martedì 13 ottobre 2015

Região Lombardia




I VAMPIRI

Nel cielo grigio, sotto l'astro muto
sbattendo le ali nella notte silente
vengono a branchi con pie' di velluto
a succhiar il sangue fresco del gregge.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.

Da ogni parte arrivano i vampiri,
si posan sui tetti e sui marciapiedi...
Portan nel ventre bottini antichi,
niente li inchioda alle vite spezzate.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.

C'è chi s'inganna al loro aspetto serio
e, quando arrivano, apre loro la porta:
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.

Per terra impauriti cadono i vinti,
si senton grida nella notte soffocata.
Giaccion nei fossi le vittime di un'idea
e non s'esaurisce il sangue del gregge.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.

Sono padroni dell'universo intero,
signori a forza, dominatori senza legge,
empion granai e bevon vino nuovo,
danzano in tondo nella pineta del re.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.

C'è chi s'inganna al loro aspetto serio
e, quando arrivano, apre loro la porta:
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
Si mangian tutto, si mangian tutto,
si mangian tutto e non lasciano nulla.
 
Qualcuno dice che io non sono granché "moderno"; e invece hai visto, metto pure le canzoni hard rock del 2014...giusto, a parte il non trascurabile fatto che la versione originale della canzone in portoghese qua sopra è del 1958, e fu scritta e composta da un signore dal nome chilometrico ma che, di solito, viene chiamato nella sua versione abbreviata: José Afonso. Una canzone che parla di vampiri, e che in questa versione straròcche è interpretata dalla band UHF (Ultra High Frequency). 

giovedì 24 settembre 2015

Emergenze estive


Parto da due dati di fatto. Il primo è che oggi, ventiquattro settembre, è ufficialmente il primo giorno di autunno conclamato. Faccio, ohimé, parte di quella generazione cui dicevano che l'autunno comincia il 21 settembre e che si torna a squola il primo di ottobre; a un certo punto, però, hanno cominciato a minare questa certezze, facendo tornare i ragazzi fra i banchi a metà settembre e dicendo che l'autunno comincia il ventitré. Mi sono sentito perso. I giorni tra il 21 e il 23 settembre sono diventati per me una specie di terra di nessuno, giorni senza una stagione precisa, limbo ove non si sa ancora se rimpiangere l'estate o prepararsi ad attendere, a lungo, quella dopo. Il secondo è che l'estate appena trascorsa (senza il primo dato di fatto testé espresso, non sarebbe possibile dire "appena trascorsa", ndr) ha visto, come del resto ogni estate, la sua brava emergenza

Per emergenza estiva s'intende generalmente un evento, di solito assolutamente idiota (e le sue eventuali conseguenze tragiche non ne inficiano assolutamente l'idiozia; anzi, in determinate circostanze la accrescono), che per un giorno o due catalizza l'attenzione del pubblico (grazie alla blobbosa massa mediatica attuale) trasformando una štrunzata, appunto, in emergenza. Peculiarità di molte di tali emergenze estive è, in parecchi casi, la presenza di animali; venuta l'estate, il mediaticume sente il possente bisogno di individuare, per qualche ora, l'animale-nemico. Può essere benissimo qualcosa che ha a che fare con atavismi risalenti al pleistocene o roba del genere; e così, un'estate abbiamo l'emergenza meduse, quella dopo l'emergenza pitbull e quella dopo ancora l'emergenza vipere. Quest'estate è toccato, va detto, ad una delle emergenze estive più tipiche e gettonate: l'emergenza cinghiali.

Punto di partenza di ogni emergenza estiva è un episodio, che deve essere necessariamente tragico sennò non può catturare l'attenzione. L'emergenza pitbull ha di solito come protagonisti dei bambini, perché il pitbull, come i comunisti, mangia i bambini (la sua presenza su parecchi treni, come sono solito dire, sarebbe quindi altamente necessaria). L'emergenza meduse scatena tutte le considerazioni sui cambiamenti climatici, e poi le meduse sono vìssssscide, bruciano, e sono mangiate dai cinesi. L'emergenza vipere è antica, molto mediterranea e fabbricante consolidata di leggende metropolitane (nel '73, all'Elba, ricordo benissimo di quanto si parlò di un incauto "turista tedesco" che sarebbe stato mortalmente morsicato da una vipera mentre pisciava sul bordo della strada a Fetovaia, e morsicato proprio ). L'emergenza cinghiali ha invece la caratteristica di non essere esclusivamente estiva. I cinghiali agiscono a tempo pieno, in ogni stagione: orde selvagge escondo dal profondo della foresta per invadere orti, vigne, giardini e frutteti per devastarli. Può succedere che, ogni tanto, un bel sus scrofa (Linnaeus, 1758) ne approfitti per far fuori qualche succulento essere umano, in proporzione comunque non minimamente paragonabile agli esseri umani che, generalmente armati fino ai denti, ammazzano migliaia e migliaia di succulenti cinghiali.

E, così, quest'estate si è avuto il caso del pensionato (credo in Sicilia, se mi ricordo bene) che è stato assalsicciato da un cinghiale in quanto era tornato in un proprio recinto, o roba del genere, per salvare i propri cani. Questo, naturalmente, crea il pathos che ci vuole: un conto è il cinghiale che fa fuori, in un caso su cinquantamila, il cacciatore (da tenere presente che i cacciatori si ammazzano in proporzione assai maggiore tra di loro, specie se hanno legami di parentela e con particolare predilezione per i cognati toscani); un altro è il povero pensionato che si immola per salvare i cani, fedeli amici dell'uomo ancorché dotati di mezzi naturali atti a lottare contro il suin bestione). Lungi da me, naturalmente, ironizzare sulla morte di quel pover'uomo, che avrebbe comunque fatto meglio a starsene dov'era; che Iddio gli apra le porte del Paradiso. Però, questo episodio era troppo ghiotto per non scatenare l'emergenza estiva di turno.

Per un paio di giorni, il pensionato siciliano ammazzato dal cinghiale a fait la une, come dicono in Gallia. ISIS? Migranti? La crisi greca? Il calciomercato? Tutto oscurato dal cinghiale assassino e, più in generale, dall'emergenza cinghiali. Riunioni urgenti di coltivatori e allevatori. Dichiarazioni e interpellanze parlamentari. Programmi di sterminio. Pericolo per economie intere. Interviste disperate in mezzo a campi e vigne. Rovine paventate o già avvenute. Ora, come tutti sanno, la popolazione dei cinghiali nelle aree forestali italiane è stata, in passato, fatta aumentare a dismisura proprio per compiacere i cacciatori, i quali non si accontentano peraltro dei cinghiali italiani. Famose, ad esempio, le battute organizzate in Ungheria con tanto di agenzie, vero e proprio tiro al bersaglio trasformato in business. I cinghiali, però, sono prolifici assai; e così, grazie al passatempo di una massa di imbecilli, è chiaro che le foreste si sono riempite di quei grossi animali che fanno sgruf sgruf e che, come ogni essere vivente, cercano da mangiare uscendo la notte. Più sono, e meno c'è da mangiare dato che non possono contare altro che su se stessi per procurarselo. E allora entrano nelle vigne, nei campi, nei giardini, nei recinti, ovunque ci sia da procurarsi cibo. E' assolutamente normale. C'è chi vuol fare pum pum su di loro per divertirsi coi fucilini, e queste sono le conseguenze.

Peraltro, non voglio fare il "duro e puro" che non sono. Mi è capitato eccome di mangiarmi qualche salsiccia di cinghiale, e anche di farmi, perché no, una cinghialata fra sugo e spezzatino di quelle sontuose. Diciamo una volta ogni due o tre anni. Se non la fo, però, non è certo un problema. Ne potrei fare a meno per tutta la vita senza che questo mi cambi nulla. Il fatto è che, contraddittoriamente assai, il cinghiale (o cignale, come si dice meglio dalle mie parti persino con antiche e autorevolissime attestazioni letterarie) è un animale che mi sta oltremodo simpatico. Come potrebbe essere altrimenti? Il suo nome deriva, con diversi accidenti della fonetica storica, dal latino singularis (come si vede meglio dal francese sanglier, sicuramente incrociato in qualche modo con sang nella più tipica delle etimologie popolari), nel senso di "solitario". Il cinghiale ama stare da solo, e il suo nome potrebbe benissimo tradursi come "Asociale"; quale animale potrebbe meglio definirmi? Insomma, quelle volte che ho addentato un pezzo di cinghiale, mi sono sentito una specie di cannibale, senza tenere conto dell'aspetto cignalesco che non di rado mi contraddistingue e persino del fatto che ho sempre saputo imitare benissimo il suo verso, tanto da aver spaventato a morte, una volta, la povera zia Clara mettendomi a grufolarle accucciato sotto la finestra di camera.

Tornando alla nostra emergenza estiva, ad un certo punto si è avuta la classica apoteosi. Non mi ricordo dove, ma forse nella stessa zona siciliana del tragico fatto di cui sopra, un sindaco ha proposto un'immediata e urgentissima riunione, a livello addirittura regionale, di tutti i suoi pari colleghi per affrontare una buona volta l'emergenza cinghiali. Parole chiave: "Insostenibile", "mettere in ginocchio", "abbattimenti consistenti", "economia minacciata". Nonostante l'immediato sostegno espresso da politici locali e nazionali all'iniziativa, ignoro se essa si sia effettivamente tenuta anche perché l'emergenza cinghiali è scomparsa entro le 48 ore mentre i suini continuavano tranquillamente a addentare giardini e frutteti, a trombare appunto come cignali e a sfornare graziosissimi e simpatici cinghialotti a strisce (mi è capitato, all'Elba, pure di accarezzarne un paio; non sono soffici). E mi sono messo, in quei giorni, a fare un sogno ad occhi aperti.

Ho sognato un'urgentissima riunione dell'ACI (Associazione Cinghiali Italiani) per affrontare una buona volta, e seriamente, l'emergenza sindaci.

"Il proliferare indiscriminato dei sindaci è una delle autentiche emergenze che affliggono questo paese", ha dichiarato il portavoce dell'Associazione. "Fra ordinanze anti-immigrati, iniziative culturali di dubbia rilevanza, regolamenti comunali fantasiosi, scioglimenti per infiltrazioni mafiose varie, incapacità palese di gestire gli autentici problemi che affliggono i Comuni, multifici a base di semafori truccati, gestione criminale dei territori, consorterie, collusioni, piani regolatori da far venire la pelle d'oca a un cignale (ops), colate di cemento, ecomostri, terre de' fuochi, pagine Facebook e tweet demenziali e quant'altro, i sindaci italiani rappresentano un pericolo incalcolabile per questo paese. I "danni incalcolabili all'economia" li produrremmo noialtri cinghiali per due o tre viti e un paio di mele o di pere? L'Associazione Italiana Cinghiali si fa quindi pressante interprete della necessità urgente di regolare la popolazione italiana dei sindaci, mediante abbattimenti consistenti equamente suddivisi per specie (Syndicus Piddinus, Syndicus Forzaitaliotha, Syndicus Pentastellatus, Syndicus Listacivicus, Linnaeus 2015), con particolare attenzione rivolta alla perniciosa specie Syndicus Legajolus Padanus nonostante il loro leader, sia detto con la massima sincerità, sia in realtà un cignale che ha tradito la sua specie. Facciamo appello alle forze autenticamente democratiche affinché l'emergenza sindaci sia presa nella massima considerazione, in quanto costoro fanno assai più danni alla civiltà, alla natura e al territorio di noialtri poveri suini selvatici. Suggeriamo anche di considerare il beneficio economico che l'abbattimento dei sindaci recherebbe all'economia nazionale: i prodotti derivati dei sindaci sono ottimi sotto ogni punto di vista (avete mai provato un sindaco valdostano in umido? Una salsiccia di sindaco indipendente molisano? Delle ottime pappardelle al sugo di sindaco del Valdarno?), e potrebbero rappresentare un'eccellenza da proporre alla prossima Expò".

Mi son dovuto tirare un pizzicottone per svegliarmi da questo sogno. Già mi vedevo Nardella assalsicciato sott'olio. Il sindaco di Venezia trasformato in ragù mentre cianciava del gay pride. Pisapia a bollire nel vino rosso forte. E un pezzo di un qualsiasi sindaco leghista cucinato a puntino alla trasmissione "Wildboar Masterchef" di Cygnal Channel International. Slurp! Sgrùf!

lunedì 21 settembre 2015

Vous êtes quoi?



Lo scorso 7 gennaio, poco meno di dieci mesi fa, andava parecchio di moda être Charlie. Talmente di moda, che si sono visti essere Charlie dei personaggi, come dire, beh, non so, lasciamo perdere. Ad esempio, était Charlie Bibi Nethanyahu. E, va da sé, 'e gli era Ciàrli anche Matteino nostro. Il padrone di casa, François Hollande, era naturalmente Sciarlìssimo; ma è inutile fare la lista della spesa. In quei giorni, pur con tutti i distinguo possibili e immaginabili, s'era tutti quanti Charlie. Ci siamo sentiti investiti da uno tsunami di libertà di espressione, dal potente della Terra fino all'ultimo dei quajàn. Per giorni e giorni, facciamo un tre o quattro; ma poiché la libertà di espressione, sacro valore democratico e occydenthäle, vale soltanto a certe e ben delimitate condizioni, oggi bisognerà ritirarla fuori per un caso assai meno mediatico e di importanza periferica.

Come forse qualcuno sarà venuto a sapere, Erri De Luca, discreto alpinista nato a Napoli e personaggio dalla vita alquanto avventurosa (durante la quale ha persino fatto, e continua a fare, lo scrittore), oggi si è visto e sentito richiedere, per la di lui persona, una pena detentiva di mesi otto per istigazione a delinquere. Avendo pubblicamente sostenuto la necessità di sabotare il TAV e di ricorrere alle cesoie per tagliare certe reti che delimitano una certa porzione del territorio italiano occupata da un cantiere militarizzato, l'alpinista Erri De Luca è incorso nel concetto di Libertà di Espressione che è più proprio dello stato italiano e dei suoi eroici rappresentanti, come è il caso del PM Antonio Rinaudo. Indi per cui, Erri De Luca è stato mandato a processo, ed è questo uno dei motivi per i quali sto particolarmente insistendo sulla sua attività alpinistica. Non è infatti possibile che un paese democratico come l'Italia, culla del diritto alla quale -invero- qualcuno dovrebbe decidersi a cambiare un po' i pannolini, mandi a processo uno scrittore per delle sue affermazioni. Gli scrittori a processo? Roba da regime totalitario, naturalmente. Da maccartismo, quantomeno. Gli scrittori a processo rimandano a Solgenitsyn o a Nâzim Hikmet, solo per fare due esempi senz'altro notissimi anche a un PM Rinaudo. Ma, per chiarire meglio in che cosa consista il concetto di Libertà di Espressione dell'attuale stato iTAViano, niente può essere meglio che lasciare la parola al PM Rinaudo stesso, il quale lo ha chiarito in maniera non fraintendibile:

"Nelle interviste rilasciate pubblicamente ha commesso incitazione a commettere il sabotaggio. È indiscutibile che si debba concludere arrivando alla penale responsabilità dell'imputato riconoscendo comunque le attenuanti generiche per il comportamento processuale e perché non si è mai tirato indietro rispetto alle domande dell'accusa e del giudice".

In queste quattro righe è contenuta la summa  di tutta la Libertà di Espressione come applicata in un moderno stato democratico. La Libertà deve essere delimitata dalla cosiddetta Legalità; quando si oltrepassa tale delimitazione, paventando e sostenendo atti che le vanno contro, si è automaticamente passibili di repressione. Questo, naturalmente, a condizione che tali atti siano contrari agli interessi economici dello stato stesso, dei potentati finanziari, delle varie istituzioni e delle mafie, come è assolutamente tipico il caso del TAV; in certi altri casi, il concetto non si applica affatto. Ad esempio: se il politicante di turno rilascia dichiarazioni sulla necessità di radere al suolo dei campi nomadi, di sterminare una congrua quantità di immigrati e di bruciare le baracche, tutto questo rientra nella sacra Libertà di Espressione. 

Continua il PM Rinaudo: "Se, come ha chiesto la difesa, avessimo trovato qualche riferimento diretto alle sue pubblicazioni per esempio nelle perquisizioni degli arrestati, saremmo qui a celebrare un processo per concorso nei reati commessi". Vale a dire: Se durante le perquisizioni degli arrestati viene trovato un riferimento diretto alle pubblicazioni di un qualsiasi scrittore, sappia egli che può finire a processo per concorso di reato per una citazione, la ripresa di una sua intervista, qualsiasi cosa egli abbia pubblicato o dichiarato in riferimento a qualcosa che vada contro gli interessi di uno stato, di una consorteria, di un potentato. E' bene sapere, per chiunque scriva con vari intendimenti, e qualunque sia il suo grado di notorietà, che questa è la Libertà di Espressione garantita da un moderno stato democratico.

Ovviamente, colpire Erri De Luca rappresenta, nell'ottica su esposta, una qualche forma di ammonimento, o di avvertimento preventivo, rivolto ad eventuali rappresentanti del mondo culturale (e alpinistico) ai quali punga vaghezza di incitare a sabotaggi, recisioni di recinzioni e, in generale, opposizioni fattive a colossali progetti di assoggettamento armato del territorio. Sembra di risentire vecchie eco, peraltro niente affatto flebili, dei cattivi maestri. Alla sbarra finisce l'ultimo dei valsusini come il militante del centro sociale, finisce (e pure in carcere) il sabotatore di compressori come Erri De Luca. Bene averlo estremamente presente prima di mettersi a scrivere o ad affermare qualsiasi cosa al riguardo, ed eventualmente adoperare ogni sorta di legittima prudenza. Solo che, quando nello scrivere e nel parlare, è necessario adoperare prudenza estrema per evitare di incorrere in guai seri, è bene anche avere estremamente presente di vivere sotto un regime, quali che siano le sue maschere. Sotto i regimi si è costretti a dissimulare. Si è obbligati a ricorrere alle metafore. A non poter più dire chiaramente le cose. E anche, naturalmente, a dover ingoiare il fatto che il regime, non di rado, cianci di Libertà di Espressione e inalberi i suoi cartellini "Je suis Charlie". Quando qualcuno alza un cartello con scritto "Je suis NO TAV", e lo alza indicando magari una forma di lotta concreta, Charlie va immediatamente in soffitta.

Magari, ad un PM Rinaudo che concede benevolmente a Erri De Luca le attenuanti generiche per il "comportamento processuale" e perché "non si è mai tirato indietro", sarà sfuggito che il De Luca medesimo, con la sua assunzione diretta di responsabilità, esattamente questo ha voluto: focalizzare l'attenzione, per quanto gli è stato possibile, sui meccanismi del regime e sull'azione dei suoi rappresentanti istituzionali (in questo caso giudiziari). Si tratta, peraltro, di un procedimento elementare: col proprio comportamento e con la conclamazione della precisa responsabilità diretta, il processo viene rovesciato. Viene messa a giudizio una componente della magistratura totalmente asservita ad interessi nei quali non è più possibile distinguere il pubblico dal privato. 

E' normale che Erri De Luca si sia dichiarato stupito che, nei suoi confronti, non sia stato richiesto il massimo della pena. L'ironia squisita di tale affermazione è mirabile, in quanto mette in luce anche un'altra componente di tutta la vicenda: l'imbarazzo estremo che deve avere pur colto un PM Rinaudo che, da un lato, si ritrova a dover mandare avanti un procedimento tanto iniquo quanto assurdo e, dall'altro, cerca di mitigare le richieste facendo i salti mortali per salvare capra e cavoli. E Erri De Luca, ne sono certo pur non conoscendolo di persona (né mai mi capiterà di farlo), se la ride sotto i baffi. Certo che avrebbe voluto il massimo della pena, ma vanno bene anche otto mesi per far sì che l'Italia abbia il privilegio di aver condannato alla galera un alpinista (e scrittore) di fama internazionale perché ha incitato a sabotare e a tagliare le reti di un cantiere.


In conclusione, però, ci sarebbe da fare una cosa, oltre ad esprimere una naturale solidarietà nei confronti di Erri De Luca. La solidarietà, beninteso, è cosa assai comoda e pure un pochettino vuota se non si è pronti ad assumersi altrettante responsabilità; nel mio minuscolo piccolo, so che cosa voglia dire essere mandati a processo per qualcosa che si è scritto e/o affermato. 

Cozzerebbe quindi contro quei princìpi di elementare prudenza dei quali parlavo prima, princìpi che stabiliscono la propria vita sotto una forma di tirannia e la precisa coscienza di essa, dichiararsi solidale con quanto affermato da Erri De Luca e per il quale è stato processato. Cozzerebbe sì, e che cozzi pure. Non potrebbe d'altronde esservi alcuna forma di solidarietà senza dichiararsi del tutto consapevolmente e senza remore solidale con quanto espresso da Erri De Luca; sappia dunque, chi intenda eventualmente riprendere queste parole, due cose. La prima è, naturalmente, che si espone a problemi di non lieve entità; il qui presente ha, a suo tempo, trovato un magistrato che si è sentito in dovere di rinviarlo a giudizio per avere espresso giudizi pesanti su un personaggio pubblico, e non potendo contare su una qualche forma di notorietà consolidata, bensì su un semplice blog qualsiasi. La seconda è che dire "Je suis" significa, o dovrebbe significare, un'adesione nel proprio essere. "Je suis" significa "io sono", ed il verbo "essere" non è un verbo di poco conto. O si è, o non si è. Vous êtes quoi? Che cosa siete? Charlie? Erri? Paolino Paperino? Qualunque cosa, o chiunque, scegliate di essere, presuppone che non lo siate, e che non lo siamo, per la durata di un momento o di una facile ondata emozionale. Presuppone una scelta di campo e presuppone anche dei fanatici armati o un pubblico ministero torinese. Altrimenti non si è proprio un bel niente.

lunedì 24 agosto 2015

Dieci cose che non esistono (1)

Poiché, sebbene ancora per non molto, è agosto e "non si lavora, agosto, nelle stanche, tue dolci oziose ore", oggi mi son detto: passiamo un po' in rassegna dieci cose che, palesemente, non esistono. Che le cose che vado ad elencare siano del tutto inesistenti, è in realtà talmente evidente che non ci sarebbe alcun bisogno di soffermarsi eccessivamente su di esse; tutti sanno che non ci sono e che sono, a vario titolo, invenzioni belle e buone. Si tratta quindi di nient'altro che di una sorta di promemoria che, spero, potrà comunque risultare di una certa quale utilità; in questa prima parte troverete le prime cinque (la seconda parte sarà pubblicata verso Natale). Nota. Il riferimento a "via Vaiarini" contenuto al punto 1. si riferisce ad una via della città di Piacenza, dove mi trovavo all'inizio di questo post; ora sono tornato a Firenze.

1. La Via Francigena. Da un po' di tempo tutta l'Italia è infestata da cartelli (corredati da immagini di pellegrini, croci varie ecc.) che indirizzano verso una non meglio precisata "Via Francigena", che dovrebbe essere un antico percorso verso il santuario di Santiago de Compostela. Santiago de Compostela, come tutti sanno, è situato in Galizia, nel nord-ovest della penisola Iberica; esiste peraltro un autentico Camino de Compostela che diversi sconsiderati, persino atei incalliti e bestemmiatori inveterati, intenderebbero farsi a piedi per passare le famose vacanze alternative. Tale cammino, però, segue perlomeno un dato percorso lineare, ha un tracciato, ha un inizio e una fine; la "via Francigena", invece, non si sa esattamente da dove passi. O meglio: passa ovunque. In Italia la si ritrova in innumerevoli pezzetti, tutti segnalati da cartelli, serissimi convegni, sedicenti rifugi, paesini più o meno medievali, sagre e quant'altro. Si ritrova la via Francigena in una zona industriale di Gallarate, un pezzo è alla periferia di Udine tra un supermercato Carrefour e l'Agenzia delle Entrate, da dove passa direttamente nelle Marche incrociando la Scorrevole di Macerata. Altri pezzi vari sono in solitarie stradette nella campagna senese, dove i contadini, quando non sanno che fare, prendono il viottolo che di solito utilizzano per concimare i campi e lo francigenizzano all'istante (trasformando ovviamente il capanno degli attrezzi in antica stazione di ristoro). Un pezzo di Francigena si trova all'entrata della città di Piacenza vicino al supermercato "Il Gigante" (antica figura di tempi oscuri che terrorizzava i pellegrini; un altro pezzo è in realtà la via Giosuè Carducci di Valmontone (Roma), dove si trova una panetteria che fa affari d'oro proponendo la "focaccia der pellegrìno" (euro 12,40 al chilo). A tutto ciò sono usualmente associati inesistenti pellegrini medievali il cui nome deve obbligatoriamente terminare in -rico (Sigerico, Federico, Portorico, Chicchirico ecc.), che vagano da dieci secoli circa essendosi chiaramente smarriti e che meditano oramai di prendere un volo Ryan Air. Si deve ammettere che l'invenzione della "via Francigena" è comunque geniale; tutti si possono fare la propria Francigena, ora scendo un attimo e vado a farmene una in via Vaiarini (richiedendo naturalmente i relativi finanziamenti e organizzando all'istante un convegno su "Via Vaiarini come cardine teologico-mistico-numerologico della Francigena, con collegamenti ai Templari, a Rennes-le-Château e chiamando immediatamente Voyager).

2. Salvini. Salvini è un ologramma realizzato dall'azienda Holoimage Inc. di Newcastle-Upon-Tyne per conto dell'Ufficio Marketing del Partito Democratico Srl. La realizzazione dell'ologramma, commissionato nel 2009 dall'allora syndaco di Fyrenze, Matteo Renzi, ha richiesto approfonditi studi interdisciplinari per raggiungere al momento opportuno il risultato ottimale. Per la creazione dell'ologramma Salvini sono stati consultati manuali di botanica (con speciale attenzione alle Scrofulariacee), dimenticati romanzi orrorifici e gotici del XVIII secolo irlandese, rassegne commerciali di premiate salumerie brianzole, disegni tecnici di varie reti fognarie europee, accurate descrizioni delle punizioni corporali applicate tra il 1648 e il 1752 nel Principato di Seborga, intere collezioni di fumetti pornografici degli anni '70 ("Lando", "Er Tromba", "Corna Vissute") e di "Cronaca Vera", catechismi popolari, ecc. Ottenuta finalmente l'immagine e realizzato il prototipo dell'ologramma (testato in vari consigli comunali milanesi, formati peraltro generalmente anch'essi da ologrammi), si è passati alla realizzazione dei gadgets, tra i quali le famose felpe con sopra scritto il nome di 892.000 località italiane da Aosta a Capo Passero. La creazione dell'ologramma Salvini si è rivelata un asso nella manica per Matteo Renzi, l'attuale Primo Ologramma della Repubblica Italiana (a sua volta creato dalla concorrente azienda Oicchéttuffài di Rinyan-Upon-Arnow). Ultimamente, all'ologramma Salvini sono stati aggiunti altri divertenti gadgets (le ruspe, i campi rom ecc.). L'ologramma Salvini verrà fatto scomparire tra un paio d'anni durante un divertente convegno organizzato alla Stazione Leopolda di Fyrenze, previa sua proiezione sulla Cupola del Brunelleschi con addosso una felpa con scritto "CYGNALE".

3. Il degrado. Avete mai vissuto non dico in un paesino, ma in una cittadina svizzera? Io sì, e anche per non pochissimo tempo. Ricordo la mia reazione il giorno dopo che ero tornato a Firenze in pianta stabile: avevo preso l'autobus (il 17 per la precisione) per recarmi da qualche parte, e mi ritrovai in un ingorgo micidiale in via della Scala (che non è quella della famosa canzone di Stefano Rosso, quella del Letto 26). Ricordo con commozione il piacere che mi prese in mezzo al puzzo, ai claxon, allo zozzume; non riuscivo a capacitarmi come la gente fosse così nervosa, mentre io mi godevo beato il ritorno alla vita. Giunsi quindi alla conclusione, fin da allora, che il cosiddetto "Degrado" (parola-cardine del sistema di controllo) fosse del tutto inesistente. Ciò che va sotto il nome di "degrado" è la normale e necessaria condizione delle aree urbane, naturalmente commisurato alla loro estensione e alla loro importanza (storica, artistica, sociale, culturale). Una città viva ha da essere sporca, incasinata, bugliolesca, briaca, irrespirabile. Deve essere insicura e averci le sue zone che fanno paura e dove non è consigliabile recarsi di notte. I muri devono essere pieni di scritte, perché le scritte sui muri sono voce assai più dei social networks. Le strade devono averci le loro buche nell'asfalto che ti rovinano le sospensioni della sacra macchinina. Ci dev'essere una congrua quota di piromani pazzi che ti bruciano il SUV. Devono essere piene di gente di ogni razza e colore e puzzare non solo di smog, ma anche di cibi indigeribili, in culo all'Expò. Ci devono essere gli eroi e gli antieroi. Ci dev'essere il letame da cui nascono i fior. I cumuli di bottiglie di birra e di altri alcolici, spesso vere e proprie opere d'arte effimera. Che palle le "città vivibili" e le classifiche del benessere dalle quali risulta che si vivrebbe meglio in qualche anodina città australiana che a Roma o a Napoli. Ma avete presente Roma e Napoli? Io preferirei centomila volte vivere a Palermo piuttosto che a La Chaux des Fonds. Al Cairo piuttosto che a Zurigo. A Istanbul piuttosto che a Sondrio. Il "degrado" non esiste; l'unica cosa veramente degradata è la testa di chi ci crede. Mantieni davvero la città pulita: spara agli Angeli del Bello e metti vinaccio nei fontanelli dell'acqua di qualità, che fa veni' le rane. Prima di tutto perché gli angeli, anche loro, non esistono; e poi perché il Bello è ben altra cosa. Nella Firenze rinascimentale, quella di Michelangelo e del Brunelleschi, si rovesciavano merda e piscio per le strade direttamente dalle finestre, e si affogava dal puzzo. Ogni tanto certi topastri portavano qualche salutare pestilenza che regolava la popolazione e faceva rifiorire l'economia. Ah, les pestilences d'antan!

4. Lo Spirito Santo. Qualche tempo fa chiamavo questo blog "Blogghino di periferia"; tanto ho fatto, che sono riuscito a trasformarlo in qualcosa che ha oltrepassato la periferia. Mica ci ho da dire più nulla, anche se in omaggio alla tradizione mantengo gli ammennicoli coi tiratori di sampietrini, con Guy Fawkes e con gli anarchici. Figuriamoci quindi se mi va di affrontare questioni come l'esistenza o l'inesistenza di Dio, tanto per fare un esempio. Però, di una cosa continuo ad essere certo: lo Spirito Santo non esiste. Capisco che sia stato messo lì per fare numero, 3 è il numero perfetto e Terence Hill lo chiamavano Trinità, mica Unità o Duità. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo: ma vogliamo babbiare? Sarebbe come dire il Padre, il Figlio e la Cugina (non c'è cosa più divina, del resto). A tale riguardo, in via eccezionale, mi permetto di raccontare una barzelletta che molti, del resto, conosceranno. Gesù e gli Apostoli sono a cena (non l'ultima, chiaramente) assieme alla Madonna. A un certo punto, del tutto inaspettato, dall'Alto de' Cieli piomba un salamino sul tavolo. San Pietro lo prende, lo esamina, lo passa agli altri Apostoli e infine a Gesù Cristo. "Che cos'è, Maestro?", chiedono tutti? Gesù lo osserva ancora e sentenzia: "Non lo so.". Sconcerto. A quel punto la Madonna lo prende, lo tocca, lo scruta e infine proclama: "Non lo so nemmeno io; però, se non fosse per lo spago, somiglierebbe tanto allo Spirito Santo..."

5.  I Vostri Marò. Confesso: per un certo periodo ho pensato anch'io che i Vostri Marò (miei non sono in ogni caso) esistessero per davvero. Ho cominciato ad avere dei seri dubbi quando li ho visti raffigurati sempre nella medesima posizione, con un'espressione più immobile di quella di Christopher Lambert in "Nirvana", e la cosa mi è finalmente apparsa chiara: li hanno fatti tutte e due col Pongo. Mi direte senz'altro: O bravo, però quei due poveri pescatori indiani sono stati ammazzati sul serio. Non so come si andata, e lo dico con la morte nel cuore; e, non amando i complottismi, non so nemmeno chi abbia loro sparato. Magari saranno stati un paio di perfidi Marines, ché "Liberate i nostri Marines" suona pure meglio e poi dev'essere sempre colpa degli americani. Sempre col nostro complesso di inferiorità: abbiamo preso tali Thetower e Bigturn e li abbiamo italianizzati in "Latorre" e "Girone". La certezza l'ho avuta quando ho sentito un tizio che dice faccia il "governatore della Liguria" (e che è la Liguria, un territorio dell'Ovest...?), tale Giovanni Toti, che candidamente parlava dei "Tre Marò"; qualcuno gli ha risposto opportunamente di andare a fare delle campagne di sensibilizzazione a Venticinquemiglia e nelle Sei Terre. A questo punto si potrebbe pure ipotizzare che i due pescatori indiani siano ancora vivi, e lo volesse lo Spirito Santo (vedi punto 4). Restano naturalmente ignoti i motivi per cui sia stata orchestrata tutta la faccenda; ma, del resto, siamo nel Paese dove restano ignoti i motivi per cui cascano aeroplani vicino alle isolette, saltano in aria treni, banche e stazioni, eccetera, eccetera...

(1. Continua)




domenica 16 agosto 2015

Il sedici di agosto, sul far della mattina



«Signori giurati, non è la mia difesa che vi voglio esporre, ma una semplice esposizione del mio atto. Dopo la mia prima giovinezza, ho cominciato a conoscere che la nostra Società è mal organizzata e che tutti i giorni ci sono degli sfortunati che, spinti dalla miseria, si suicidano, lasciando i loro figli nella più completa miseria. A centinaia e centinaia, gli operai cercano lavoro e non ne trovano: invano la loro povera famiglia richiede del pane e durante il freddo, soffre la più crudele miseria. Ogni giorno i poveri figli domandano alla loro sfortunata madre del pane che quest’ultima non può dare loro, perché a lei manca di tutto: i vecchi abiti che si trovavano in casa sono stai giù venduti od impegnati al Monte di Pietà: sono allora ridotti a chiedere l’elemosina ed il più delle volte vengono arrestati per vagabondaggio. Quando tornavo al paese dove sono nato, è là soprattutto dove spesso mi mettevo a piangere, vedendo dei poveri bambini di appena otto o dieci anni, obbligati a lavorare 15 ore al giorno per la miserabile paga di 20 centesimi: dei ragazzi di 18 o 20 anni o delle donne in età più avanzata, lavorare ugualmente 15 ore al giorno, per un paga irrisoria di 15 soldi. E questo succede non solo ai miei compatrioti, ma a tutti i coltivatori del mondo intero. Obbligati a restare tutto il giorno sotto i raggi di un sole cocente, e mentre col loro lavoro ingrato, producono il sostentamento per migliaia e migliaia di persone, non hanno, tuttavia, mai niente per loro stessi. Sono per questo obbligati a vivere nella miseria più dura ed il loro nutrimento giornaliero consiste in pane nero, in qualche cucchiaiata di riso e dell’acqua, per cui arrivano a malapena all’età di 30 o 40 anni sfiniti dal lavoro, muoiono negli ospedali. Inoltre, come conseguenza di questa cattiva nutrizione e dell’eccessivo e faticoso lavoro, questi sfortunati, a centinaia e centinaia, finiscono per morire di pellagra, una malattia che i medici hanno riconosciuto colpire coloro che nella vita, sono soggetti a cattiva nutrizione ed a numerose sofferenze e privazioni. Riflettendo io mi dicevo che se ci sono tante persone che soffrono di fame e di freddo, e vedono soffrire i loro piccoli, non è per mancanza del pane o dei vestiti: poiché io vedevo numerosi e grandi negozi pieni di vestiti, di stoffe e di tessuti di lana: come dei grandi depositi di farina, di granoturco e frumento, per tutti quelli che ne hanno bisogno. Mentre, d’altra parte vedevo migliaia e migliaia di persone che non facendo nulla e non producendo nulla, vivono sul lavoro degli Operai, spendendo tutti i giorni migliaia di franchi per i loro divertimenti ed i loro piaceri, deflorando le ragazze del povero popolo, possedendo dei palazzi di 40 o 50 camere, 20 o 30 cavalli, numerosi domestici, in una parola tutti i piaceri della vita. Ahimè! come soffrivo vedendo questa Società così mal organizzata!... e molte volte maledicevo coloro che accumulavano i loro patrimoni, che sono attualmente alla base di questa ineguaglianza sociale. Quando ero un ragazzo, mi hanno insegnato ad amare la patria ma quando ho visto migliaia e migliaia di operai lasciare il loro paese, i loro cari figli, le loro mogli, i loro genitori, nella più spaventosa miseria, ed emigrare in America, in Brasile, o in altri paesi, per trovare il lavoro, è allora che mi sono detto: “La Patria non esiste per noi poveri operai: la Patria per noi è il mondo intero. Coloro che predicano l’amore per la patria, lo fanno perché qui essi trovano i loro interessi ed il loro benessere. Anche gli uccelli difendono il loro nido, perché lì si trovano bene.” Io credevo in un Dio, ma quando ho visto tale disuguaglianza fra gli uomini, è allora che ho riconosciuto che non è Dio che ha creato l’uomo, ma sono gli uomini ad aver creato Dio: non come dicono quelli che hanno interesse a far credere all’esistenza di un Inferno e di un Paradiso, nell’intento di far rispettare la proprietà individuale e per mantenere il Popolo nell’ignoranza. Per questo motivo sono diventato ateo. Dopo gli avvenimenti del primo maggio 1891, cioè quando tutti i lavoratori del mondo domandavano una festa internazionale, tutti i Governi, non importa di quale colore, sia i monarchici che i repubblicani, hanno risposto con dei colpi di fucile e con la prigione: causando dei morti e dei feriti in gran numero, così come numerosi incarcerati. È a partire da questo anno che sono diventato anarchico, perché ho constatato che l’idea anarchica corrisponde alle mie idee. È fra gli anarchici che ho trovato degli uomini sinceri e buoni, che sapevano combattere per il bene dei lavoratori: fu così che cominciai a fare della propaganda anarchica, e non ho tardato a passare dalla propaganda ai fatti, considerato ciò che abbiamo avuto dai Governi. Non è tanto che mi trovo in Francia, e tuttavia questo tempo mi è stato sufficiente per riconoscere che tutti i Governi sono uguali. Ho visto i poveri minatori del Nord, che non prendevano una paga sufficiente per le loro famiglie, protestare contro i loro padroni, facendo lo sciopero: dopo una lotta di più di tre mesi, sono stati obbligati a riprendere il lavoro con la stessa paga, avendo bisogno di mangiare. Ma i Governanti non si sono occupati di queste migliaia di minatori, perché essi erano occupati in grandi banchetti ed in grandi feste date a Parigi, Tolone e Marsiglia, per l’alleanza fra la Francia e la Russia. I deputati hanno dovuto votare delle nuove tasse, per pagare i milioni di franchi spesi per quelle feste, e questi qui hanno venduto le loro penne e le loro coscienze alla borghesia (intende dire i giornalisti) scrivendo dei bellissimi articoli per far credere che l’alleanza fra la Francia e la Russia avrebbe portato grandi benefici per i lavoratori; nel frattempo noialtri poveri lavoratori ci troviamo sempre nella stessa miseria, obbligati a pagare delle nuove tasse, per saldare il conto di queste grandi feste dei nostri governanti. E se poi noi domandiamo del pane o del lavoro, ci rispondono con dei colpi di fucile e con la prigione, com’è capitato ai minatori del Nord, ai coltivatori della Sicilia, ed a migliaia d’altri. Non è da molto che Vaillant ha lanciato una bomba alla Camera dei Deputati, per protestare contro questa infame Società. Egli non ha ucciso nessuno, non ha ferito nessuno, e malgrado ciò, la Giustizia borghese l’ha condannato a morte: non soddisfatti d’aver condannato il colpevole, cominciano a dare la caccia a tutti gli anarchici, arrestando a centinaia coloro che non avevano neanche conosciuto Vaillant, colpevoli unicamente di aver assistito ad una conferenza, o di aver letto dei Giornali o dei volantini anarchici. Ma il Governo non pensa che tutta questa gente ha mogli e bambini, e che durante il loro arresto e la loro detenzione in prigione per quattro o cinque mesi, seppure innocenti, non sono i soli a soffrire: [il Governo] non ha figli che chiedono del pane. La Giustizia borghese non si occupa di questi poveri innocenti, che non conoscono ancora la Società e che non sono colpevoli se il loro padre in trova in prigione: essi non domandano altro che di mangiare quando hanno fame, mentre le mogli piangono i loro mariti. Si continua dunque a fare delle perquisizioni, a violare il domicilio, a sequestrare giornali, volantini, la stessa corrispondenza, ad aprire le lettere, ad impedire le conferenze, le riunioni, ad esercitare la più infame oppressione contro noi anarchici. Oggi stesso stanno in prigione in centinaia, per aver tenuto nient’altro che una conferenza, o per aver scritto un articolo su qualche giornale, o per aver esplicitato idee anarchiche in pubblico: e sono in attesa che la Giustizia borghese pronunci le loro condanne per Associazione a delinquere. Se dunque i Governi impiegano i fucili, le catene, le prigioni, e la più infame oppressione contro noi anarchici, noi anarchici che dobbiamo fare? Cosa? Dobbiamo restare rinchiusi in noi stessi? Dobbiamo disconoscere il nostro ideale che è la verità? No!... Noi rispondiamo ai Governi con la Dinamite, con il Fuoco, con il Ferro, con il Pugnale, in una parola con tutto quello che noi potremo, per distruggere la borghesia ed i suoi governanti. Emile Henri ha lanciato una bomba in un ristorante, ed io mi sono vendicato con il pugnale, uccidendo il Presidente Carnot, perché lui era colui che rappresentava la Società borghese. Signori Giurati, se volete la mia testa, prendetela: ma non crediate che prendendo la mia testa, voi riuscirete a fermare la propaganda anarchica. No!.. Fate attenzione, perché colui che semina, raccoglie. Quando i Governi cominciarono a fare dei martiri (vi voglio parlare degli impiccati di Chicago, dei garrotati di Jerez, dei fucilati di Barcellona, dei ghigliottinati di Parigi) le ultime parole pronunciate dagli stessi martiri, intanto che andavano alla morte, furono queste: “Viva l’Anarchia, Morte alla borghesia”. Queste parole hanno attraversato i mari, i fiumi, i laghi: sono entrate nelle città, nei paesi, e sono penetrate nelle teste di milioni e milioni d’operai, che oggi si ribellano contro la Società borghese. È la stessa massa di lavoratori che finora si sono lasciati guidare da coloro che si proclamano partigiani delle otto ore di lavoro, della festa del 1º maggio, delle Società operaie, delle Camere sindacali, e da altre mistificazioni, che hanno servito solamente le loro ambizioni, per farsi nominare Deputati o Consiglieri Municipali, con la mira di poter vivere bene senza fare nulla. Ecco i Socialisti!... Ma essi hanno finito ora per riconoscere che non sarà che una rivoluzione violenta contro la borghesia, che potrà riconquistare i diritti dei lavoratori. Quel giorno, non ci saranno più gli operai che si suicideranno per la miseria, non ci saranno più gli Anarchici che soffriranno la prigione per anni e anni, non ci saranno più anarchici che saranno impiccati, garrotati, fucilati, ghigliottinati: ma saranno i borghesi, i Re, i Presidenti, i Ministri, i Senatori, i Deputati, i Presidenti delle Corti d’Assise, dei Tribunali, ecc. che moriranno sulla barricate del popolo, il giorno della rivoluzione sociale. È da lì che splenderanno i raggi d’una Società nuova, cioè dell’Anarchia e del Comunismo. Sarà solamente allora che non ci saranno più né sfruttati, né sfruttatori, né servi, né padroni: ciascuno darà secondo la propria forza e consumerà secondo i propri bisogni».

Sante Ieronimo Caserio.
Motta Visconti (Milano), 8 settembre 1873
Lione (Francia), 16 agosto 1894.

domenica 26 luglio 2015

Las aventuras de don Venturas y Esventuras sobre el Nueve. Romance pìcaro y crònicas del año 1615.

Don Venturas y Esventuras esperando el Nueve bajo el sol. Imagen del año 1615.
En un barrio de Florencia de cuyo nombre no quiero acordarme, però que quizàs se llama Isoloto, vivìa un hombre que habìa sido, un tiempo, un gran caballero. Su nombre era don Ricardo de Venturas y Esventuras, y después de haber guidado docenas y docenas de automòviles, ambulancias, camiones, bicicletas y persìn un tren, en su decadente maturidad que menaba a la vequiaja se habìa retrobado sin autovehìculos y, por eso, estaba obligado de servirse de los servicios de autobuses urbanos de la ciudad, y en particular de la lìnea que se desarrollaba en su barrio olvidado por Dios y por los hombres: la lìnea 9, dicha familiarmente El Nueve. La presente historia se esvolge en el terrible verano del '15 (1615, naturalmiente), en que la temperatura alcanzaba cada dìa puntas de cuarenta grados a la sombra, y no habìa sombra especialmiente a las fermadas de la parte màs profunda y lejana del barrio donde nuestro caballero habitaba: el Argin Grueso. Tràtase, estimadas lectrices y honrados lectores, de una especie de romance pìcaro que ocurrìa praticamiente cada dìa que Dios meteba en tierra, y que dejaba a don Venturas y Esventuras, como él mismo solìa decir, motorizado a piè -y también alcuanto encazado aunque con la paciencia y la resignaciòn que le promanaban de su edad avanciada. Però bando a las chanchas y vamos ver como se pasaba, en el barrio del Isoloto, la vida de los desgraciados utente del servicio de autobuses y de transportes florentinos en aquel tiempo muy remoto y oserey decir remotìsimo.

  1. El Nueve y la ATAF. Introducciòn històrica.

El Nueve, es decir la lìnea 9 del bus urbano florentino, tenìa un pasado muy glorioso desde quando el barrio del Isoloto habìa sido construido por impulso de un mìtico alcalde cuyas vicisitudes se pierden en la leyenda: don Jorge la Pira, santo hombre a quien algunos lo llamabam “El comunista de Dios”. Con grandes autobuses biplanos de color vierde olivo, el Nueve colegaba el Isoloto con la Estaciòn ferroviaria de Florencia, y con frecuencias muy elevadas desde las primeras luces de la mañana hacia la medianoche pasada. Era una instituciòn en aquel barrio popular, que los otros florentinos consideraban como una especie de Bronx y que habrìa visto en el Sesenta y Ocho (1568, obviamiente) luchas considerables también por parte de un pàroco de la iglesia local, don Mazos y Mazos, hombre muy ilustrado a quien los fascistas interrumpieron la misa de la Navidad y que estaba ostejado por las hierarquìas de la curia florentina. El Nueve acompañò a las viciendas del Isoloto hacia el año '10 (1610, va por sì), cuando inauguròse -después unos siglos de construcciòn- la famosa tranvìa, un tren urbano que colegaba la Estaciòn ferroviaria de Santa Marìa Novela al suburbio de Escandichos. La tranvìa relegò al pobre Nueve a la muy baja calidad de bus de barrio, servicio interno en funciòn de la tranvìa que partìa de la plaza Batones (una de las plazas màs feas y encasinadas de la ciudad) y terminaba en la calle de Lucca en correspondencia de otra fermada de la tranvìa, la Federiga (la mano amiga).


El Nueve en la plaza Batones, en la noche obscura de tiempos remotos.

Todo esto se pasaba en un momento muy particular de la historia de los transportes florentinos: la fìn del verdadero servicio pùblico. Era una época donde todo se privatizaba en el sector de los transportes: autobuses urbanos y extraurbanos, trenes, estaciones, autistas, tranvìas, metropolitanas. Especialmiente ciertos ex compagneros, recién convertidos a la filosofìa de mercado y al liberismo màs esfrenado, habìan decidido que los transportes urbanos no debìan servir al transporte de la gente, sino a hacer dinero y ganar provechos. Fue asì, por ejemplo, que otro famoso alcalde de Florencia, don Mateo Rienzos (dicho “El cázaro de Riñano” - y asì lo llamaremos en la continuaciòn de nuestra historia), decidiò que la ATAF debìa ser privatizada y vendida al mejor oferente. Presentando la cosa, al sòlitos, como “amejoraciòn y optimizaciòn del servicio por el bien del pueblo”, y otras estronzadas del género a las cuales dicho pueblo creìa sin oponerse, El cázaro de Riñano (no obstante una lucha muy blanda por parte del personal de la ATAF) logrò finalmiente privatizar la ATAF, que se volviò en la Acienda Trufaldina de Autotransportes Florentinos. Una enculada clamorosa pasada bajo la sonrisa de los pecorones, es decir el 96% de la poblaciòn de Florencia; però que dichos pecorones se acorgieron muy temprano del trafuero del Fréjus que El cázaro de Riñano les habìa escavado en el didietros, y muguñaban como siempre muguñan las favas, sin hacer nada de nada a parte borbotar o esbraitar putanadas en la calle (y sobre el bus), opures declarar de votar para doña Melòn o para don Salviños de la Panza.

¿Qué se pasò con la privatizaciòn de la ATAF? Tallos de personal y de lìneas. Horarios indecientes. Amenazas a los dependientes en esciòpero. Disservicios en continuaciòn. Aumientos de los billetes. Controles salvajes y agresivos y autistas que guidan como rinocerontes en calor, y constantemente ocupados en conversaciones con sus Esmartòfonos de mierda y con cufietas en las orejas (un tiempo estaba escrito en los autobuses: “No hablar al conduciente”). El pobre Nueve del Isoloto, una vez el orgullo del barrio, tuvo que padecer particularmiente de esta “optimizaciòn” en el nombre del provecho, y en una época en la cual el barrio se habìa volvido en un dormitòrio lleno de ancianos bavosos (¡y que Dios se los tome una buena vez!) y que, la tarde y la noche, estaba màs muerto de un cimiterio en el més de noviembre.

  1. Narra don Venturas y Esventuras. Un dìa estàndar sobre el Nueve, con particular atenciòn a los domingos de verano.

Narra en su diario telemàtico (o blogue) don Venturas y Esventuras, gran caballero en la condiciòn de peòn y utiente cotidiano del Nueve, que en el muy caliente verano del '15 la situaciòn estaba la siguiente:

“Queridìsima lectriz, muy ilustre lector, si la mala suerte y un destino cìnico y baro te llevare un dìa al capolìnea del Nueve en la plaza Batones, al limitar del barrio del Isoloto, tienes que saber algunas cosas y, sobretodo, espetarte lo que sigue abajo.

En este domingo de verano del año del Señor 1615, cuatro personas, circa a las diez de la mañana, atendìan el Nueve a la fermada Argin Grueso 04. El Argin Grueso es la parte màs desierta del barrio, una sequela de casermones, cuya poblaciòn tiene la idad media de setenta y cinco años. Bajo el sol implacable atendìamos el Nueve qua no pasaba, però que eso es muy normal: en los domingos de verano, la optimizaciòn privatizada ha decidido que hayan solo tres corsas a la hora, y por lo resto, y literalmente, atàcate al tram. La corsa atendida, però, no pasaba y no pasaba. El tabelòn electrònico de la fermada, a un cierto punto, ha comienzado a decirnos que aùn faltaban 29 minutos.

Todos hemos pensado a la célebre Constante del Argin Grueso. Tràtase de una complicadìsima formula fìsico-matemàtica, un càlculo que habrìa metido en gran dificultad también a los muy cienciados y ilustres matemàticos moros, por la cual el Nueve pasa siempre en antìcipo o en retardo sobre la tabela horaria que la ATAF ataca a las fermadas de la longuìsima calle del Argin Grueso – tabela que, como Vuestras Mercedes pueden imaginar, es poco menos que carta estracha. Calcular cuando debes ir a la fermada para tomar el Nueve (también basàndote sobre las tabelas horarias publicadas en el sitio Internético de la ATAF) pertenece a lo fantàstico y al imaginario; si, por ejemplo, la tabela dice que el Nueve va pasar a las 10,04, puedes estar cierto que o està ya pasado cinco minutos antes porque los autistas no paran a las fermadas desiertas de aquel osmanoro, o que va pasar diez minutos después porque el autista està tomando un cafè o està hablando al capolìnea con su morosa, su mamà, su amigo o con la mujer de su amigo que jela dà de escondido. El càlculo de la Constante del Argin Grueso es aleatorio y pertenece al càlculo de las probabilidades, una disciplina que los isolotinos y especialmiente los habitantes del Argin Grueso no estàn muy capables de entender; y asì, madre de Dios, bisoña andar completamiente a casacho. Minutos antes o minutos después, es lo mismo. Pero, esta mañana de domingo, el nueve no pasaba y la media hora ha sido una media hora verdadera. Se habìa pasado, como hemos aprendido después, que un nuevísimo y estrombazadísimo autobus que hacìa servicio por el Nueve se habìa roto, guastado, capute como dicen los Alemanes. Y el tabelòn electrònico de la fermada, ¿que hacìa? Nada. Decìanos sus veinte y nueve minutos del cazo y publicizaba nùmeros verdes, app, sitios y otras maravillas de este mundo moderno, que no sirven a una siega cuando estàs bajo el sol de julio, puerca zòcola. Bastaba decirnos: el bus se ha guastado y arranjàtevos. Nada. Y hay que tenir cuenta que no todas las fermadas tienen el tabelòn: los otros que esperaban al Nueve a las otras fermadas sin tabelòn, no sabìan nada de nada. Ni tampoco los 29 minutos.

Piensas que es todo? Ma manco por esta minquia. Los saltos de cuersas son la normalidad sobre el Nueve: buses que no pasas jamàs, supresiones incògnitas, bestemias en continuaciòn bajo el calor del verano y el frìo del invierno. Autistas que no tienen jamàs medias misuras: o van como lumacas y te hacen perder la concidencia con la tranvìa a plaza Batones, o guidan que parecen al autòdromo de Monzas y frenan a los semàforos rojos o a las fermadas hacièndote espatacar por la tierra a menos que no seas ecuilibrista. Otra constante, y la he experimentada yo mismo parequias veces, es cuando estàs a la fermada de tu Argin Grueso y ves al Nueve que arriba: te esbrachas, te haces ver claramente, llamas, cantas, haces capriolas, y nada. El autista te ignora alegramente y pasa por antes a velocidad de Eschumàquer. Y aloras ves como es necesario, por ejemplo, siempre portarte un libro o la Semana Enigmìstica si tienes que tomar el Nueve: podrìas esperarlo el tiempo necesario para leerte un buen capìtulo del Quijote del gran caballero de Cervantes. Esta es la situaciòn con el Nueve, queridísima lectriz, muy Señor mìo lector; y estos son los lindos resultados de la privatizaciòn. Las lìneas de los barrios populares estàn en la mierda total y sesquipedal, y el pueblo ignorante y chuco tiene que arranjarse porqué, tanto, la cuelpa està siempre y comunques de los gitanos, de los negros y de los àrabes y que hay que votar para don Salviños (como he oìdo muchas veces proprio sobre el Nueve, junto con làstimas y dolencias agras para El cázaro de Riñano, el mismo que todos habìan votado porque es el àngel del bello, pedonaliza dos plazas del cientro y construye los fontanellos de agua de calidad al amianto). Y aùn no he hablado de la trufa de las trufas, a la que hay que dedicar un capituleto entiero. Oye ahora.”

  1. Narra don Venturas y Esventuras. La trufa del Nochetiempo.

Narra ancoras don Venturas y Esventuras: “Debes saber, delicadìsima lectriz, muy destacado lector, que, con la privatizaciòn de la ATAF y la restructuraciòn y optimizaciòn de las lìneas, los habitantes que no tienen el coche por necesidad, por escelta o por acidente, estàn condenados a horarios de segunda media si quieren sortir la tarde. Tomemos el Nueve, por ejemplo: una de las primeras medidas de la ATAF, no contenta de todo el resto, ha sido hacer terminar las corsas del Nueve a las horas 22,05. Antes, el Nueve corrìa hacia la medianoche; ahora, si pierdes la ùltima corsa de las 22,05, tienes que hacer dos cosas: o quedas a tu casa y guardas la televisiòn, muy instructiva y democràtica, opures tienes que marchar. Batones-Argin Grueso hacen dos quilòmetros y medio, y tienes que hacértelos a zampas, o fettones como prefieres. Bajo todo tiempo: llueva, caya la nieve, florezca la primavera, tire el viento del otoño o haga un calor de la madona en el verano. Y lo mismo vale para todas las otras lìneas: la ATAF privatizada no solo ha suprimido las ùltimas corsas de la mayorìa de las lìneas, sino también las tres lineas nocturnas que tocaban varios puntos de la ciudad. Ramos secos. Pèrdida. Falta de provecho. Pacto de estabilidad. Tallos y restructuraciones. Però, ècote el colpo de genio: el Nochetiempo.

El Nochetiempo. La mujer que monta era la fidanciada de autista, cansada de que su novio sempre andase con la Federiga en la noche.

El Nochetiempo es el “servicio” que deberìa substituir las ùltimas corsas nocturnas de muchìsimas lìneas y las antiguas lìneas nocturnas: un “servicio a llamada”, con billete a 4 doblones en lugar de los 1,20 del servicio normal, en base al cual ocorre llamar, come dicen los avisos, un nùmero telefònico (055.5650555) con media hora de preaviso, registrarte, prenotar y recarte a ciertas fermadas (Batones por ejemplo) dove un autista solitario y muy asombrado te puertarìa a la fermada màs vecina a tu casa, hacia las dos y media de la noche obscura y peligrosa. Quédate a casa y rincojònate con la televisiòn en tu caliente familia! Y si no quieras, bien, pruébate a llamarlo, el Nochetiempo cuando suertas de la tranvìa a medianoche y media, aùn dispuesto a esperar media hora. No te responde ningùn. Jamàs. Tu teléfono hace rumores muy estraños, bipes-bipes, clic clic, zin-zin, y se cierra. Opures suena a vueto, tùùùù, tùùùù, tùùùù, dos o tres minutos, y se interrumpe. Otras veces el teléfono te dice con una cariñosa voz de jovencita que “El nùmero llamado està inexistente”; y aloras, antes de marchar, te interrogas un poquito o magares tomas un taxi, que es muy caro ma que te puerta de Batones al Argin Grueso en tres minutos por 7 doblones, que no es en fundo mucho màs que cuatro.


Dos veces, però, me ha ocurrido una cosa. He encontrado el Nochetiempo parado a Batones, con el autista que dormìa en el bus vacìo y en la obscuridad. Lo he despertado, y el pobre autista, muy feliz de que qualquién lo cagara un poquito, me ha portado a casa sin hacerme pagar nada y bastante volloso de hacer dos quiàquieras conmigo. Un pequeño acto de sabotaje, o de solidaridad, llàmenlo como quieren; cosas del tiempo de la privatizaciòn salvaje liberista y de la época del Cázaro de Riñano. Y le he preguntado al autista como funciona verdaderamente con el Nochetiempo, visto que tenìa una gran curiosidad. Eso me ha respondido:

'Señor, usted tiene que saber que el Nochetiempo, en realidad, no existe. Las llamadas son tomadas solo por un operador, uno, que hace lo que quiere y trabaja 45 minutos circa a las 6 o 6,30 de la tarde, y pues cierra todo y bip-bip. Ocorre registrarse para toda la semana, y el operador muy espeso registra y prenota a los que él quiere, amigos, conoscentes etcétera. Es inùtil llamar al Nochetiempo después de las siete de la tarde, porquè no hay ningùn que responde; y asì nosotros hacemos tres corsas, viajamos vacìos, tomamos el cafè a la ERG de la Avenida de Etruria que està abierta toda la noche, hacemos una peniquella y a las dos y media ce ne tornamos a casiña nuestra. Y la acienda resparmia haciendo creer que existe un servicio nocturno a llamada al cual no se puede llamar si no se conosce el intrigo.'

Esgranando un poco los ojos, que tanto no se veìa porque estava muy buyo, he tirado fuera el portafuellos para pagar el billete, que el autista ha refiutado con un guiño satànico que ce estaba muy bien pues que la plaza de Batones està al lado de la calle del Palacio de los Diablos. ¿Y còmo definirìan todo eso? En el mejor de los casos una enculada clamorosa que poquìsimos conocen; el el peor, una trufa legalizada a los daños de pùblicos utientes, a los cuales se propone un servicio imaginario o reservados a pocos amigos de los amigos. El pacto de enculaciòn.”

Asì se termina el diario de nuestro caballero don Venturas y Esventuras. Lo vemos ahora en el calor del verano con su trista figura y zu zàino dicho “Sancho”, o en la obscuridad de la noche mientras marcha direcciòn al Argin Grueso. O lastimar junto con otros y otras, gritando “Ma quand'arrìa el Nueve, diahaneee...?!?!?”, y fumar cigarros porque cree en la antigua leyenda de que quando te enciendes un cigarro, siempre arriba el bus. Antiguas historias de la época de la privatizaciòn salvaje; però estamos seguros que, pasados cuatro siglos, todo se arreglarà y que nos espera un futuro muy luminoso.

martedì 21 luglio 2015

Piazzale Est


La stazione di Bologna, la più grossa stazione di transito d'Italia (non terminale, cioè, come sono Roma Termini o Firenze Santa Maria Novella), per far partire i localacci e gli interregionali ha bisogno dei piazzali: Est e Ovest. E se per caso , per cambiare un trenaccio in un luglio africano, tocca scendere al piazzale Ovest (quello famoso per i treni per e da Poggio Rusco, che sarebbe come se in Liguria un posto si chiamasse "Poggio Rumenta" o in Lazio "Poggio Monnezza") per andare a prendere la coincidenza per Prato al piazzale Est,  c'è da camminare. Parecchio da camminare. Succede quando, per risparmiare qualche soldo e disposti veramente a tutto, si viaggia coi treni regionali e interregionali; io sono uno di quelli là, di quelli disposti, appunto. Quelli del Treno a Bassa Velocità. Quelli delle stazioni mai viste da voialtri umani, perché la stazione di Pontenure non sapete nemmeno che esiste. Non vi siete mai fermati a Musiano Pian di Macina, voi del Freccia Club o della Top Class di Italo. Ne sapete un cazzo, voi, della stazione di Populonia Baratti; e nemmeno di quella di San Benedetto Val di Sambro, che poi c'entra qualcosa con quel che mi accingo a raccontare.

Siamo dunque al piazzale Ovest della stazione di Bologna, quello di Poggio Rusco; si scende da un regionale da Piacenza, e comincia la camminata per andare a prendere il 2277 Bologna-Prato, ferma a tutte le stazioni, cinque vagoni, aria condizionata a macchia di leopardo, controllore sbracato, fumatina regolare nel cesso chiuso a chiave perché le ritirate sono ancora di quelle col finestrino a "vasistas". I passeggeri, pochi, tutti ammassati nell'unico vagone dove sembra esserci una parvenza di aria condizionata; negli altri, una temperatura sui 45 gradi. Ma il biglietto costa sette euri e novantacinque; poi, da Prato, si fa a sbafo fino a Firenze perché tanto il biglietto non lo controllano mai. Esistono tutte delle tecniche delle quali non vi parlerò; se però volete andare da Firenze a Bologna senza spendere un centesimo, basta prendere il locale da Rifredi alle 4,41 del mattino e ve la potete dormire certi che, su quel treno, il controllore non c'è nemmeno. Ci sono dei ceffi abbastanza brutti, è vero, ma pur sempre meno brutti del compagno Moretti, l'ex amministratore delegato delle Ferrovie, e, più che altro, che non hanno provocato nessuna strage alla stazione di Viareggio. E che non hanno fatto esplodere, su un treno, nemmeno un raudo fischione.

Ma torniamo alla stazione di Bologna e alla camminata coast to coast dal piazzale Ovest al piazzale Est. Occorre farla, per forza, dal marciapiede del binario 1 centrale; e così, ogni volta, si rifà tutto il percorso. Lo squarcio nella parete, che è stato lasciato mettendoci una vetrata. La fermata alla sala d'aspetto, che è già tanto se c'è ancora una sala d'aspetto in una stazione, visto che in altre le hanno tolte di mezzo sostituendole col Freccia Club o col Club Italo; la lapide con ottantacinque nomi, le immagini che ritornano, i cadaveri portati via sopra l'autobus della linea 37, l'orologio fermo sulle dieci e venticinque. Eppure, oggi, è una giornata normalissima, a parte il caldo micidiale; ma non c'è nessuna fretta. Si deve vedere anche, seppur brevemente, un amico di passaggio da quelle parti. Tempo anche di constatare che, nella sala d'aspetto, ora c'è pure la Stanza delle coccole, uno spazio per far giocare i bambini. E si ripensa, magari, a Angela Fresu, di anni tre, che un due di agosto di tanti anni fa non ha avuto nessuna coccola. Si ripensa a tante cose in questo maledetto paese, e ci si pensa ovunque si metta piede viaggiando dove si fermano treni lenti e scalcinati.

Dalla sala d'aspetto e dallo squarcio, accanto al quale un'altra lapide ricorda come vi si sia fermato a pregare anche Giovanni Paolo II (quello che pregava ovunque, anche sui balconi assieme ai dittatori cileni), ancora lungo è il cammino per il piazzale Est. Specialmente col solito zaino in spalla dove c'è tutta la casa, si può dire. Noialtri viaggiatori alla God Hangman (= alla 'ioboia, ndr) non si scherza mica; si piglia un trenaccio per andare a Genova in una piazza, si canta la canzone di Sotiris Petrulas, ragazzo ammazzato dalla polizia, insieme alla madre di un ragazzo ammazzato dalla polizia; si balla su una canzone scritta in galera da uno che è morto, poi, di cancro, e si ripiglia un altro trenaccio da Brignole passando, sotto un sole cocente, per via Tolemaide che magari questo nome a qualcuno ricorderà qualcosa; ma mica per tornare a casa. Si va a Milano Rogoredo, dove alle nove della sera ci saranno trentasei gradi. E poi a Piacenza, 33 gradi alle undici e mezzo la sera. Il giorno dopo, cioè oggi, altri treni dimenticati. Lo zaino coi libri di fantasmi (compresa la Carmilla di Le Fanu, che non è on line ma in un vecchio libriccino da mille lire), la Settimana Enigmistica, la macchinetta fotografica, le matite e le penne nell'astuccio con Titti il Canarino, l'asciugamano cubano, le sigarette, le chiavi, le magliette di ricambio, il coltellino svizzero, l'ombrello tascabile, il cavatappi e la bottiglietta d'acqua brodosa.

Con quello zaino in spalla, magari a un'età non più da ragazzino, piano piano si esce da quella che, generalmente, si definisce "stazione di Bologna". Formalmente, certo, è la stessa stazione; ma, a un certo punto, scompaiono i tabelloni hi-tech, le tabaccherie, la macchinette vendi-ogni-cosa, i vacanzieri, i simil-manager in simil-giacca e simil-cravatta, tutto. Come passare da una città a un paesino dimenticato da dio. Viene quasi da pensare che, quel due di agosto, dal piazzale Est non si sia sentita nemmeno l'esplosione e che sia partito, pure in orario, un locale per Prato. 

Il Piazzale Est è un mondo a parte, a world apart. Quattro binari per destinazioni del tipo Monzuno o Portomaggiore. Trenini fermi a aspettare chissà chi; e persino un ingresso separato, che dà su una via dedicata a tale Masini. Al posto delle macchinette automatiche, dei gadget e di tutte le altre stazionàggini, una vera, autentica fontanella che butta acqua pigiando il rubinetto. Si avvicina un ragazzo africano, magari di un paese dove in questo momento c'è una gradevole temperatura di venti gradi, e si fa un'accurata pulizia del viso e delle braccia; poi torna a risistemarsi su dei materassini, poco più in là, assieme a degli altri ragazzi come lui. Tutti stesi all'ombra della tettoia del binario 4, da dove l'ultimo treno dev'essere partito quindici anni fa. Compostissimi, si riposano senza fare nessun rumore e danno un senso di pulizia. Lo imito; puzzo che avello, sudato fradicio, e una rinfrescata ci vuole proprio. L'acqua è pure fresca e sostituisco la melma che oramai ho nella bottiglietta. Tre persone in tutto a aspettare il treno per Prato, il 2277, che tra non molto piglierà la strada dell'Appennino come fosse un partigiano; e il paragone non è di fuori, visto che dal piazzale Est partono pure i locali per Marzabotto.

Un operaio sta a leggere le stronzate del "Resto del Carlino" seduto su un muletto Jungheinrich, che vorrebbe dire "giovane Enrico". Potrei stendermi da qualche parte, dopo aver dato una sigaretta a una ragazza che mi dice che "dorme per la strada". Le rispondo che la sigaretta gliela avrei data anche se dormiva allo Sheraton, e ci si fa una risata. Che si fa? Potrei stendermi da qualche parte; ma se mi stendo da qualche parte, mi addormento. E allora si esplora ben bene il piazzale Est, quel mondo a sé dentro la grande stazione che ne ha viste di tutte tranne, appunto, il piazzale Est. E così, dopo un po', scopro una cosa: questa qua sotto.



Silver Sirotti, il 4 agosto 1974, ha immolato la giovane vita ai più alti ideali di umana solidarietà. Traduzione: dev'essere saltato in aria sul treno Italicus. E sto lì a guardare quella lapide davanti alla quale non si dev'essere fermato a pregare nessun papa, al massimo il parroco di via Masini. Nessuno squarcio vetrato nel muro; a Silver Sirotti, ferroviere del personale viaggiante di Bologna, è stato riservato un angolino del piazzale Est. Non ne so nulla, di Silver Sirotti. Uno qualunque che era a lavorare assieme a degli altri qualunque che viaggiavano su un treno esploso in una galleria. Poi quel treno, e me lo ricordo bene anche se avevo solo undici anni, fu tirato fuori e portato, sventrato, alla stazione di San Benedetto val di Sambro. Una di quelle dove ferma il locale per Prato; poi fa la galleria e sbuca a Vernio-Montepiano-Cantagallo. Mi ci fermai anche io, a quella stazione, con un'ambulanza; era il 23 dicembre 1984 ed era, provate a immaginare, saltato in aria un treno. Ed è così che Silver Sirotti è diventato una targa metallica attaccata su un muro del piazzale Est. Cinquecento metri a valle c'è l'enorme lapide sulla quale hanno scritto: Vittime del terrorismo fascista. Per Silver Sirotti, nessun terrorismo e nessun fascista. Solo il nome di un treno e una data. E, dimenticavo, la giovane vita immolata ai più alti ideali di umana solidarietà.

Non so che cosa abbia fatto e come sia morto esattamente, quel giorno, Silver Sirotti. Non so perché e come si sia immolato. Credo che, come i passeggeri che si trovavano dentro quel treno, avrebbe fatto volentieri a meno di immolarsi; anche perché, in Italia, spesso e volentieri non ci si immola affatto. Ti immolano loro. Per una strategia, per intrighi, per giochi di potere, per ricatti, per tentati golpe, per pressioni, per mafie, per battaglie aeree, per qualsiasi cosa. Poi si fanno i depistaggi, i processi bis ter quater fino ad esaurire gli avverbi numerali latini, le condanne, le cancellazioni, gli appelli, le cassazioni, i comitati dei familiari che chiedono giustizia, e la "giustizia" tutt'al più consiste una lapide più o meno grande. O in una targa metallica al piazzale Est. Al piazzale dell'Est, per due soldi, una targa il Sirotti si beccò; e i due soldi, naturalmente, erano quelli del suo stipendio di ferroviere. E sono passati, quanti? Ah, ecco: quarantuno anni. In un paese che, ora, di solidarietà e di umanità non ne ha più. In un paese carogna dove i fascisti scorrazzano e fanno affaroni. E così, finalmente, mi metto a sedere appoggiato al lastrone terminale di uno dei quattro binari.

C'è da pensare a cose più pratiche e urgenti. Trovare il vagone con l'aria condizionata ad esempio; che privilegiati che siamo diventati. Nel '74, su un treno che non era poi certamente un localaccio, l'aria condizionata non esisteva. Bisognava aprire i finestrini, perché il 4 di agosto faceva caldo di certo e si andava a saltare in aria col vento in faccia. Bisogna sistemarsi alla bell'e meglio, in mezzo a conversazioni telefoniche in lingue sconosciute. Si tirano fuori dallo zaino i libri dei fantasmi, ma di fantasmi, qua, ce ne sono parecchi più che nei libri. Quelli dei libri, poi, sono quasi tutti nobili. Conti, baronesse, eteree fanciulle di alto e antico lignaggio. Hanno nomi esotici, tipo Carmilla. I fantasmi dei treni, invece, sono operai. Ferrovieri, casalinghe, bambini, studenti. E si chiamano, magari, Angela. O Silver. I fantasmi dei libri, alla fine trovano la loro pace o la loro giustizia; quelli dei treni non la trovano. Diventano lapidi o targhe al piazzale Est, ci scusiamo per il disagio.  Stevenson o Le Fanu non avrebbero saputo che farsene; si accontentino di uno che scrive un blog e che passa, sudato, puzzolente e con una bottiglietta d'acqua Lilia, per il piazzale Est per tornare a casa in un'estate rovente.