Una popolazione di negri, quasi tutta di negri, odiata dal dittatore di là dal confine. Confine su un'isola, e confine tra due lingue. Da una parte il castigliano, parlato probabilmente in qualche variante locale; dall'altra, ufficialmente, il francese e, come lingua parlata, un creolo che piglia le parole della lingua madre frullandole in Africa, coi toni, l'assenza del plurale, le particelle, i complementi numerali. Il dittatore è un tipo strano. In gioventù definito semideficiente dai suoi insegnanti, fa -in maniera abbastanza logica- un'ottima carriera militare. Prende il potere nella sua parte di isola sotto lo zoccolo di una grande unione di stati (non vi dirò quale) posta da qualche parte più a nord. Si distingue per la sua totale assenza di razzismo, tanto che durante una successiva guerra mondiale fa rifugiare talmente tanti ebrei da essere proposto per il premio Dinamite per la pace. Al contempo instaura un culto della personalità totale quanto tragicamente comico, al pari del suo pomposo nome: Rafael Leónidas Trujillo Molina.
Trujillo fa ribattezzare la capitale del suo stato Ciudad Trujillo. Il monte più alto del suo stato, che si chiamava Pico Duarte, viene ribattezzato Pico Trujillo. La città dov'era nato, San Cristobal, proprio dal nome di quel famoso navigatore, cambia nome in Trujillo e la provincia di appartenenza viene chiamata, incredibilmente, Trujillo. Sposa una bella ragazza di origine italiana, che di cognome fa Pittaluga, ma divorzia presto. Si risposa con una più ispanica Martínez, dalla quale ha due figli maschi; appassionato delle opere liriche di Giuseppe Verdi, e in particolare dell'Aida, li fa battezzare uno Rhadamés e l'altro Ramfis.
Non soltanto gli ebrei. Trujillo accoglie nella sua mezza grossa isola un numero impressionante di esuli antifranchisti. Fior di anarchici passano l'oceano per andare a stabilirsi in quella specie di Filibusta, che di Filibusta aveva quasi tutto. Quasi, dico, perché la Filibusta, quella vera, era storicamente nell'altra parte dell'isola, quella dove si parla francese e creolo. Ma tant'è, così per fare, durante la guerra il suo stato è rifugio anche per migliaia di giapponesi fuggiti dalla grande Unione di Stati dopo un certo attacco aereo al Porto-di-Perla. E tromba come un assatanato. Le varie mogli succedutesi devono stare zitte, perché lui è il padrone assoluto. È Dio. Sui colli del paese compaiono scritte cubitali: Dios y Trujillo. Il motto ufficiale è: Dios en cielo, Trujillo en tierra; il popolo, tra una sua figlia e l'altra datagli da chiavare, a costo della vita rovescia il detto in una forma elementare e sotterranea di resistenza. Realizza, come ogni dittatore, opere pubbliche, scuole e ospedali. Chi viene sorpreso per strada senza la palmita, il simbolo del partito unico, rischia la vita. Ma senza razzismo. Tranne.
Trujillo ha un odio feroce verso i negri dell'altra parte dell'isola. Non verso i negri: anzi. Lo sport nazionale della sua parte di isola è il baseball, e visto che nella grande Unione di Stati più a nord, all'epoca, i negri non li fanno giocare nelle grandi squadre, li fa ingaggiare lui. Campioni come Leroy "Satchel" Paige trovano alla sua corte i successi negati in patria dalla segregazione razziale; la squadra dove militano, e che vince tutto, si chiama Trujillo. La squadra nazionale diviene in breve la seconda del mondo. Ma i negri dell'altra parte, quelli che parlano francese e creolo, li odia. Solo loro. I negri della porta accanto.
La maggior parte di loro sono nati dalla sua parte di isola, e in quell'altra parte -poverissima e disgraziata- non sognano neppure di mettere piede. Non si parla nemmeno di "integrazione": sono cittadini come gli altri, anche se continuano a parlare quel maledetto e strano francese massacrato. Soprattutto sono incapaci di pronunciare la "r" castigliana, quella specie di feroce ruggito, e la "j", vale a dire la "acca aspirata". Li odia perché pronunciano il suo nome trüzhiyò. Li accusa, nel 1937, di rubare il lavoro, di sedizione, di furti di bestiame, di stupri. Non so, ma ho come l'impressione che mi ricordi qualcosa; ma forse mi sbaglio. Sono cose del passato: siamo nel 1937. Settantatré anni fa. Il 2 ottobre di quell'anno pronuncia un discorso alla nazione in cui annuncia che la soluzione del problema è in corso. La soluzione consisteva in uno shibboleth.
In lingua ebraica, shibboleth significa, a seconda dei casi, "torrente" oppure "spiga di un cereale". Secondo il Libro dei Giudici della Bibbia, i Galaaditi, dopo una battaglia, vollero impedire la fuga ai loro nemici, gli Efraimiti. Questi ultimi dovevano per forza passare il fiume Giordano, ma non era semplice riconoscerli; i Galaaditi ricorsero allora ad uno stratagemma linguistico. Nel dialetto degli Efraimiti, il fonema [ sh ] (la "sc" italiana di "scemo") non esisteva; pronunciavano una "s" semplice. Chiunque diceva sibboleth al posto di shibboleth veniva ucciso sul posto. Uno stratagemma usato più volte nei secoli: nella Sicilia dei Vespri, ai francesi veniva chiesto di pronunciare la parola ciciri ("ceci"), assolutamente impossibile. Fino alla seconda guerra mondiale, dove agli asiatici a Mindanao o a Iwo Jima gli americani chiedevano di pronunciare Lollapalooza. I filippini ci riuscivano, ma i giapponesi -che non hanno la "elle"-, cominciavano a dire rorra- e venivano seccati prima di finire.
Così nel 1937 in quella grossa isola. I soldati del dittatore Trujillo, sorpresi i negri, mostravano loro un mazzo di prezzemolo, vero o in effigie. In castigliano, "prezzemolo" si dice perejil. In francese, si dice persil; e, in creolo, pèsi. Tutto, in ultima analisi, proveniente dalla parola latina petroselinum, a sua volta dal greco πετροσέλινον. Alla base anche del nostro "prezzemolo" (con vari accidenti fonetici) e del fedelissimo siciliano petrosino (quello di Joe, il poliziotto ammazzato in piazza Marina, a Palermo, nel 1909). Come viaggiano le parole, eh! Qui siamo in una lontana isola, alla Filibusta. Divisa in due. Quelli di una parte, a pronunciare perejil correttamente proprio non ce la facevano; e vennero sterminati su ordine del dittatore.
Sterminati in sei giorni, dal 2 all'8 ottobre 1937. Qué es eso?, domandavano i soldati; chi sapeva rispondere perejil viveva; chi rispondeva persil o pèsi, moriva nei seguenti modi:
- bastonato a morte;
- bruciato vivo;
- impalato;
- sparato a fucilate o revolverate, però pagando.
In quei sei giorni morirono trentamila persone che non sapevano pronunciare perejil. Anni dopo, su pressione internazionale (e particolarmente di quella grande Unione di Stati più a nord), il dittatore accettò di risarcire le famiglie di quelle persone, dall'altra parte dell'isola. Il prezzo pattuito per quei trentamila prezzemoli fu di 750.000 dollari; però ne furono distribuiti circa 525.000 perché il resto se lo presero i funzionari statali di quella parte che diceva persil o pèsi. Così va.
Circa venticinque anni dopo, quel dittatore che non era razzista tranne, commise un errore. Si era invaghito di tre bellissime sorelle, le Mirabal, che avevano il vizio dell'opposizione. Aveva fatto incarcerare i loro mariti, ma quelle non cedevano. Non gliela davano. Le fece massacrare. Poi tentò di fare ammazzare il presidente del Venezuela. Il suo consigliere, il grandunionistadelnord Johnny Abbes, lo lasciò a marcire nella sua merda; il 30 maggio 1961 un gruppo di oppositori bucherellò una Chevrolet Chevy del '57 con un centinaio di colpi di fucile; l'agguato avvenne in Calle San Cristobal. Sempre Cristobal. A bordo rimase la carne macinata del dittatore Trujillo.
Dimenticavo un particolare. I nomi. Quella grossa isola e quei due stati, quello dove si parla castigliano e si dice perejil, e quello dove si parla francese e creolo e si dice persil o pèsi.
Il primo si chiama Repubblica Dominicana, e va generalmente sotto il nome di Santo Domingo.
Il secondo si chiama Haiti.
E, in conclusione di questa storia, il primo che mi dice che il terremoto è una calamità naturale, gli rompo il muso.