martedì 12 ottobre 2010

Post ottimista


Può darsi che il qui presente sia una persona costantemente fuori moda; del resto, basta vedermi. In un'epoca in cui furoreggiano le teste rasate, io mi sono fatto crescere i capelli quasi a cinquant'anni (anno più, anno meno ormai il mezzo secolo è in vista). Porto sempre le stesse cose addosso; e più passa il tempo, meno me ne frega. Va di moda smettere di fumare, e io continuo a fumare come un turco; vanno di moda i razzismi, i localismi e le identità, e io mi sento sempre più cittadino del mondo con addosso una sola identità, peraltro malandata: la mia. Anche se non mi muovo quasi più dalla Toscana. Dicevano che viaggiare e/o vivere altrove apriva la mente; comincio ad avere dei seri dubbi. Oggi tutti viaggiano dappertutto, e le menti sono sempre più chiuse e ottuse. Allora si vede che la mente aperta dipende da ben altre cose, e più che altro dalla volontà di avercela e di non cedere alle sirene che cantano da ogni parte. E quindi, me ne sto tranquillamente a casa, in una città di questo paese disastrato come disastrato è il mondo intero.

Va di moda anche il pessimismo. Anzi, il pessimismo non è mai stato di moda come ora. Essere pessimisti sta diventando un dovere, una legge. Aspettarsi che qualcosa possa cambiare, e cambiare nonostante tutto, è una specie di reato. Agire in qualche modo perché qualcosa cambi davvero è un reato vero e proprio, generalmente etichettato come "terrorismo". Sono pessimisti tutti, così come tutti sono sempre più chiusi, rintanati, impauriti, vuoti. Tutto deve andare forzatamente per il peggio, perché in un mondo di vecchi questa è la regola. In un mondo dove oramai è vecchia anche la maggior parte dei giovani. In un mondo dove i giovani che lo sono davvero crepano di fame, di stenti e di mancanza di futuro. E allora si capisce dove sta davvero tutto il problema. Ci hanno fregato col pessimismo. Ce l'hanno infilato dentro passandocelo per il culo. Abbiamo imparato gli agi e le comodità del pessimismo, che è un elemento per nulla secondario del sistema di controllo e manipolazione. Il pessimismo è reazionario. Anzi, è la reazione stessa. È l'indifferenza a ogni cosa. È la forca imbandita ad ogni coscienza, e che riproduce forche.

A forza di ripeterci che, tanto, non cambierà mai nulla, lo scopo è stato raggiunto. Nulla cambia. Si ciancia di potenti, di governi, di istituzioni e di politicanti, ma non siamo migliori di loro. Nessuno di noi è realmente disposto a muovere un dito. Anche perché, muovendolo, si rischia. Pessimismo e galera sono compagni inseparabili. Pessimismo e paura. Pessimismo e repressione. Pessimismo e mugugni inconcludenti. Chi dice: va sempre peggio, ha probabilmente messo anch'egli il suo mattoncino. Chi dice che, tanto, alla fine tutti quanti avremo due metri di terreno e che quindi non vale la pena fare alcunché, è in realtà già morto senza rendersene neppure conto. Siamo stati ammazzati a colpi di realismo, e con le accuse di utopia; non a caso, il pessimista standard afferma sempre di essere realista. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi non sa neppure che cosa sia, la realtà che lo circonda. Non la guarda, non la osserva. Non gliene importa nulla. Dalla sua bocca escono frasi fatte. A volte cita "Schopenhauer" senza nemmeno sapere se sia un filosofo, un calciatore del Bayern o un cantante rock; però qualcuno gli ha detto, o ha sentito dire, che Schopenhauer era "pessimista", e un nome così impegnativo e importante fa sempre la sua porca figura.

Io sono un ottimista incrollabile. Lo sono sempre stato. Nonostante tutti i casini che ho subito e fatto subire. Nonostante niente, poi. Non ho la benché minima intenzione di mettermi su un qualche piedistallo, anche perché soffro di vertigini e non salgo nemmeno su una seggiola per cambiare una lampadina. O ci arrivo con la mia statura, che non è bassa, o sennò faccio con una lampadina in meno. E faccio a meno di parecchie altre cose. Non sono Batman. Non sono un bel niente. Non mi attribuisco nessuna importanza. Sono, in breve, uno qualsiasi. E, al tempo stesso, totalmente unico. Un'altra abitudine fondamentale che si è persa: quella di considerarsi unici, di percepirlo, di mantenere la propria individualità in mezzo alla folla massificata. L'individualità è stata sostituita da una non meglio precisata identità, che a va a volte sotto il nome di cultura. E la cultura vera, vale a dire l'imparare e il sapere senza subordinarlo al lavoro, è stata relegata nelle attività terroristiche. Chi si dichiara identitario ha quasi sempre perso la propria individualità di essere umano. Sproloquia di radici comuni e si è divelto da solo le proprie. Suddivide e categorizza gli altri in base a codeste radici (delle quali non conosce peraltro nulla), intende decidere se volere o meno altre persone a casa sua, e intanto la casa gliela hanno sfilata di sotto il deretano. Ma non gli altri. Gliela hanno sfilata proprio quelli che gli hanno detto di difendere l'identità. E questi ultimi sanno di avere a che fare con degli imbecilli, perché sono stati loro a rimbecillirli.

E allora, continuo impeterrito ad essere ottimista, e a fare quel che mi è possibile per diffondere l'ottimismo. Senza per questo attribuirmi nessuna qualifica di rivoluzionario, o di sovversivo. Continuo a credere in una cosa semplicissima che si chiama superamento dell'esistente, e mi fa piacere che persino Marx sia d'accordo con me. Quando si smette di crederci, vuol dire che tutto sta bene com'è; e, allora, la continua lamentazione, la finta indignazione, gli strepiti e i gemiti e tutto il resto non hanno ragione di esistere. Chi dice di essere pessimista, in realtà dovrebbe semplicemente tacere. Non c'è niente di più realmente pessimista del silenzio. E, invece, quanto cianciano. Quando pessimisteggiano. Quante certezze della pena. Quanti io saprei cosa fargli a quello lì. Quante stupidissime saggezze da pizzicagnolo o da parrucchiera. Quante leghe. Quanti gesuccristi, quanti cieli, quante voglie di morire e di dare la morte. Perché il pessimismo, in definitiva, è morte.

Cambierà tutto quanto, quel famoso giorno. Ma sperandolo e basta non arriverà mai. Si può agire e fare anche con una sola parola; ma bisogna desiderare di dirla o di scriverla, e desiderarlo sul serio. Una parola assieme ad altre parole formano una collettività. A volte formano persino una classe. Eppure dicono che le classi non esistono più. Cose vecchie, scomparse, dimenticate. E ci abbiamo creduto, perché la nostra vera, unica identità è quella delle pecore. Un gregge di pessimisti belanti. L'ottimista, invece, non bela. Parla. Delle sue speranze e anche delle sue illusioni, e delle maniere in cui afferma di poterle realizzare. A volte, certo, creerà disastri. Ma mai peggiori dell'eterna stagnazione, dell'assenza di vento, del trascorrere la propria vita come tranquillissimi vermi che accettano di essere schiacciati perché è nella natura delle cose. Un'altro caposaldo del pessimista. La natura delle cose e la natura umana. Sa una sega lui di cosa sta parlando, ma gli si potrebbe efficacemente rispondere che, a quel punto, la natura delle cose esige una pernacchia sul muso, o un rutto da spettinàllo a rondemà. È una prassi che raccomando di fronte a qualsiasi pessimista. Ed è anche un'ottima cura contro la depressione, nostra e sua.

PS. Madonna quant'era brutto, Schopenhauer!