sabato 28 giugno 2008

Pian di Bordiga



Domenica scorsa sono stato, assieme alla mia compagna, a fare un giro in cerca di un po' di fresco. Era una giornata torrida, come oggi del resto; ci siamo messi in macchina e mi è venuto in mente di andare verso Vallombrosa. A mille metri secchi di altitudine, in mezzo ai castagni e ai pini alti, certi di trovarci comunque mezza Firenze in fuga dalla calura (cosa puntualmente avvenuta); e così ci siamo messi in strada, non senza aver notato, al Girone, un termometro stradale, fuori dalla casa del popolo, fermo su quaranta gradi.

Per arrivare a Vallombrosa bisogna costeggiare l'Arno verso monte, passando Compiobbi, Le Sieci e Pontassieve. Poi si prende la statale 70 verso Pelago. E' una Toscana poco nota, quella; poco nota e stupefacentemente bella. Ed è anche qualche ricordo per me, qualche ricordo molto lontano. Lasciata la statale, bisogna deviare verso Tosi (si pronuncia con la "ò" aperta, "Tòsi"); un paese già a più di cinquecento metri di altezza, dove tenere i finestrini aperti cominciava a risultare decisamente gradevole. Abbarbicato a mezza costa, uno di quei "paesi del mobile" che esistono, o esistevano, da molte parti in Toscana. Ci sono ancora i mobilifici, c'era il mercatino domenicale, un vecchio a fumare fuori dalla porta. Non ci passavo più da vent'anni.

Ci passavo abbastanza spesso, invece, da bambino e da ragazzino. Sul sedile posteriore delle due 850 di mio padre (la seconda, beige, era "Special"), poi sulla 128 verde. Per andare a Pian di Melosa.

Pian di Melosa è già vicina a Vallombrosa, e sta già sui sette o ottocento metri. Ci andavo, e ci andavamo, perché una zia paterna, di nome Luciana come mia madre, aveva lì la "casa dell'estate"; uno di quei posti di cui non devo avere mai parlato. Eppure, guidando piano su quel pezzo di salita, mi sono riaffiorati visi, e persone. Tornare in un posto dopo vent'anni, neppure fosse all'altro capo del mondo; ma forse sarà perché all'altro capo del mondo, o qualcosa del genere, ci sono stato io. Sarà anche perché, in generale, Pian di Melosa era associato a domeniche in famiglia, e mi toccava andarci piuttosto riottoso e solo con la promessa che sarei potuto andare al bar a seguire la partita della Fiorentina per radio, quando c'era ancora soltanto "Tutto il calcio minuto per minuto" col secondo tempo. Bortoluzzi, Ameri, Sandro Ciotti e Provenzali, per intendersi.

Però, a volte, ci ho passato anche una settimana o dieci giorni di fila, a Pian di Melosa. Quando gli zii convincevano i miei a lasciarmi lì per qualche giorno. Allora mi faceva piacere, perché un nipote dagli zii ha qualche libertà in più. E così mi ricordo delle figure di quel paesino, che poi è una frazione del comune di Reggello; una sola strada, circondata da "terratetto", che sbocca in una piazza aperta, con poche villette. Attorno, il bosco e basta; e il bar "Da Gigino", tenuto da una vecchia coppia –Gigino, appunto, e l'Angiolina- e dal figlio, che si chiamava Pellegrino. C'era il biliardo eternamente occupato dai giocatori di boccette, ché in Toscana la stecca è roba da accademie cittadine che non mi riesce immaginare in preda alla legge Sirchia; c'era l'ordinanza che proibiva i giochi "d'azzardo" alle carte, tra cui la briscola e il ventuno; s'immagini quanto fosse rispettata, quell'ordinanza a bischero. C'erano dei ragazzi, pochissimi del posto e molti fiorentini in vacanza. E siccome mio padre le ferie le pigliava quasi sempre in luglio, quando tornavamo all'Elba, agosto spesso voleva dire Pian di Melosa.

Quanto avevo? Sette, dieci, tredici anni. Ho tre ricordi incancellabili di Pian di Melosa. Il primo è quando, per accidente, mi chiusi un dito mignolo nello sportello della macchina di mio zio Dino, che era ovviamente una Simca. Righeschi Dino, ex bigliettaio sull'ATAF, fedele alla Simca fino alla morte. Tre Simca 1000 –la prima, blu notte, era detta "La Poldina" - poi una di quelle "familiari", verde, che se n'è andata con lui nella tomba –mi verrebbe quasi da dire. Un dolore terrificante e una falange rotta. Il secondo ricordo è una vecchia del posto che aveva perso, non si sa per quale motivo, l'uso della parola; tranne che per una sola espressione, "Oh Dio, Dio, Dio, Dio!". Riusciva a dire solo quello, ma col tempo doveva avere sviluppato una specie di linguaggio modulato elementare. Modulando il suo "Oh Dio, Dio, Dio, Dio!" arrivava ad esprimersi e farsi capire. Mi ricordo di una volta che era arrabbiata nera, e che berciava il suo "Oh Dio, Dio, Dio!" a novecento decibel; quando mi incontrava, però, mi faceva sempre la carezzina e un sorriso, e un "Oh Dio, Dio, Dio" decisamente dolce. Non so neppure come si chiamasse. Per me è "Oddìo Oddìo". Sarà morta e sepolta, ché era già vecchia quand'ero un bimbetto.

Il terzo ricordo, me lo sono ritrovato fermandomi a Pian di Melosa, dopo vent'anni, e entrando nel bar che si chiama sempre "Da Gigino". Solo che Gigino non c'è più, e nemmeno l'Angiolina, e nemmeno il figlio Pellegrino. Non c'è più nemmeno il biliardo, ma una TV al plasma dove rombavano i motori del gran premio di Formula 1, e di quello di motociclismo poi. Quella è una cosa rimasta; il bar Gigino era un tempio del dio Ferrari, e mio zio Dino ne era uno degli apostoli. Abbonato a "Autosprint" fin dal primo numero. Mi sono ricordato che in quel bar ho visto per la prima volta nella mia vita la televisione a colori; erano le trasmissioni sperimentali dell'estate del 1976, durante le olimpiadi di Montréal. Sono una cosa incredibile, i ricordi. Dopo trentadue anni mi è tornata alla mente l'immagine precisa, la partenza di una gara di atletica leggera, i colori ancora violenti, le discussioni tra la scelta del sistema PAL e del SECAM francese. Mi ci sono abbandonato per due minuti.

Poi ce ne siamo andati via. Le ho telefonato, alla zia Luciana, per dirle dov'ero in quel momento. Mi piace pensare che le abbia fatto piacere.

Poi, rimontando in macchina per andare a Vallombrosa, mi sono accorto che a Pian di Melosa c'era qualche strada nuova. O meglio, alle stradine di campagna sul lato destro della provinciale avevano dato un nome; prima non lo avevano.

C'era una via "John Milton", a Pian di Melosa. Accidenti, il paradiso perduto! E c'era, facendomi strabuzzare gli occhi, una via "Amadeo Bordiga". A Pian di Melosa. Non ci sono né Togliatti, né Lenin, né Berlinguer; ci hanno messo Amadeo Bordiga.

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