Quando ci si passa davanti, all'angolo tra la decrepita e polverosa via dell'Isolotto e la via dello Scalo che presuppone qualche scomparso porto di barche, si hanno strane sensazioni. Qualche anno fa è stata occupata da qualcuno che ne ha disegnato la facciata, con una scritta e una strana e bella figura che avvolge una finestra. E' lo stile, che ben conosco, degli squat; ma, attualmente, dev'essere abitata da qualcuno che non vuol farsi vedere. E s'immagina perfettamente chi possa essere. Sono gli invisibili delle nostre città, che non sono soltanto invisibili. Sono anche inimmaginabili. Proibito anche figurarseli, mentre sventolano dei poveri panni e si intravede un filo di fumo.
Quelle volte che ci passo, il sogno ad occhi aperti è sempre lo stesso; è talmente grande, quella casa, che me la vorrei rifare, o meglio rendere abitabile, a modo mio. Tenendo la scritta e la strana figura, e trasformarla in ciò che è probabilmente già stata per un periodo: uno squat aperto a tutti, pieno di gatti, di libri e di gente che ci vive, ci sogna e ci lotta. E' una sorta di “sogno comunitario” che mi porto dietro da tutta la vita, e che ho seminato letteralmente ai quattro angoli del mondo. Le vecchie case contadine che vanno in rovina nelle periferie delle città sono il mio mondo ideale, ma non per desiderio di “oasi”; per desiderio di condivisione, di ideali, di coscienza. O così mi dico di sognare, per un minuto o una vita che sia. A questo punto del sogno, però, interviene sempre la realtà. Il presente. Gli sgomberi forzati, le ruspe, le demolizioni. Il mondo che ho in testa, che è peraltro parecchio semplice, soccombe a ciò che hanno in testa i padroni. E guardo la casa in riva al fiume coi suoi invisibili e le sue macerie. La abbatteranno, un giorno, prima che crolli da sola. Non irradierà mai ciò che ho in testa, non sono del resto nessuno perché ciò possa accadere.
E allora, una data notte, le dedico una canzone. Una canzone che avevo in testa da tanto; ma doveva trovare, stavolta, la sua musica. L'ha trovata, alla perfezione assieme alla sua struttura metrica, in una vecchia e bellissima canzone di Ricky Gianco che parla di tutt'altro (e che riporto qui sotto). Ma, forse, anche la mia parla di un amore, e di un sogno, e di una rabbia che aumenta. Me la rivedo nella notte scura del passato con la vita che ci è scorsa, coi suoi volti e le sue vite, con l'alito enorme del tempo che non si ferma.
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
quando attorno c'era il cielo, quando attorno c'era il niente
finché la città è avanzata col suo grido sconvolgente,
ora passi là davanti, col suo muro disegnato
che nasconde quattro cose di qualcuno disperato
con i resti di una cena, fantasmi di scatolette
materassi bombardati, ruggine di sigarette.
Io ci passo e mi vien voglia di sognarmi muratore,
di reinfondere la vita in quelle mura ed il calore,
desiderio che mi prende nella carne e nelle ossa
di sconfiggere il futuro, spalancare la riscossa
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
porta che non aprirai
quando la guardi e non lo sai
Certo mi potrei sognare con i gatti e coi compagni
barricare le anarchie mentre ristrutturi i bagni,
allacciare all'infinito la corrente clandestina
mentre si dà vita a un sogno e si tira a far mattina,
certo sì che si potrebbe mitragliare d'allegria,
di rifiuto e di bagliori da questa periferia,
a tre passi da quel campo coi suoi odori penetranti
di occhi chiari e di Mercedes dai sedili esorbitanti,
fisarmoniche sparate, libri e scuole sotto braccio
vecchi e donne e labbra forti sulla via del Poderaccio
mentre il cielo a primavera fa incendiare la speranza,
mille vecchie case in festa, mille fiumi in lontananza
Quella casa che non hai,
e che non hai avuto mai,
vita che non rivivrai
quando la vivi e non lo sai
Ed immagino gli incroci tra il passato ed il presente,
cappellacci con gli attrezzi per vangar l'inesistente,
e conversa il contadino col bambino pakistano,
la ragazza di campagna con il venditore indiano
e la nonna alla finestra scuote il capo ad un ragazzo
con la cresta e gli sorride come si sorride a un pazzo
i miei mondi immersi e misti, variopinti, disassati,
confusioni delle lingue dentro ai miei pensieri armati
con le mura trasparenti dei miei amori sconfinati
nelle albe e nei tramonti dove il fiume è come un mare
che non vuole mai confini, che non vuole limitare
neanche l'ieri ed il domani, neanche il tempo da oscillare
Quella casa che non sai,
che anche stanotte sognerai,
quella casa, tu lo sai,
è grande quanto i tuoi guai
Ma poi sento dei rumori e gli sguardi clandestini
mentre ondeggiano dei panni e si sfregano cerini,
c'è il nessuno alle finestre e c'è un nulla negli strami
da gommoni e da miserie, e da guerre e dalle fami,
forse scorgo aliti sporchi, forse scorgo una mano
dalle vite sconosciute che son giunte da lontano,
tiro avanti o tiro indietro, il cielo si fa bluastro,
già ti vedi all'orizzonte la ruspa del borgomastro
e divise caschi e scudi e manganelli e polizia
sgomberare e sicurezza, la ferocia e la follia
e ora vedi quelle facce miste ai vecchi contadini
e la casa in riva al fiume vola via coi suoi cerini
Una casa che non sai,
e che non hai saputo mai,
quando ci ripasserai
non sarà mai esistita mai.
Vecchia strada ormai sbarrata con i blocchi di cemento,
vecchia casa là a disfarsi coi suoi spettri controvento,
casermoni e lassù il ponte col suo traffico impazzito
mentre torno a casa a piedi con lo sguardo un po' stranito,
è una casa in riva al fiume, una casa un po' cadente,
forse un tempo ci ha vissuto e ci è morta della gente
Quella casa che non sai,
e che non vuol morire mai,
quella porta la aprirai
se questo mondo abbatterai.