Sai che ci sono di quelle serate, di pioggia (mista a neve, come recita il meteo), che proprio non riesce di stare fermi. Vorresti uscire fuori, e puoi; magari al sole, e potresti se il sole ci fosse. Invece piove, nevischia e fa freddo. Apri la porta. Lasci entrare l'aria; non c'è nessuno.
Vedi qualche finestra illuminata, senti dei rumori; quello della pioggia che cade li copre quasi tutti. Le solite macchine che passano; la solita vita. Un film lasciato a metà per la sua insipienza, le telefonate. Perché puoi. Perché le finestre illuminate puoi uscire a vederle. Perché i rumori puoi sentirli. Perché puoi lasciare la tua stupida storiella cinematografica per andare a respirare l'aria, là fuori, e a constatare che non c'è nessuno.
Perché ti fa ridere, e incazzare, e incazzare misto a ridere quando senti dire cose come “la vita è una galera”. Allora provaci a andarci, in galera. Prova ad aver voglia di vedere finestre illuminate che non siano quelle delle altre celle, finché non viene ordinato lo spegnimento. Prova a sentire i rumori; forse si sentirà, al massimo, quello della pioggia. Prova a voler respirare il fuori. Prova a constatare che non hai che la convivenza forzata coi tuoi compagni, oppure il nessuno dell'isolamento. Dai, su, provaci.
La vita ha delle situazioni che somigliano a una galera, sì. La vita ha paragalere che vanno sotto nomi differenti. Famiglia. Scuola. Lavoro. La terza di queste cose è quella che più ci si avvicina, a una galera vera; ti rendono schiavo dopo averti preparato con i banchi di ogni ordine e grado, e ti dicono che devi lavorare perché devi fondare una famiglia. Le paragalere che si perpetuano, i pilastri intangibili, i valori. Con qualche accidente, o para-accidente, di percorso. Precariati, scuole che non sanno più nemmeno insegnare ad essere schiavi, famiglie che si concludono o nell'educazione alla solitudine tecnologica, o nel semplice possesso sublimato dalla strage eseguita dal capo.
Ma non è ancora una galera. Puoi dirvi di no. Puoi decidere di aprire la porta e respirare. Anche se tentano comunque di metterle in ogni forma, non ci sono guardie sulle torrette. Puoi risolverti a sgattaiolare fuori, abbattendo con un calcio il muro sostitutivo, quello della paura. Puoi dare luogo a tutto, anche alle tue confusioni. Puoi perché sei, e sei perché puoi. E nessuno ti deve dire chi sei e che cosa puoi. Lo decidi da solo. Non te lo deve dire né un padre, né un maestro. Né un'esperienza altrui, né un libro. Impari a non delegare.
Ed è proprio per questo che esistono le galere. Nelle galere non puoi decidere. Se vuoi sgattaiolare, devi organizzarti e organizzare piani complessi, peraltro senza nessuna certezza che riescano. Non devi abbattere soltanto il muro della paura, ma mura di cemento armato; non basta un calcio. Non puoi dare luogo a niente, se non nella tua interiorità; e la tua interiorità, a sua volta, diventa una galera. Qualcosa cui non si sfugge, essendo il solo rifugio. Diceva un vecchio canto tedesco: Die Gedanken sind frei. La galera riesce a trasformare anche il pensiero in sbarre. Non sei e non puoi. Ti dicono loro chi sei, e che cosa puoi. Da solo non decidi più niente, e allora molti mettono in pratica l'estremo atto di volontà e, in definitiva, di libertà: darsi la morte. Devi delegare tutto perché ti tolgono tutto. Centosette sarete chiamato, e Rodolfo Foscati mai più.
Se ti ci fanno uscire, dopo le loro accuse statali, trasformano in galera casa tua. Non puoi fare niente se non leggere libri e guardare la televisione. Non puoi uscire. Non puoi parlare con nessuno. Non puoi respirare nessun'aria. Sennò ti riportano subito nella galera “vera”, e sei magari tu stesso a dire che, tutto sommato, in confronto, in fondo, c'è la mamma che ti fa il piatto preferito, c'è il babbo con cui puoi fare la partita a carte, c'è persino la tua ragazza cui danno un permesso di due ore sotto Natale. Come se il vostro amore fosse un regalo dello Stato.
Galere vere, galere domestiche. Galere. Sì, davvero, provaci a andarci e poi fai sapere. Fai sapere che, oramai, quel tuo aver voluto aprire le porte più a fondo, quel tuo essere sgattaiolato nel non starci mai, quella tua storia che è stata repressa, quella tua vita che è stata sospesa con una firma a comando, quella tua lotta di tutti i giorni che è sempre sbagliata per tutti, quella tua pioggia che non ha più stagioni, quel tuo dentro che non sa più riprodurre che altri dentro, ti hanno avuto. Che ti ci tengano, così, per pochi mesi o per sempre.
Sai, noi là fuori, noi cui sembra sempre più spesso di vivere nella possibilità che stiano già escogitando qualcosa per poterci mettere in gabbia, noi cui magari la stanno già impastando come un pane alla segale cornuta, noi s'ha un grido. Si grida che dentro non ci vogliamo nessuno; e, fosse per me, il grido finirebbe lì perché non ci sarebbero nemmeno le macerie, delle galere. Ci sarebbe una dissoluzione e una futura inesistenza. Ci sarebbe un mondo nuovo, e cessare di credervi equivarrebbe a mettere il primo mattone per nuove galere.
E sai, lo voglio dire proprio a te, Francesco Mannucci, Mannu. A te che già lo sai fin troppo bene. Lo voglio dire a Alessandro Della Malva. A Paolo Persichetti. E a tutti. Tutti! Nessuno escluso, qualsiasi cosa abbiano commesso. Lo voglio dire agli inventori del 41 bis. Lo voglio dire a quelli della vendetta infinita. A quelli della certezza della pena. A quelli dell'edilizia carceraria. Lo voglio dire a quelli dell' in prigione, in prigione!, ché gliela stanno già costruendo anche a loro, sotto il naso, senza che se ne accorgano. Ci finiranno mentre ancora invocano la galera per gli altri, che è la fine riservata agli stolti.