Scrivo così perché, in realtà, non so nemmeno da dove cominciare. Perché questa è una storia che non conosco, che nessuno mi ha raccontato a voce, che non ho mai sentito coi miei orecchi. L'ho letta qualche tempo fa in alcune scarne righe del saggio di Gianantonio Stella, L'Orda – quando gli albanesi eravamo noi. Righe riportate anche da un paio di siti, e che ho trovato quando sono andato a cercare qualcosa di più per raccontare una storia, una storia di gente più o meno comune, come recita la frase introduttiva di questo blog. Nulla da fare. Soltanto alcuni scarni dati, e un nome.
Quando gli albanesi eravamo noi. Albanesi, e rumeni, e chissà cos'altro. Quando eravamo anche zingari; una delle più famose canzoni di emigrazione italiane, Trenta giorni di nave a vapore, dice letteralmente: in America ci andremo coi carri degli zingari. Non ha avuto la fortuna che meritava, quel libro di Gianantonio Stella; troppe cattive coscienze smuove. Troppe storie che, al giorno d'oggi, si vogliono dimenticare. Oppure liquidare con la lontananza nel tempo. Oppure, ancora, ponendo "paragoni" tra il bravo emigrante italiano che "con l'industria costruisce paesi e città" e il cattivo emigrante d'ora, che porta soltanto delinquenza, prostituzione, stupro, sporcizia.
Di questa storia, o non-storia, so che è avvenuta l'altro ieri. Nel 1962. L'anno prima che io nascessi. Proprio ieri pomeriggio sono passato da Bagno a Ripoli; ora una cittadina attaccata a Firenze, cittadina di villette e benessere, di territorio ben adatto al "Tuscan dream", qualche piccola industria, le seconde case dei cittadini e, spesso e volentieri, anche le prime di ex fiorentini che si sono trasferiti là per sfuggire magari al "degrado". Davvero carina, Bagno a Ripoli, nulla da dire. Con le sue frazioni immortalate persino da un pittore del calibro di Ottone Rosai. Un suo affresco, "Case di Villamagna", del 1935, si trova dentro il bar Chef Express della stazione centrale; e quel paesaggio, tutto sommato, lo si può vedere ancora. Villamagna è nel comune di Bagno a Ripoli.
Come immaginarsi che, ancora nel 1962, da Bagno a Ripoli si potesse partire per fame? Il secondo magro dato di questa storia. Il nome. Mario Trambusti, di anni 26. Un nome che ora non si sentirebbe più, chi chiama ancora "Mario" un figlio. Si chiamerebbe, chissà, Jonathan Trambusti, o Samuel Trambusti, o Vanessa Trambusti se fosse una femmina. A quei tempi succedeva invece che una mia cugina coetanea trovasse difficoltà nel parroco perché i genitori la volevano chiamare Barbara. "Barbara non è un nome cristiano", disse loro.
Mario Trambusti faceva il panettiere. Racconta Stella che aveva un negozietto a Bagno a Ripoli che non gli permetteva di tirare avanti. Dovevano essere ancora i tempi, nel 1962, in cui di quei piccoli forni ce n'erano uno ogni duecento metri, tutti con la stessa vita dura e magari senza impastatrice meccanica, ché la luce elettrica costa un subisso. Tempi già di Rai tv, di telefono, di automobili. Tempi che, sovente, ancora si sente chiamare di miracolo economico o di boom. Di cui si parla con rimpianto. Tempi in cui un panettiere di ventisei anni doveva ancora partire da Bagno a Ripoli, come un cane, per cercarsi una vita altrove senza nulla in tasca.
Partendo magari nella notte dopo aver cercato una via per andare dall'altra parte. L'altra parte era la mèta di tanti italiani, e di moltissimi toscani e fiorentini. La Francia. Da Firenze, poi, era probabilmente il paese più emigrato di tutti, i fiorentini –nonostante Antonio Meucci- in America non ci andavano tanto volentieri, e neppure in Australia. Magari in Argentina. Ma quando stavo a Bruay Sur l'Escaut, un'officina vicino a dove abitavo recava il nome di "Giotto Bardi". Il titolare non parlava più neanche mezza parola di italiano, ma il padre veniva da Scandicci. Quando il figlio vide la mia vecchia Tipo targata Firenze, che reggeva l'anima coi denti e che in quelle plaghe è rimasta poi a sfasciarsi, mi fece passare avanti a tutti.
Si dev'essere diretto verso Ventimiglia, Mario Trambusti, panettiere di anni ventisei nel 1962, con un biglietto di terza classe, o qualcosa del genere. Verso un posto che era usato dagli emigranti clandestini italiani fin da decenni prima, i sentieri dietro la Valle dello Stura, alla frontiera del Col di Tenda. Un luogo talmente impervio, da essere chiamato Passo della Morte. Già nel 1922 un deputato italiano, Stefano Iacini, aveva denunciato che "ogni notte sono decine e decine, per non dire centinaia, gli operai che passano in Francia clandestinamente"; nel primo dopoguerra si arrivarono a calcolare circa duecento clandestini al giorno. Un traffico organizzato, con tanto di guide; e non si trattava soltanto di operai o comunque di carne da lavoro. C'era anche la carne da sesso, ragazze italiane abbindolate nei porti (specialmente a Napoli, Livorno, Messina) e spedite clandestinamente in Francia e in mezza europa a fare le puttane con la promessa di qualche bel lavoretto sicuro. Ricorda nulla, questa cosa? Magari, che so io, l'espulsione delle prostitute? E c'erano anche i bambini, letteralmente venduti per diventare schiavi nelle vetrerie francesi, sgobbando quindici ore il giorno "in cambio di un pezzo di pane duro, di una minestra immangiabile condita col sego, alla domenica un bicchiere di vino cattivo e salsicce o altra carne putrefatta, cinque per letto, brulicante di insetti." (dalle relazioni di Lionello Scelsi, diplomatico italiano, console a Lione).
Il Passo della Morte. In realtà, di "passi della morte" ce n'erano diversi. La Valle dello Stura, ma anche la Valle della Roya, il Piccolo S. Bernardo, il Chemin de Rochemolle in Savoia, la "Fenêtre Durand" e altri. Mario Trambusti era in quello della Val di Roya, appena sopra Mentone. Sentieri abbarbicati a quelle montagne da paura, e tuttora utilizzati da curdi, rumeni, magrebini. Probabilmente utilizzati nei due sensi, però, ora. Allora no. Il senso era unico. Si partiva, magari da Bagno a Ripoli, da una Bagno a Ripoli del 1962, da una Bagno a Ripoli dove un ventiseienne del 2008 si pone come problemi il Nokia di ultima generazione o le vacanzine alle Maldive con la fidanzata, per andare a schiantarsi giù dal Passo della Morte. Quel Passo dove sono morte, dicono, duecentocinquanta persone. Ognuna con un nome e un cognome. Mario Trambusti fu l'ultimo clandestino italiano che vi morì, volando di sotto da una spaventosa parete di roccia dopo aver messo un piede in fallo. Lo trovò tale signor Ferdinand Delrue, che aveva portato il cane a pisciare nel giardino della sua villa proprio ai piedi del costone; Mario Trambusti, da Bagno a Ripoli, anni 26, panettiere, gli era venuto a cascare proprio in casa. Era la mattina del 1° gennaio 1962.
Non posso immaginare altro e forse ho immaginato già troppo. Mi viene da pensare ai nomi. Tutti avranno presente i titoli dei giornali: 150 clandestini annegati nel Canale di Sicilia. Clandestino trovato morto nel cassone di un TIR. Clandestini. Persone. Con dei nomi. Cognomi. Persone. Esseri umani. A Mario Trambusti è stato perlomeno riservato un barlume di memoria, la stessa memoria che abbiamo perso vomitando cibi confezionati, oggetti inutili, pance gonfie che hanno sostituito il pane e la fame. La fame è brutta e nessuno vorrebbe tornare a farla. Ma l'antico affamato che ora sputa addosso all'affamato attuale, invocando leggi, "legalità" e tolleranze zero, meriterebbe di tornare, come individuo e come collettività, a schiantarsi giù da un Passo della Morte, una mattina di gennaio, nella più totale solitudine pari solo al disprezzo che lo avrebbe atteso di là dalle montagne.
6 commenti:
Basta poco per dimenticare.
Basta stare un po' meglio per sentirsi superiori.
Superiori un cazzo!
Si capisce che il benessere per molti funge da spugna, eppure qualche parente emigrato credo che l'abbiamo tutti...
Questo modo di pensare non lo capirò mai.
a me, che in provincia di Cuneo ci sono nato, ben sono noti quei passi. sono i passi attraverso i quali, ben prima di carte d'identità e permessi di soggiorno, le vacche e le pecore andavano a pascolare in Francia, e i parigini scendevano nelle valli a tagliare i capelli (a pagamento) per farne parrucche...
"Qualche parente emigrato lo abbiamo tutti", già. Ma lo sai cosa si sente dire, spesso, anche da chi magari non se n'è scordato? Che in ogni caso eravamo "diversi". Oppure, come mi è capitato di recente proprio sul newsgroup di Firenze, che ad ogni modo il razzismo andrebbe "capito" perché "loro" non sono "come noi".
Dici che non potrai capire quel modo di pensare, ma credo sia giunto il momento di smettere di "voler capire". Ci abbiamo tentato in ogni maniera, e vedi quali sono i risultati. Fine della trasmissione. Ora non si capisce più, ora si chiamano persone e cose col loro nome.
A me invece, che in quei posti non ci sono nato, sono note altre cose. Ad esempio che le guide che facevano passare i clandestini da quelle parti erano tutte italiane, perlopiù liguri e calabresi. I "Fenicotteri", li chiamavano, per la loro agilità nell'arrampicarsi e nel restare in equilibrio su quei sentieri da capogiro. Per ogni passo prendevano 5000 lire dell'epoca, che erano un'enormità per chi non aveva nulla; autentici scafisti delle montagne. I quali, però, e esattamente come gli scafisti, non portavano il clandestino a destinazione. Gli mostravano il sentiero dicendogli di fare attenzione in certi punti, ma che in fondo era facile (per loro, che ci erano abituati). Poi lo lasciavano alla sua sorte. "Quando gli albanesi eravamo noi", in tutti i sensi. Non solo dalla parte degli immigrati clandestini, ma anche da quella di chi li sfruttava senza nessuna pietà. Dall'altra parte, Francia o Svizzera che fosse, c'erano leggi bell'e pronte, disprezzo, xenofobia, "ci rubano il lavoro" eccetera eccetera. C'era il partito poujadista, antesignano diretto del Front National, o c'era il signor Schwarzenbach, l'avvocato svizzero che promuoveva i referendum anti-italiani e chiamava le famiglie degli immigrati "braccia inutili sulle spalle della nazione". Ecco, vorrei dire agli italiani di adesso come ci si sente ad essere diventati tutti degli Schwarzenbach.
Che dire?
Sottoscrivo tutto, parola per parola, compreso il fatto che ci meritiamo solo la miseria, la fame e i burroni. Anche io non voglio più capire nessuno, non riesco più nemmeno a parlarci, al massimo li mando in culo.
Penso a mio nonno, partito nel 1902 a 16 anni, un fagotto di stracci e un fratello di 10 anni a rimorchio, due mesi di nave mangiando solo pane, acqua e zucchero. Se ha avuto la possibilità di fare una vita degna - e questo vale anche per me - è perché in Argentina è stato accolto bene. Certo, se la situazione fosse stata quella che i migranti trovano qui, addio noi!
Maria Cristina
E allora chiamiamo le cose con il loro nome.
Chiamiamo questo uno stato razzista e di polizia e la maggior parte dei suoi abitanti razzisti, egoisti e guerrafondai.
Ma temo che il nome che diamo noi alle cose sia un po' diverso da quello che usano i patriottici italiani.
E in questo caso sì, che uso anch'io la contrapposizione "noi" e "loro"; ma i "loro" in questione sono la maggior parte dei miei concittadini, corregionali e quant'altro.
E ci tengo pure, a questa distinzione.
daniela
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