Quando posso, io a Livorno ci vo sempre. Ci andrei anche a piedi, se fosse necessario; ma non credo che mi riuscirà mai spiegare bene il rapporto che ho con quella città, anche se a volte ci ho provato. Non è fatto di Vernacolieri e di macchiette, è fatto di notti buie e di mattine abbaglianti; ma mi fermo qui. Mi hanno detto che c'era una manifestazione, a Livorno, sabato scorso; una manifestazione alla quale avrei ritenuto importante partecipare anche se fosse stata a Pisa, o a Bologna, o dovunque. Ma era a Livorno. Ritrovarsi in piazza del Voltone in una mattina di gennaio, con un sole abbagliante raggelato dalla tramontana; la grande piazza. Casa mia. Le mie strade, la Fortezza, gli Scali delle Cantine, via Pelletier; e ogni volta che mi ci ritroverò, fino all'ultima, quella sarà sempre casa mia. Casa mia come la tramontana di gennaio, casa mia come la statua nella piazza, casa mia che non lo sarà mai più. Ce ne avrei anche avuto la possibilità, di tornarci a stare; ma non avrebbe avuto senso. Sarà per sempre casa mia perché lo è stata fino a un'alba in cui, andandomene, mi dicevo che un giorno sarei tornato.
Poi mi sono accorto che quel giorno, e quel ritorno, si chiama ricordo; e che il tornarci ogni tanto, per una manifestazione, per un trasporto in automedica, per una mangiata o per nessun motivo, mi ha posto in una condizione del tutto particolare: quella di esser sempre lì a volteggiare. E non la si cambia più, questa condizione. Se l'Elba è la mia barca con la quale continuo imperterrito a navigare ovunque vada, Livorno è diventata l'aliante; e la piazza era piena di gente. Ho incontrato qualcuno che mi ricordava, compresa una persona che, con tutta probabilità, mi ha aperto la prima sliding door. Ho incontrato, come sempre, quel mestesso che ancora gira con lo spigato grigio e una bottiglia di qualcosa in tasca; ma non ci siamo salutati. Ho incontrato, infine, una città che faceva sfilare, nel sole e nel vento, delle pene che non si possono forse neppure immaginare.
Ché si manifestava perché dei ragazzi ammazzati di carcere, di polizia e d'altre istituzioni, non fossero più dimenticati. C'erano le loro madri, i lori padri, i loro fratelli, le loro sorelle. Uno di questi ragazzi era proprio di Livorno, come il Dario della canzone di Piero Ciampi; e sentivo sfilare altri nomi, alcuni conosciuti, altri no. Sentivo sfilare il dolore, pensando a cose elementari. In questo paese cui piace, per bocca di orrori con sembianze umane, cianciare di famiglia, famiglie intere sono state distrutte dallo Stato. Per niente. Per un semplice istinto di sopraffazione su chi è nelle loro mani e non può chiedere aiuto. Sfilare il dolore in una città blindata, costretti a vederceli a fianco tutti belli nelle loro divise e armati fino ai denti. Sorridevano. Alcuni, addirittura, ridevano.
Livorno è quella cosa che, ancor oggi in questi tempi oscuri, riesce ad aprire una finestra. Fa affacciare tre signore di mezz'età che si sbracciano, applaudono, urlano. C'è anche una Livorno del tutto indifferente, però; una Livorno che continua a fare la passeggiata del sabato mattina sotto i portici di Via Grande, schivando i poliziotti e i carabinieri in assetto antisommossa. Come se fosse normale. Come se una manifestazione di cittadini che chiedono qualcosa a proposito di alcuni ragazzi assassinati fosse un pericoloso bubbone da tenere a bada, da isolare con un cordone militare, da segregare. In cima, da un furgone, qualcuno parla in mezzo alle canzoni di De André; e quelli ai lati, ridono dai loro manganelli e dai loro scudi.
E ora vorrei dire una cosa. Perché, a un certo punto, dei ragazzi del movimento antagonista livornese riconoscono uno della DIGOS, in borghese, che sotto i portici fa gesti, sghignazza e provoca; e gli si fanno attorno, urlandogli che quella sua bella ghigna a tagliola andrebbe spaccata. Tutto dura due minuti, poi finisce lì. La manifestazione ha da essere pacifica. Ci sono delle contraddizioni feroci. Da una parte, va all'altoparlante qualcuno che dice che una manifestazione del genere è un atto politico; dall'altra si sentono parole come apolitica, apartitica e così via. Non mi sento a mio agio, eppure in quel sentimento è contenuta anche la necessità di essere là. Assieme, magari, anche alla madre di uno di quei ragazzi assassinati, proprio quello di Livorno, che invita a “non fare casino” e a non “rovinare il carattere pacifico della manifestazione”. Insomma, come si dice, a restare nella legalità.
E tutti hanno una gran paura non solo a dire, ma persino ad accorgersi, che tutto il corteo sfila circondato dall'illegalità. Quella vera. Quella che non si fa nessun problema ad ammazzare dei ragazzi inermi, compreso il figlio della signora che invita alla calma. Si rimane ingabbiati tutti nella loro “legalità”, che ha assunto le stesse forme e le stesse caratteristiche di una galera; non si scappa. Si cammina per dei ragazzi assassinati, ma in mezzo allo scherno e alle esibizioni di muscoli degli assassini; assassini che non possono essere non dico toccati, ma nemmeno insultati. E allora mi viene terribilmente a mente che fanno bene, a ridere. Sanno bene di essere loro, a decidere. Fanno manifestare in mezzo alla paura. Hanno fatto davvero un deserto, e lo hanno chiamato pace.
È bene esserci, per vedere coi propri occhi. Vedere gli striscioni che reclamano verità e giustizia quando si sa bene che non ci sarà mai nessuna verità, nessuna giustizia. Succede quando si presuppone che uno Stato voglia autoprocessarsi, cosa che persistono a credere in molti. Anche quando i loro figli sono stati massacrati. Non si manifesta contro uno Stato assassino, ma per cercare una “verità” che non verrà mai rivelata, e una “giustizia” che semplicemente non esiste perché non può esistere e non potrà mai esistere finché verrà delegata agli assassini stessi. Tutto quanto diventa un tragico impasse. Ho il sospetto che ne verrà fuori, apolitica e apartitica, la solita “associazione di parenti delle vittime”, e perdipiù di vittime di serie D. Non si sono accorte, le madri, che i loro figli non intaccano le relazioni fra Italia e Brasile.
Forse una, una sola. Una madre, non mi ricordo nemmeno di chi, che davanti al Municipio parla per ultima dicendo finalmente un po' di cose come vanno dette. Dicendo che omicidi e suicidi in carcere sono la stessa cosa, cioè che sono tutti degli assassini. Prendendo persino il coraggio di nominare una “terrorista”, Diana Blefari Melazzi, morta come un cane disprezzato. Prima di lei, una commovente testimonianza di un'altra madre, che racconta la storia di una famiglia normale con un figlio che viene incarcerato per una “truffa informatica”, e che non torna più a casa. Commovente, sì, e terrificante. Ma, intanto, quella commozione che prende tutti sta in mezzo a un cordone di carabinieri che ridono, ridono, ridono. E nessuno di chi è presente può sperare di spegnerlo come sarebbe doveroso, quel sorriso beffardo. Bisogna stare fermi e calmi. È una manifestazione pacifica e civile, e quindi è necessario, pacificamente e civilmente, essere presi per il culo mentre si piange. C'è il tempo persino per una polemica fa “antipsichiatri” e il padre di un ragazzo triestino che accusa, per la sua morte, “due politici, due psichiatri basagliani e un prete”.
Il padre di un altro ragazzo triestino, che si chiamava come me, sembra invece uscito da un altro tempo e da un altro mondo. Curvo, con un bastone e, sulla testa, un assurdo berrettone di lana. Parla in un italiano stentato, mezzo in dialetto, leggendo da un foglietto. Racconta a modo suo quel che è successo in una sera maledetta. Racconta di un mondo semplice, di un figlio che lavorava assieme a lui un pezzo di terra, e che è stato massacrato da sei poliziotti; e conclude dicendo che queste cose non possono succedere in un paese “come l'Italia, che è civile e democratico”. Sì, un altro mondo; ma nessuno osa scuotere la testa. Nemmeno io. A questo ci hanno ridotti; io ci sono nel mezzo, cerco di berciare qualcosa all'indirizzo di quegli stronzi che continuano a ridere, ma nessuno mi viene dietro. Troppo rischio. E anch'io farò bene a starmene bello zitto, che ci ho già i miei guai. Basta poco. Ché la definizione di Stato di Polizia ce l'hai là davanti, in carne ed ossa. Lo Stato, la sua Polizia che ride, i ragazzi morti, i genitori pacifici; ma un ragazzo di quelli là, il figlio della più famosa di tutte le madri, non era pacifico. Lui in piazza c'era andato a tirargli addosso, a quei pezzi di merda. Si farebbe bene a non scordarsene. E che l'unico senso vero a tutta la manifestazione, forse, lo hanno dato proprio quei ragazzi livornesi che hanno, sia pure per un momento, cancellato il sorrisetto dalla bocca del digossino sotto i portici di via Grande. Accorgersene, comprendere, e poi andare avanti, non sarebbe costato niente. Soprattutto da parte della madre di Marcello Lonzi. Non stigmatizzare. Lo sa benissimo da chi è stato ammazzato suo figlio. La “verità” e la “giustizia” permesse dal sor prefetto sono consistite in una camminata da piazza del Voltone fino ai Quattro Mori, e ritorno. Passando per via San Giovanni, per la zona nera del dopoguerra, interdetta a tutti fino al '52 perché ancora minata. Passando davanti a bacheche sgangherate dal tempo, con sopra scritto “Partito Comunista”.
Tutto si dissolve, alla fine. Tutti via alla spicciolata. Mi ritrovo in un bar, assieme alla mia compagna, a mangiare due panini schifosi. Le racconto di come, in quello stesso bar al Logo Pio, all'angolo col viale Caprera, ci sia stato una volta a bere un bicchiere di vino e un caffè con uno che ricarica minimi termini; sarà stato duemila anni fa. Ancora una volta di fronte a Livorno, a raccontarla. Ancora una volta a aspettare qualche minuto prima di andarmene di nuovo. Ancora una volta a dirmi che sarebbe arrivata notte sui Fossi senza che in quella notte io ci fossi; ma la notte e i Fossi mi hanno salutato, e mi hanno detto di portare pazienza e di tener duro, ché tutto cambierà. E ché vinceranno l'incredibile luce di Livorno, e i suoi panni stesi al vento a drappeggiare libertà sconfinata, e a sbattere sul muso alla morte un tempo in cui tutto saprà essere restituito.