti a convalidare in loco gli arresti (come dire: sarebbe come se, quando interviene un'ambulanza per la strada, si portasse già dietro un paio di chirurghi coi ferri già pronti), mentre il sen. Esposito del Partito Democratico arriva a dire che i contusi hanno fatto benissimo a manganellare a sangue i manifestanti (inventandosi poi la classica minaccia di morte, prassi oltremodo comune; spererà forse di ricevere la solidarietà dell'ANPI ?), ecco quel che accade. Giornalmente. Ma questo post tratta di problemi squisitamente lessicali, quindi passiamo oltre.
L'immagine qui accanto mostra il sindaco di Terni, Leopoldo Di Girolamo, peraltro del Partito Democratico, nelle condizioni in cui è stato ridotto dopo una manifestazione degli operai dell'AST (ex Thyssen). Sono gli effetti nefasti degli ombrelli: come tutti sanno, infatti, dopo le prime accuse infondate di una serie di manganellate da parte di un agente, è spuntato addirittura un "video" dove si vede il sindaco colpito da un'ombrellata, la quale ha notevolmente sollevato il ministro dell'interno, Angelino X: "Sono sollevato nell'aver avuto conferma che ancora una volta la polizia
ha svolto regolarmente il suo compito di tutela dell'ordine pubblico e
dei cittadini". Comunque vada, è da notare che, generalmente, nel caso di cittadini colpiti dalle forze a "tutela dell'ordine pubblico", la terminologia si fa parecchio vaga.
C'è riluttanza estrema nell'usare il crudo termine di "feriti", anche se le foto mostrano chiaramente che non si tratta quasi mai di semplici contusi. Il manifestante e il sindaco delle foto precedenti sono feriti. Si vede sangue in abbondanza. Nel caso della Val di Susa, oltre ad essere feriti, sono non di rado arrestati e condotti in galera; ciò cui viene dato però risalto sono però le presupposte contusioni riportate dagli agenti in tenuta da battaglia. A tale riguardo, in un impeto di esattezza, ho cercato in Rete immagini di poliziotti contusi ricorrendo alle più svariate chiavi di ricerca; un'autentica desolazione. Ho soltanto trovato l'immagine che segue, dove si vedono due agenti presso la famosa rete del cantiere in atteggiamento quasi affettuoso, con uno dei due che carezza amorevolmente il casco del collega per lenire le contusioni che esso ha riportato: davvero una scena commovente.
Avendo dunque sviscerato la nuova accezione del termine contuso, resta -come in ogni lessico che si rispetti- da fornire una definizione stringata e chiarificatrice (ad esempio: Latte: liquido prodotto dalle ghiandole mammarie dei mammiferi di sesso femminile). In questa accezione si potrebbe procedere nel modo che segue: Contuso (agg. p.pass. da contundere): Detto di agenti di polizia, carabinieri (o altre forze dell'ordine ivi compresi i vigili urbani): colpito sul casco a prova di proiettile, o in altre parti del corpo coperte con ogni sorta di protezione ad alta tecnologia, da una sassatina lanciata a mani nude o da altri oggetti improvvisati, con effetti sanitari generalmente nulli ma di valore giuridico e propagandistico. Le parole sono importanti, non mi stancherò mai di dirlo; chiudo quindi con altre due immagini, molto famose.
Nella prima si vede un ragazzino palestinese nell'atto di contundere con una pietra, un carro armato israeliano, che riportò un gravissimo "tonk" sulla parte anteriore:
Nella seconda si vede invece come può reagire un agente contuso (che, in seguito, riportò ogni sorta di calorosa solidarietà per il vile atto eccetera, prima di essere condannato per molestie sessuali ad una bambina di undici anni):
mercoledì 24 luglio 2013
martedì 23 luglio 2013
Giorno più, giorno meno
Così si leggeva sul retro della maglietta di un ragazzo in piazza Macellai Messicani (o Carlo Giuliani, ex Alimonda), a Genova, sabato scorso. Vabbè, il giorno non era il ventotto, ma il ventinove di luglio; poco importa. Si potrebbe anche immaginare Gaetano Bresci la sera del ventotto, mentre magari provava la pistola o si beveva quell'ultimo mezzo litro, o qualsiasi altra cosa. Oggi, nel mese di luglio, è invece il ventitré; giorno più, giorno meno. Sembra che da qualche parte sia nato un "erede al trono" del quale non si sa ancora manco il nome; come dire, se si è re non si può nemmeno fare il classico "lo chiameremo Andrea" non appena fatta la morfologica al quarto mese, perché bisogna che il mondo stia col fiato sospeso. Un antico suddito di quella corona diceva che siamo nati per marciare sulla testa dei re, e un operaio tessile di Coiano di Prato scelse l'unico modo realmente praticabile per farlo; per il resto, vorrei farlo gentilmente presente, sono i re che continuano a marciare sulle nostre teste, anche se non hanno corone e troni. Dicono però che la "gente" ha bisogno di "favole"; e nessuna favola comincia con "c'era una volta un presidente della repubblica". Forse va anche bene così, provate a immaginarvi Biancaneve che comincia pensando a Giorgio Napolitano.
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