domenica 31 ottobre 2010

Metafore e paradossi


La foto sopra è stata scattata l'estate scorsa, da qualche parte vicino a Prato, da Iononstoconoriana. Possibile che l'abbia già utilizzata in qualche suo post, cosa peraltro facilmente e rapidamente verificabile; consiglio comunque di cliccarci sopra per ingrandirla, dimodoché si possa leggere bene le scritte che il guidatore del camion targato ZA 730 LT ha pensato bene di apporvi.

Avevo pensato di stendere tutto un post a base di considerazioni varie, metaforiche o meno, sull'apparente contrasto tra le due scritte presenti sul camion. I camion che si vedono sulle nostre strade, e non solo sulle nostre, si prestano bene a tale genere di cose. Pochi giorni fa, Daniela mi ha raccontato di aver visto vicino al cimitero di Piacenza un camion che recava la dicitura Schiavi Inerti. Purtroppo non ha potuto fotografare l'automezzo in questione: ne sarebbe venuta fuori una perfetta metafora sul lavoro, direi.

Ma, poi, non so sinceramente a che cosa servirebbe. Ormai, da queste parti, abbiamo già metaforizzato ogni cosa. In Italia, la metafora è da sempre al potere: in questo non abbiamo certamente dovuto aspettare un Berlusconi. Ogni cosa che è accaduta in questo paese, durante la sua storia intera, ha il sapore della metafora: cose che ne possono significare sempre, costantemente, disperatamente altre. Cose che non hanno mai un significato univoco. Traslazioni di senso e di cadaveri.

A forza di vivere immersi nelle metafore, ci si fa ovviamente l'abitudine. Quel che ad altri occhi appare incomprensibile, per noi è normale. Ma di una normalità strana, malata: quella che si percepisce come consuetudine ineluttabile senza nemmeno sforzarsi di afferrarne l'essenza, sia pur superficiale. Si galleggia sugli escrementi senza nemmeno darsi la briga di sapere di quale merda si tratti; e così le metafore imperversano, fanno parte della nostra quotidianità e, al tempo stesso, hanno cessato totalmente di adempiere alla loro funzione primaria: quella di insegnare mediante lo stimolo del paragone, talora ardito.

Metafora e paradosso. Una volta eravamo, perlomeno, un paese paradossale. C'è stato un tempo in cui si riusciva persino a farsene forza. Ora non si riesce più nemmeno ad essere paradossali. La forza sembra essersi esaurita. Un paese di vecchi incancreniti e carogneschi. Si potrebbe allora cercare di illudersi con l'estremo paradosso, con la metafora dell'ultima ora: la speranza di un'esplosione. Ma che cosa potrebbe esplodere realmente, nessuno lo sa. E nessuno, in fondo, vuole saperlo. Circoleranno ancora tanti e tanti camion con i padri pii, le vendette e gli schiavi inerti. Circoleranno ancora anche tante presupposte resistenze nucleari, ognuna nella propria stanza, ognuna ad aggrapparsi a un intrico di ultimi fili che sembrano tessuti da un enorme ragno bavoso.

Qualche tempo fa ho scritto una cosa sull'ottimismo. Era, naturalmente, un paradosso. Da qualche parte mi par di vedere nipoti di Mubarak, fantasmi di lotte, cambiamenti dietro l'angolo, famiglie prigioniere di un ingorgo sulla via del mare, salmi vomitati, vecchie foreste nel buio, ruderi, estati povere e lontane, muscoli in camicia a quadri che impugnano chiavi inglesi, navi che partono cariche di sudore, lupi sul pianerottolo, avanzi di vite e di intelligenze. L'estremo paradosso, e lo so bene, è quello di avere ancora voglia di restare qua. Ridotti, probabilmente, ad essere metafore di noi stessi. Siamo qualcosa, ma il significato è diverso. E il gioco, ora o mai più, si gioca sul cogliere il significato che abbiamo. Se vogliamo essere umani o didascalie.

venerdì 29 ottobre 2010

Sette anni di galera a chi si oppose alla guerra




Sono anch'io pienamente convinto che alla firma di appelli sia sempre da preferire l'azione diretta. Ma neppure me la sentirei mai di non aderire a questo particolare appello, e per una miriade di motivi. Invito quindi tutti coloro che capitino su questo blog, per una ragione o per l'altra, oppure semplicemente per caso, a dare un'occhiata a quanto segue e eventualmente a sottoscrivere l'appello in questione.

APPELLO - Giustizia ed equità per chi manifestò contro la guerra.



Il 5 novembre 2010 comincerà il processo di appello per i fatti avvenuti oltre dieci anni fa, il 13 maggio 1999, nei pressi del consolato statunitense di Firenze. Quel giorno migliaia di persone parteciparono a una manifestazione contro la guerra in Jugoslavia, che si concluse appunto sotto il consolato. Vi fu un breve concitato contatto fra le forze dell'ordine e i manifestanti, per fortuna senza conseguenze troppo gravi, se non alcuni manifestanti contusi, fra cui una ragazza che dovette essere operata ad un occhio.

Nessuno, sul momento, fu fermato o arrestato, ma in seguito vi furono identificazioni e denunce. Si è arrivati così alle condanne di primo grado, molto pesanti per i 13 imputati: ben sette anni, per le accuse di resistenza aggravata a pubblico ufficiale. Nel dibattimento si sono confrontate le tesi - molto divergenti – delle forze dell'ordine e dei manifestanti.

Non intendiamo sindacare le procedure legali, né esprimere giudizi tecnico-giuridici sulla sentenza, ma ci pare che le pene inflitte in primo grado e le loro conseguenze sulla vita delle persone imputate, siano del tutto sproporzionate rispetto alla reale portata dei fatti.

Non vi furono, il 13 maggio 1999, reali pericoli per l'ordine pubblico o per l’incolumità delle persone, e non è giusto - in nessun caso – infliggere pene pesanti, in grado di condizionare e stravolgere l'esistenza di una persona, per episodi minimi: perciò esprimiamo la nostra pubblica preoccupazione in vista del processo d'appello, convinti come siamo che la giustizia non possa mai essere sinonimo di vendetta e nemmeno strumento per mandare messaggi "esemplari" a chicchessia.

Seguiremo il processo e invitiamo la cittadinanza a fare altrettanto, perché questa non è una storia che riguarda solo 13 persone imputate, ma un passaggio significativo per la vita cittadina e per il senso di parole e concetti che ci sono cari, come democrazia, giustizia, equità.


*** Primi firmatari: Alessandro Santoro, Comunità delle Piagge | Andrea Calò, consigliere provinciale | Andrea Satta, musicista, Tete de bois | Angela Staude Terzani, scrittrice | Beatrice Montini, Giornalisti contro il razzismo | Carlo Bartoli, giornalista | Catia di Sabato, rappresentante studenti universitari | Chiara Brilli, giornalista | Christian De Vito, ricercatore | Corrado Mauceri, Comitato per la difesa della Costituzione | Cristiano Lucchi, giornalista | Domenico Guarino, giornalista | Emiliano Gucci, scrittore | Enrico Fink, musicista | Enzo Mazzi, Comunità dell'Isolotto | Filippo Zolesi, Sinistra unita e plurale | Folco Terzani, scrittore | Francesca Chiavacci, consigliera comunale | Francesco di Giacomo, musicista Banco del Mutuo Soccorso | Francesco Pardi, senatore | Giuliano Giuliani e Haidi Gaggio Giuliani, genitori di Carlo Giuliani | John Gilbert, Statunitensi contro la guerra | Lisa Clark, Beati i costruttori di pace | Lorenzo Guadagnucci, Comitato verità e giustizia su Genova | Luigi Ciotti, prete | Mauro Banchini, giornalista | Mauro Socini, presidenza Anpi Firenze | Marcello Buiatti, biologo | Marco Vichi, scrittore | Maria Grazia Campus, Comitato bioetica Regione Toscana | Maurizio De Zordo, Lista di cittadinanza perUnaltracittà | Miriam Giovanzana, Terre di mezzo | Moreno Biagioni Rete Antirazzista fiorentina | Ornella De Zordo, consigliera comunale | Paolo Ciampi, giornalista e scrittore | Paolo Solimeno, Giuristi democratici | Petra Magoni, musicista | Pietro Garlatti, rappresentante studenti universitari | Raffaele Palumbo, giornalista | Riccardo Torregiani Comitato fermiamo la guerra Firenze | Sandra Carpilapi, Sinistra unita e plurale | Sandro Targetti, Comitato No Tav | Sandro Veronesi, scrittore | Sara Vegni, Comitato 3 e 32 | Sergio Staino, vignettista | Simona Baldanzi, scrittrice | Ulderico Pesce, attore e regista | Vincenzo Striano, referente associazionismo.

Altri comunicati di solidarietà con gli imputati sono visibili sul sito del CPA - Centro Popolare Autogestito Firenze Sud.

martedì 26 ottobre 2010

La bolletta della luce


C'era un ragazzo, stasera tardi quando sono tornato a casa, appoggiato a una macchina nel parcheggio buio. Non sono più le chiare notti d'estate, queste; l'autunno avanza a gran passi, e l'inverno è appena là oltre la soglia. Nel cielo, una luna che si perde tra le agitate danze delle nuvole; e le ultime zanzare a ronzarsi la loro ora estrema. Stava là, appoggiato a una vettura che poteva o non poteva essere la sua; in silenzio, a fumare una sigaretta, quieto, con la testa bassa.

Quando rientro, a ore talvolta non ordinarie, non c'è mai nessuno. La pizzeria è già chiusa da un pezzo, e non c'è nemmeno un lampione; rare anche le finestre ancora illuminate che si scorgono. Di fronte, il campo sportivo è spettrale; come se vi si stesse svolgendo una partita d'un'altra e sconosciuta dimensione. Mi accade sovente di dover parcheggiare proprio nella zona più lontana dall'ingresso di casa, e di aver da attraversare tutto quel piccolo mare oscuro; ma, forse stranamente, non mi incute nessuna paura. Non vedo briganti pronti ad assalirmi, e coi fantasmi ho una certa qual consuetudine come tutti quanti. Assieme ai fantasmi passiamo la vita intera, e si arriva ad un punto in cui ritrovarsene uno davanti in un parcheggio buio, ad un'ora pur che sia autunnale e tetra, non farebbe nessuna impressione neppure se sciorinasse tutti gli ammennicoli del visionario di Providence. Lo si potrebbe quasi invitare a scendere, aprire la porta e offrirgli un bicchierino di sambuca.

Ma quel ragazzo non era un fantasma. Era là, appoggiato alla macchina, e fumava come se quella sigaretta non dovesse finire mai. Come fosse l'ultima di un condannato a morte. Ho provato un imbarazzo terribile, inconsueto; come se stessi, seppur involontariamente, violentando qualcosa. Di solito, quando arrivo, sbatto la portiera della macchina con un moto quasi di rabbia; e bravi voi, a dormirvela alla grossa mentre a me è toccato tornare a quest'ora perché, oltre al lavoro, mi sono dovuto sorbire una riunione sui consorzi per le emergenze sanitarie. E allora tiè, beccatevi 'sta sportellata, ché magari vi sveglia. Stavolta no. Ho chiuso delicatamente lo sportello, cercando di fare il meno rumore possibile. In mano, le chiavi sembrava quasi ballassero; mi sono cadute per terra.

Potevo, chissà, essere l'ultima persona che quel ragazzo avrebbe vista. E mi sono sentito maledettamente fuori luogo, sbagliato nel posto sbagliato. E capivo anche fin troppo bene, ricordandomi in una frazione di secondo di quante volte ho ricercato un posto scuro e fuori da ogni cosa, cacciando fuori il pacchetto di sigarette. Si diventa, in quei casi, una specie di mimo. Si ha da dire ogni cosa al niente e al silenzio, perché il niente e il silenzio possono essere i soli cui aver da dire davvero qualcosa. Si trasfigura in impercettibili gesti e si scompare nel nulla e nella finta del coraggio. E tutto ha una sua scansione millimetrica. Niente e nessuno dovrebbe comparire a disturbare quei momenti, perché potrebbero portare a tutto. Alla morte come a una nuova vita. Potevo, chissà, essere la prima persona che quel ragazzo avrebbe vista dopo essersi trasformato. Le trasformazioni sono questione di un secondo. L'istante prima si è da una parte, l'istante dopo da un'altra. La sigaretta viene accesa in un mondo, e spenta in uno differente.

Non si è mosso, mentre io, volendo fare in fretta, declinavo scrupolosamente ogni goffaggine che mi si stava scatenando. Lo zaino scivolato dalla spalla, il colpo di tosse convulsa, i passi che si allontanavano. E non ho osato voltarmi indietro mentre mi dirigevo verso il cancello dello scivolo, nemmeno quando ho visto sporgere una busta dalla cassetta della posta. Velocemente l'ho presa senza aprire la buca; non ho nemmeno guardato che cosa fosse.

Una volta entrato in casa, mentre il ragazzo forse era ancora là nel suo buio e possibilmente nel suo volo verso un oltre, mi sono accorto che era la bolletta della luce. Me l'aveva combinata bella, l'Enel: non si sa come, mi aveva modificato il contratto in utenza non residente. Dopo la terza o quarta fattura mostruosa, roba da 250 euro a botta, mi sono accorto della minuscola dicitura che specificava il tipo di utenza. E mi sono incazzato come una jena, attaccandomi ai numeri verdi, gialli e rossi del fornitore. Mi è toccato autocertificarmi, mandare fax, spedire il certificato storico di residenza; e alla fine quella bolletta che avevo in mano era a zero. Non solo: mi prennunciava pure un rimborso per tutto quel che avevo pagato ingiustamente per un loro ghiribizzo. O forse no, magari avevo sbagliato qualcosa io, forse non avevo spedito qualche documento. O chissà. Mi è venuta voglia, con in mano quel foglio di non pagamento, di accendere ogni cosa in casa; luci, lampadine, faretti, plafoniere, persino il forno. Un visibilio di luce. Un accecamento di fotoni. È andata a finire, poi, che ho acceso soltanto la lampadina economica del tavolino da lavoro, che son quasi tre anni che funziona senza essersi mai fulminata.

E così, due minuti fa, son tornato su nel parcheggio, facendo piano piano e camminando rasente al muro come un ladro di solitudini. Non sapevo perché; o, forse, volevo per una volta provare ad essere invisibile. C'era il gatto che passava, e quando passa un gatto nella notte sembra sempre che sia lui a trascinare le nuvole che giocano a rimpiattino con la luna e con ottobre, come fossero il suo aquilone. Il ragazzo non c'era più. La macchina c'era, invece, ancora. Per terra, il mozzicone di una sigaretta. E allora me ne sono accesa una anch'io, sperando che anche a lui fosse mandata un po' di luce senza doverla sempre pagare.

domenica 24 ottobre 2010

Only a pawn in their game


Dear Sakineh, they don't give a damn about your life or death. It's equal to them. There's a state and there's a prison where they locked you all away, just like thousands and thousands of human beings, men and women. That's all. Any prison is a death row. I'm writing from a so-called democratic country where the death penalty may be inflicted to anyone who is put into a jail, no matter what he's done. 2010: 54 people died in prison in Italy. Italy, the same country that seems to have adopted you as a symbol.

Just one month ago or so, you used to be a strategic figure in the Italian newspapers, because you come from a strategic country. You don't lie in jail; you lie -with you body, your story, your life, your humanity, your womanness- in the depth of uranium. You lie in oil fields. You lie in money and trade. You lie in the civilization crash games. No prison, even the hardest one, could compete with all this. No death penalty could compete with the penalty of being used as a pawn. Because that's just what you are, or used to be: a pawn in their game.

You probably don't know what's happened in this country, and in other democratic countries as well. They needed someone who could fit well in their war game, and you are definitely perfect. First, you are a woman. You know: women are free in our country. They aren't imposed to wear anything on their head, and that's freedom. On the other hand, they are beaten, killed, stabbed, exploited, raped, slaughtered, harrassed, stalked etc., just like in your country. And that's freedom, too. They put a woman in a death row and kill her, just like in your country; and that's freedom, too. They take your picture and put it on monuments, state buildings and stadiums, and that's freedom. They take their intellectuals, their journalists and their media and put them to the service of their strategy, as long as you may be useful to them in terms of business.

You are no woman. You are no human being. Should you be born elsewhere, you would be ignored. You are a campaign. You are an instrument of mind manipulation, and everyone of us could be used the same way. They say they want to save you; you see, Sakineh, they've already killed you. You didn't work that well. There was something too false in all this. Their enterprise is already looking for some other product. It's hard to say this. It's not your fault. As a product, you can be used and thrown into the waste bin. A disposable symbol.

I hope, of course, that your life will be spared; and there's something dark and terrible in this word. And then? Years of prison, of death disguised in life. Anyway, you're already forgotten. Your picture has been removed from monuments and newspapers. Gone out of fashion. Well, you could briefly get back into fashion if your State would decide to get rid of you; and, I tell you, that's just what they are waiting for. I mean those who used to yell and bark "Save Sakineh": they're those who want you dead. You know: a disposable symbol is better when dead.

By the way, I want to tell you one thing. You've been superseded. New fashion meat. A fifteen years old girl killed by her family, for instance: and all the Italian media got desakinehized. She's a pawn in their game, too. Just like you. Just like us. And this game must be stopped before it's too late.

lunedì 18 ottobre 2010

Brother George!


Il 18 ottobre, per il sottoscritto, è sempre una giornata un po' particolare. Oramai, certamente e fortunatamente, più che altro per affetto e per l'esercizio del ricordo che s'allontana; però di sorprese questo giorno riesce ancora a riservarmene.

Proprio oggi, infatti, scopro di avere un inatteso fratello antifacebucchista: nientepopodimeno che il signore ritratto nella foto sotto il titolo. Ebbene sì, proprio lui: George Timothy Clooney. E non è cosa da poco, in tempi di testimonial a gogò; finalmente anch'io, e tutti gli indefessi odiatori & spregiatori dell'invenzione del signor Montedizucchero, abbiamo qualcosa (anzi qualcuno) da opporre. Eccheccactus! D'ora in poi sono finiti i tempi della clandestinità o quasi: potrò e potremo finalmente dire che abbiamo George Clooney dalla nostra parte!

La notizia, peraltro, dev'essere attendibile se proviene nientepopodimeno che dal Portale modaiolo di Repubblica. Come tutti sanno, se c'è un'entità che ha sfacebuccato a piene mani, questa è proprio Repubblica; oggi, in Seidimoda, pubblica invece un'interessante gallery piena di gnus decisamente sorprendenti. I divi italiani non amano Facebook. Giorgio Faletti, Monica Bellucci e Raoul Bova non amano i social networks perché sono pieni di falsi profili. Ehehehe. O bellini, ma credevate che fosse soltanto una prerogativa del sottoscritto? !?....

Ma la gallery fornisce anche altre notizie degne di attenzione. Ad esempio, invece, negli Stati Uniti (e dico sega, mica in Bhutan o nel regno dello Swaziland...) i divi generalmente amano Facebook e i social networks. Ma qui comincia l'indimenticabile performance dell'autore del breve commento alla gallery. Tra le star amanti di FB, l'articolista nomina infatti per prima tale Demi Morre (sic). Ora, tenendo presente che, in lingua portoghese, morre significa "muore" (nel senso di "crepa, decede, tira il calzino, e vita egredit" eccetera), fossi la bella Demi farei non pochi scongiuri.

Ma la cosa senz'altro più bella avviene proprio durante la declinazione di antifacebucchismo del fratello irriducibile George Timothy Clooney. Nella "A-List" dei divi ollivudiani, infatti, secondo Repubblica ce ne sarebbero molti allergici a "Fecebook". Scritto proprio così. Non ci credete? Per fortuna hanno inventato San Screenshot (cliccare sull'immagine per ingrandirla):


Insomma, proprio dagli apostoli italici di Facebook arriva il lapsus freudiano: il socialon de' socialoni sarebbe, praticamente, il "libro della feccia", o meglio il "libro della merda" (latino faex, faecis "feccia, escremento"). Eh sì. Il 18 ottobre rimarrà per sempre una data da ricordare!


Bandiere, ispettori, rulli di Tamburini e un'antica Internazionale


Poiché Livorno la conosco bene, anzi molto bene, capisco che sia tuttora non facile, in quella città, essere un centrodestro. Attenzione: un centrodestro, non un fascista. Contrariamente a quello che si crede generalmente, a Livorno di fascisti ce ne sono parecchi, e pure qualche fascistone bello e buono. E non hanno mai avuto eccessivi problemi. Abitavo, a Livorno, all'inizio di via Garibaldi (all'angolo con via della Campana); via San Marco, dove si trovano i resti dell'omonimo teatro nel quale ebbe fondazione, nel 1921, il Partito Comunista d'Italia, si trova nemmeno a cinquecento metri da lì. Basta farsi gli Scali delle Cantine, passare il Pontino e s'è bell'e arrivati. Un quartiere dove, quando ci abitavo, Rifondazione Comunista pigliava quasi il 40% dei voti. C'era una sezione del medesimo partito in via del Leone, intitolata a Ilio Barontini. In via delle Lastre, a pochi metri di distanza, c'era invece la sede livornese della Fiamma Tricolore. Tanto per dire, insomma. Non che la cosa mi sia mai interessata granché, ma il fascismo, a Livorno, è sempre allignato e senza la benché minima remora; e forse sarà anche bene ricordare che una delle principali attrattive di Livorno, la splendida terrazza sul mare che ora va sotto il nome di Terrazza Mascagni, fu fatta costruire dal gerarca fascista livornese Costanzo Ciano, il padre di Galeazzo. E fino alla caduta del regime si chiamò, di conseguenza, Terrazza Ciano.

Sì, d'accordo; ma qui si sta parlando di centrodestri. Quelli del duemiladieci. Quelli del Giornale. Quelli là, e non solo loro. In questo caso non si può parlare nemmeno di fascisti, perché questi non sono realmente niente. Più vo avanti, e più mi appaiono totalmente slegati dalla realtà, svaniti, con la mente a battere la campagna. Ora, ad esempio, ce l'hanno con delle bandiere rosse che, secondo loro, "sventolerebbero su una scuola"; naturalmente, un'idiozia del genere altro non poteva che provenire dal Giornale, e non poteva che essere raccolta dalla Gelmini. La quale si è immediatamente attivata per mandare degli ispettori a verificare. Ora, dovete sapere che a Livorno, in quel luogo storico, di bandiere rosse ce ne sono sempre state. Ogni anno. Non sventolano su una scuola, ma su quel che resta di un teatro il quale, come tutta Livorno, fu pressoché polverizzato dai bombardamenti della II guerra mondiale. Livorno ha subito 91 bombardamenti aerei a partire dal primo, quello rovinoso del 28 maggio 1943. Del suo centro storico di impianto mediceo non è rimasto quasi niente, a parte quel po' di Venezia che comincia proprio alla fine di via San Marco. Se uno si premura di fare ancora qualche passo e raggiungere il viale Caprera e il Logo Pio, le rovine della guerra le vede ancora. In Piazza dei Legnami, sempre a pochi metri da via San Marco, uno stabile ancora in rovine dalla guerra è stato rimesso in sesto (e trasformato in residence) soltanto pochi anni fa, proprio quando stavo a Livorno. La scuola, in via San Marco, ce l'hanno messa dopo. È sulle rovine del teatro San Marco, mai ricostruito, che sventolano le bandiere rosse. Se ne sono accorti ora, però, perché hanno avuto da trovare qualcosa a cui attaccarsi dopo che una scuola, e stavolta una autentica e costruita ex novo, è stata riempita in ogni centimetro quadrato dei simboli di un partito xenofobo, razzista, nazista. Verrebbe da dire: naturalmente. Il giornaletto dell'inventore di "attentati" (visto come non se ne sta parlando assolutamente più?) scova e Attila Gelmini esegue. Quella che ben presto riuscirà ad affiancare altre rovine a quelle del teatro San Marco, così non ci saranno più problemi. Le rovine della Scuola Pubblica. Quella che pompa soldi pubblici nelle scuole private, che di simboli, croci, santi e madonne ne ostentano a loro piacimento.

Non soltanto le bandiere. A Livorno, tra i centrodestri, c'è anche tale signor Bruno Tamburini. Dicevo prima: slegati dalla realtà, svaniti. Ora mi chiedo anche dove sia vissuto finora questo Tamburini, che fa persino il consigliere comunale; stava forse nelle campagne di Cenaia, dallo zio Gosto? Oppure ancora non ha trovato il senso giusto per scendere giù da via di Popogna? Non si è mai mosso da Quercianella? Sì, perché il signor Tamburini ha scoperto soltanto nell'ottobre del 2010 che in via San Marco, sulle rovine del teatro eccetera, c'è una lapide che ricorda la fondazione del PCdI. La quale sta lì esattamente da 61 anni (fu apposta nel 1949) ed è, probabilmente, la lapide più famosa di tutta Livorno. Contiene, tra gli altri, il nome di Stalin. "Quando il consigliere comunale Bruno Tamburini (PdL) se n'è accorto, ha subito gridato allo scandalo". Lo scandalo mi sembra invece che un livornese che è stato messo lì, non si sa per quali eccelsi meriti, a fare il consigliere comunale, sia totalmente ignorante della sua città e della sua storia. A Livorno, quella lapide la conoscono pure i bambini, i gatti, i cani e i pisani; solo il signor Tamburini Bruno se n'è accorto da un paio di giorni.

Si dice a volte, di qualcuno un po' tonto o distratto, che non riuscirebbe nemmeno a trovare l'acqua in mare. A Livorno, che è città di mare, questo mi sembra ancora più grave; anche perché suona falso lontano un miglio. In realtà, il Tamburini la lapide la conosce benissimo. In via San Marco ci sarà stato e ristato. Con la sua uscita, appaiata a quella del Giornale e di monna Gelmini, ha soltato inteso ribadire il nulla di cui il "PdL", livornese, toscano e nazionale, è fatto. Essendo il nulla, si attacca al nulla. C'è Stalin sulla lapide? Beh, al Tamburini livornese si potrebbero ricordare ben altre vestigia che Livorno presenta. Presenta, soprattutto, la sua totale distruzione grazie a una guerra scatenata dal nazifascismo.


E tanto che ci sono, vorrei far anche leggere al Tamburini, ai tamburini tutti produttori di rulli che fanno tanto rumore e poi si perdono nel silenzio, ai Giornali e ai poveri centrodestri che ora come ora verrebbero schifati persino dai pochi fascisti autentici rimasti, che cosa si cantava a Livorno negli anni in cui si apponevano certe lapidi sulle sue macerie. Si cantava una versione dell'Internazionale che mi fu insegnata quand'ero là, da un anziano comunista che ancora se la ricordava. Faceva così, e sono certo che il signor Tamburini non ne sospetta nemmeno l'esistenza. Scriva un po' al suo Giornale per cancellarmela, e vediamo un po'.

L'INTERNAZIONALE DEI PORTUALI LIVORNESI

Compagni! Avanti, al porto, al mare
si va da tutta la città!
Il popol vuole lavorare,
e non esser mai più sfruttà.
Noi marciamo qui sulle rovine
d’una guerra che ci schiantò,
ma ora sorgon le mattine
di nuova forza che ci animò!

E’ la lotta finale,
dei compagni sul mar!
L’Internazionale
andiamo a realizzar.
Lottiam per l’ideale
che vogliamo istigar,
L’Internazionale
il mondo cambierà!

Dal mare s’alzan grida forti,
di marinar, di pescator;
sono i compagni che son morti
per combattere l’oppressor.
Non c’è posto qui, vile fascista
che dal mondo si scaccerà,
perché Livorno comunista
dalla miseria risorgerà!

E’ la lotta finale,
dei compagni sul mar!
L’Internazionale
andiamo a realizzar.
Lottiam per l’ideale
che vogliamo istigar,
L’Internazionale
il mondo cambierà!

Sarà la lotta d’ogni giorno,
sarà la lotta del portual;
noi volgerem lo sguardo attorno
riprendendoci l’ideal!
Nasce già da rovine e macerie
l’alba nuova dell’avvenir;
rinasce ognor dall’intemperie
una speranza e non vuol morir.

E’ la lotta finale,
dei compagni sul mar!
L’Internazionale
andiamo a realizzar.
Lottiam per l’ideale
che vogliamo istigar,
L’Internazionale
il mondo cambierà!

E il popolo di tutto il mondo
s’unisce a noi per terra e mar;
non più schiacciato e moribondo
presto si andrà a ribellar!
Forza, unione e organizzazione
e lo sciopero general;
avanti alla Rivoluzione,
lottiamo pel nostro Germinal!

E’ la lotta finale,
dei compagni sul mar!
L’Internazionale
andiamo a realizzar.
Lottiam per l’ideale
che vogliamo istigar,
L’Internazionale
il mondo cambierà!


sabato 16 ottobre 2010

Brave persone


"Alessio non è un assassino, lui e la sua famiglia sono brave persone".

"Non lo ha fatto apposta".

"Ci abbiamo parlato su Facebook e ha detto che sta male. Ci ha detto che l'ha colpita perché aveva paura, perchè la signora aveva messo le mani nella borsa. E' un bravo ragazzo..."

"L'ho visto nascere - dice dispiaciuta un'anziana signora del suo palazzo - spero non lo portino in carcere, è un ragazzino, non se lo merita".


Trăind în cercul vostru strâmt
Norocul vă petrece;
Ci eu în lumea mea mă simt
Nemuritor şi rece.

Mihai Eminescu, Luceafărul.

giovedì 14 ottobre 2010

Uova fatali


Il signore che vedete nella foto se ne intendeva di uova fatali. Ah, dimenticavo, si chiamava Michail Bulgakov, s'intendeva anche di diavoli in visita nell'Unione Sovietica nata da poco, e persino di cuori di cane nei casini della NEP. Le uova fatali di Bulgakov, come tutti sanno, sono quelle del famoso professor Persikov, che durante un esperimento con delle uova aveva scoperto un "raggio rosso" che accelerava la crescita degli organismi viventi. Proprio in quel periodo le galline di Mosca erano state colpite da una malattia contagiosa, e quindi il governo sovietico pensa di utilizzare il raggio in una fattoria. Ma, per errore, al professor Persikov arrivano delle uova di gallina, mentre alla fattoria statale arrivano uova di coccodrillo e di serpente che, sottoposte al raggio rosso, generano dei mostri che devastano i quartieri periferici di Mosca e uccidono tutti coloro che si trovano nella fattoria.

Anche noi, ora come ora, ci abbiamo le nostre uova fatali. Non generano mostri, ma accuse di terrorismo, sequele infinite di messaggi di solidarietà, inchieste frenetiche da parte delle questure, reportages dei telegiornali. Succede così: c'è un signore da queste parti, tale Bonanni, il quale è alla guida di qualcosa che -con una boutade degna del miglior Bulgakov (che era un umorista finissimo)- viene definito un sindacato. Da un po' di tempo qualcuno ha cominciato a fargli presente che la definizione esatta del suo mestiere non è quella di "sindacalista", bensì quella di servo. Non che sia l'unico, ci mancherebbe; però il signore in questione sembra essersela presa oltre misura. E che diamine, io non vedo proprio come mai. Mia zia Clara è stata a servizio per tutta la vita da una famiglia di milanesi coi soldi che abitavano all'Elba, e quando gli dicevano che faceva la serva non se la prendeva mica così tanto; anzi, quando inventarono la qualifica di colf si mise a ridere di gusto. Come dire: le parole non nascondono la realtà delle cose. Mia zia faceva la serva ed era inutile chiamarla colf; Bonanni fa il servo ed è inutile chiamarlo sindacalista.

Al Bonanni, qualche tempo fa, mentre era stato invitato a parlare a Torino a una festa democratica, qualcuno è andato a dire sul muso due cosine; è partito il famoso fumogeno, e il cielo s'è aperto. Mi chiedo a questo punto come il Bonanni avrebbe reagito ad uno solo dei candelotti lacrimogeni che la polizia italiana ha distribuito a tonnellate sul muso di chi manifestava dissensi, cosa che a rigor di logica dovrebbe essere altrettanto democratica; e poiché i candelotti son poca cosa, sono state distribuite anche decine di morti ammazzati. Il Bonanni ha ricevuto qualche salva di fischi, un paio di striscioni e un fumogeno che lo ha appena sfiorato, facendo giustappunto un po' di fumo. Non lacrimogeno. Terrorismogeno e solidarietogeno, casomai. Una cosa che non rientra nella legalità, perché la legalità è quella di vendersi al padrone assieme a tutta la sua specie di "sindacato".

Da qualche giorno, le sedi di quel "sindacato" stanno subendo dei gravissimi attentati terroristici. Qualcuno, nottetempo, vi appone delle scritte di protesta con la vernice o le bombolette spray, e vi lancia contro delle uova. Atti assolutamente inauditi e che mettono a repentaglio l'incolumità: quella delle uova, sicuramente. Si rompono e fanno sui muri della CISL delle strisciate giallastre. Talvolta si arriva al tremendo risultato di qualche pezzo di guscio che resta attaccato al tuorlo che cala giù. Il Bonanni, magari fumandosi un sigaro che manda più fumo del fumogeno di cui è stato fatto segno a Torino, grida a questo punto allo squadrismo; è una prassi oramai consolidata. Gli squadristi delle uova tirate sui muri. Nemmeno gliele tirassero in faccia; ma capisco che per uno come il Bonanni sarebbero del tutto sprecate. Visto il tipino che è, poi, sarebbe pure capace di mangiarsele al volo.

Del resto, siamo in un periodo in cui tracciare una scritta su un muro e lanciare delle uova contro una finestra o una parete è terrorismo. A questo punto, non c'è che da augurarsi che non compaia un nuovo professor Persikov con qualche raggio rosso, ma rosso sul serio. Il raggio dell'incazzatura seria. Quello che, diretto sulle uova lanciate contro il servo di turno, e contro il "sindacato" padronale, non generi affatto mostri, perché i mostri oramai sono stati già generati e ci governano, e ci disoccupano, e ci precarizzano, e ci vendono, e ci ammazzano. No. Un raggio rosso che trasformi le uova, ad esempio, in questa cosa qui sotto:


Tanto, sarebbe lo stesso. Se per due uova e una scritta si è terroristi e squadristi, se si può finire indagati e arrestati, se si può finire sui TG trasformati in sovvertitori della legalità, allora tanto varrebbe. Ma il Bonanni non abbia paura. Non esiste nessun raggio rosso, a parte lui. Sono lui e quelli come lui che riusciranno a trasformare le uova, prima o poi, in qualcosa di ben più serio. Perché sono loro i terroristi. Dovrebbero avere paura di se stessi, non delle uova di gallina e delle scritte; e di solito ha una gran paura chi ha la coscienza sporca come una fossa biologica, e che cerca di coprirla con strepiti ancora più ridicoli della solidarietà dei suoi compari. E allora sì che, un bel giorno, ci saranno le uova fatali. Si sentono già rompersi, assieme ai coccodè disperati di tutto il pollaio che brucia.

martedì 12 ottobre 2010

Città sante


Città santa n° 1
Gerusalemme /
القُدس / ירושלים

Dati:

a) Bambino di anni 8, palestinese
b) Colono israeliano a bordo dell'autovettura
c) Bambino investito a tutta velocità, senza frenare
d) Sassaiola
e) Colono esponente della "destra religiosa"
f) Finanziamenti da parte degli Stati Uniti
g) Bambino di anni 8 arrestato
h) Colono immediatamente rilasciato
i) Solidarietà a Israele
j) Fiamma Nirenstein dirà che il bambino stava facendo break dance sul cofano della vettura del colono israeliano, destro, religioso, finanziato
k) Fiaccolata organizzata dai radicali in solidarietà al cofano dell'autovettura.



Città santa n° 2
Roma / روما / רומא

Dati:

a) Donna, anni 32
b) Uomo, anni 20
c) In fila a una stazione per prendere un biglietto
d) Uomo colpisce donna e la manda in coma, dopo averla inseguita
e) Donna rimane a terra nell'indifferenza generale
f) Uomo: Bravo ragazzo e non violento (by Regio Carabiniere®)
g) Denunce, ordini pubblici, eserciti, misure, ciance, sicurezze, riciance
h) Fra 2 giorni, forse meno, sarà colpa della donna
i) La quale è, perdipiù, cittadina di quello che, nel dicembre del 1989,
era un paese fratello che si liberava dal giogo del comunismo
j) Le parole sopra furono pronunciate, all'epoca, da Gianfranco Fini.

Chiedo scusa a tutti per questa overdose di santità.

Post ottimista


Può darsi che il qui presente sia una persona costantemente fuori moda; del resto, basta vedermi. In un'epoca in cui furoreggiano le teste rasate, io mi sono fatto crescere i capelli quasi a cinquant'anni (anno più, anno meno ormai il mezzo secolo è in vista). Porto sempre le stesse cose addosso; e più passa il tempo, meno me ne frega. Va di moda smettere di fumare, e io continuo a fumare come un turco; vanno di moda i razzismi, i localismi e le identità, e io mi sento sempre più cittadino del mondo con addosso una sola identità, peraltro malandata: la mia. Anche se non mi muovo quasi più dalla Toscana. Dicevano che viaggiare e/o vivere altrove apriva la mente; comincio ad avere dei seri dubbi. Oggi tutti viaggiano dappertutto, e le menti sono sempre più chiuse e ottuse. Allora si vede che la mente aperta dipende da ben altre cose, e più che altro dalla volontà di avercela e di non cedere alle sirene che cantano da ogni parte. E quindi, me ne sto tranquillamente a casa, in una città di questo paese disastrato come disastrato è il mondo intero.

Va di moda anche il pessimismo. Anzi, il pessimismo non è mai stato di moda come ora. Essere pessimisti sta diventando un dovere, una legge. Aspettarsi che qualcosa possa cambiare, e cambiare nonostante tutto, è una specie di reato. Agire in qualche modo perché qualcosa cambi davvero è un reato vero e proprio, generalmente etichettato come "terrorismo". Sono pessimisti tutti, così come tutti sono sempre più chiusi, rintanati, impauriti, vuoti. Tutto deve andare forzatamente per il peggio, perché in un mondo di vecchi questa è la regola. In un mondo dove oramai è vecchia anche la maggior parte dei giovani. In un mondo dove i giovani che lo sono davvero crepano di fame, di stenti e di mancanza di futuro. E allora si capisce dove sta davvero tutto il problema. Ci hanno fregato col pessimismo. Ce l'hanno infilato dentro passandocelo per il culo. Abbiamo imparato gli agi e le comodità del pessimismo, che è un elemento per nulla secondario del sistema di controllo e manipolazione. Il pessimismo è reazionario. Anzi, è la reazione stessa. È l'indifferenza a ogni cosa. È la forca imbandita ad ogni coscienza, e che riproduce forche.

A forza di ripeterci che, tanto, non cambierà mai nulla, lo scopo è stato raggiunto. Nulla cambia. Si ciancia di potenti, di governi, di istituzioni e di politicanti, ma non siamo migliori di loro. Nessuno di noi è realmente disposto a muovere un dito. Anche perché, muovendolo, si rischia. Pessimismo e galera sono compagni inseparabili. Pessimismo e paura. Pessimismo e repressione. Pessimismo e mugugni inconcludenti. Chi dice: va sempre peggio, ha probabilmente messo anch'egli il suo mattoncino. Chi dice che, tanto, alla fine tutti quanti avremo due metri di terreno e che quindi non vale la pena fare alcunché, è in realtà già morto senza rendersene neppure conto. Siamo stati ammazzati a colpi di realismo, e con le accuse di utopia; non a caso, il pessimista standard afferma sempre di essere realista. In realtà, nella stragrande maggioranza dei casi non sa neppure che cosa sia, la realtà che lo circonda. Non la guarda, non la osserva. Non gliene importa nulla. Dalla sua bocca escono frasi fatte. A volte cita "Schopenhauer" senza nemmeno sapere se sia un filosofo, un calciatore del Bayern o un cantante rock; però qualcuno gli ha detto, o ha sentito dire, che Schopenhauer era "pessimista", e un nome così impegnativo e importante fa sempre la sua porca figura.

Io sono un ottimista incrollabile. Lo sono sempre stato. Nonostante tutti i casini che ho subito e fatto subire. Nonostante niente, poi. Non ho la benché minima intenzione di mettermi su un qualche piedistallo, anche perché soffro di vertigini e non salgo nemmeno su una seggiola per cambiare una lampadina. O ci arrivo con la mia statura, che non è bassa, o sennò faccio con una lampadina in meno. E faccio a meno di parecchie altre cose. Non sono Batman. Non sono un bel niente. Non mi attribuisco nessuna importanza. Sono, in breve, uno qualsiasi. E, al tempo stesso, totalmente unico. Un'altra abitudine fondamentale che si è persa: quella di considerarsi unici, di percepirlo, di mantenere la propria individualità in mezzo alla folla massificata. L'individualità è stata sostituita da una non meglio precisata identità, che a va a volte sotto il nome di cultura. E la cultura vera, vale a dire l'imparare e il sapere senza subordinarlo al lavoro, è stata relegata nelle attività terroristiche. Chi si dichiara identitario ha quasi sempre perso la propria individualità di essere umano. Sproloquia di radici comuni e si è divelto da solo le proprie. Suddivide e categorizza gli altri in base a codeste radici (delle quali non conosce peraltro nulla), intende decidere se volere o meno altre persone a casa sua, e intanto la casa gliela hanno sfilata di sotto il deretano. Ma non gli altri. Gliela hanno sfilata proprio quelli che gli hanno detto di difendere l'identità. E questi ultimi sanno di avere a che fare con degli imbecilli, perché sono stati loro a rimbecillirli.

E allora, continuo impeterrito ad essere ottimista, e a fare quel che mi è possibile per diffondere l'ottimismo. Senza per questo attribuirmi nessuna qualifica di rivoluzionario, o di sovversivo. Continuo a credere in una cosa semplicissima che si chiama superamento dell'esistente, e mi fa piacere che persino Marx sia d'accordo con me. Quando si smette di crederci, vuol dire che tutto sta bene com'è; e, allora, la continua lamentazione, la finta indignazione, gli strepiti e i gemiti e tutto il resto non hanno ragione di esistere. Chi dice di essere pessimista, in realtà dovrebbe semplicemente tacere. Non c'è niente di più realmente pessimista del silenzio. E, invece, quanto cianciano. Quando pessimisteggiano. Quante certezze della pena. Quanti io saprei cosa fargli a quello lì. Quante stupidissime saggezze da pizzicagnolo o da parrucchiera. Quante leghe. Quanti gesuccristi, quanti cieli, quante voglie di morire e di dare la morte. Perché il pessimismo, in definitiva, è morte.

Cambierà tutto quanto, quel famoso giorno. Ma sperandolo e basta non arriverà mai. Si può agire e fare anche con una sola parola; ma bisogna desiderare di dirla o di scriverla, e desiderarlo sul serio. Una parola assieme ad altre parole formano una collettività. A volte formano persino una classe. Eppure dicono che le classi non esistono più. Cose vecchie, scomparse, dimenticate. E ci abbiamo creduto, perché la nostra vera, unica identità è quella delle pecore. Un gregge di pessimisti belanti. L'ottimista, invece, non bela. Parla. Delle sue speranze e anche delle sue illusioni, e delle maniere in cui afferma di poterle realizzare. A volte, certo, creerà disastri. Ma mai peggiori dell'eterna stagnazione, dell'assenza di vento, del trascorrere la propria vita come tranquillissimi vermi che accettano di essere schiacciati perché è nella natura delle cose. Un'altro caposaldo del pessimista. La natura delle cose e la natura umana. Sa una sega lui di cosa sta parlando, ma gli si potrebbe efficacemente rispondere che, a quel punto, la natura delle cose esige una pernacchia sul muso, o un rutto da spettinàllo a rondemà. È una prassi che raccomando di fronte a qualsiasi pessimista. Ed è anche un'ottima cura contro la depressione, nostra e sua.

PS. Madonna quant'era brutto, Schopenhauer!

lunedì 11 ottobre 2010

Oh, finalmente siamo in guerra!


Alla fine, sacramentiddìo, si sono dovuti arrendere. Lo hanno dovuto dire, che siamo in guerra. Che ci eravamo lo sapevano anche i bambini; la famosa Italia che ripudia la guerra eccetera. Cambiare la Costituzione? Non serve. A volte mi viene da pensare che la Costituzione sia quella cosa che è nata già cambiata; dice che l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro, ad esempio. Ma non ci faccia ridere amaro, sora Costituziò', ché già ci girano più che abbondantemente le scatole. L'Italia è una repubblica fondata sulle impalcature, casomai. Poi dice che non si può ricostituire il partito fascista e che promuove la ricerca, le lettere e le arti. Allo stesso preciso modo ripudia la guerra: la ripudia andando a farla. Però bisogna pur metterci una pezza: così sono nate le famose missioni di pace. Cosa sintetizzata del resto perfettamente e facebucchianamente da uno degli ultimi militari morti in Afghanistan: si vis pacem, para bellum. Non per niente, questa classica espressione ha dato nome a un tipo di pistola.

Beh, a questi ultimi quattro soldati andati a morire ripudiando a gogò, almeno un grosso merito deve essere attribuito. Hanno eliminato, finalmente, le missioni di pace. Ce ne sono voluti trentaquattro affinché l'Italia, enfin, fosse dichiarata ufficialmente in guerra. Addirittura con le bombe sugli aerei, dato che i bombardamenti aerei li abbiamo inventati proprio noialtri (1911, guerra di Libia). Siamo fatti così: il nostro genio italico ci fa inventare le cose, ma poi restiamo regolarmente indietro anni luce. È ora di metterci al passo e di farla sul serio, la guerra che "ripudiamo". Dai, su. E che cavolo. Quegli altri sterminano i banchetti di nozze, e noi non sterminiamo nemmeno una spaghettata fra tre amici a Kandahar. Nemmeno un effettuccio collaterale che sia uno. Con le bombe sugli aerei potremo finalmente uniformarci al resto del mondo civile, e potremo anche noi esportare la democrazia.

Guidati dalla mano ferma del nostro indomabile condottiero Ignazio, e infine liberi da ogni maschera, potremo dedicarci alla nostra missione storica: quella di mostrare al mondo che siamo brava gente. Solo leggermente in sottordine, anche ad un'altra missione che ci compete: quella di costruire strade e ponti. Dovremmo, in questo, un po' riprenderci: se un tempo stradavamo e pontavamo tutti i paesi in cui ci installavamo come colonizzatori, ora non ci riesce più nemmeno fare la terza corsia fra Barberino e Incisa. Sono sette anni e mezzo che ci stanno lavorando, per ampliare 69 km di fottutissima autostrada; e sarebbe il caso che La Russa minacciasse pure le ditte appaltatrici con qualche bel bombardamento. Non morirebbero più operai di quelli che muoiono quotidianamente; del resto la chiamano una guerra, quella delle "morti bianche". A nessuno è mai venuto in mente di chiamarla, quella guerra là, una missione di pace.

venerdì 8 ottobre 2010

Orco Dio


Niente immediatezza, stavolta. Nell'immediatezza c'è stato già, del resto, chi ha scritto le uniche cose da scrivere in mezzo al solito concerto grosso in do maggiore per ipocrisia, maschilismo e disonestà. Pochi giorni fa, su questo blog, avevo scritto una cosa sulla Notte delle matite spezzate, sui ragazzi e sulle ragazze violentate, torturate, uccise da uomini in divisa. La fine di Sarah Scazzi me l'ha ricordata da vicino; e se a qualcuno questa affermazione parrà campata in aria, ci rifletta un po' sopra e capirà.

Per il resto, l'immediatezza ha riservato il solito, schifoso copione. Si sono stupiti di un annuncio di morte in diretta TV, ma ora come ora è una cosa del tutto normale. Non è neppure sciacallaggio, come lo chiama qualcuno; è quel che tutti, e ribadisco tutti, ci siamo preparati. Ci siamo scientificamente preparati l'ammasso del nostro cervello e ci siamo anche fabbricati le giustificazioni, sovente indignate. Tutti a dire, ad esempio, che la TV non ha colpe in sé, e che dipende dall'uso che se ne fa; nel frattempo era la TV a fare uso di noi, tranquilla, implacabile, accattivante. Quindi nessuna finta indignazione: la faccia impietrita della madre di Sarah ha sortito perfettamente l'effetto che si voleva.

Creare forche. Creare l'orco. L'orco, diciamocelo francamente, fa un comodo terribile. È nato, l'orco, riciclando quello che fu l'inferno pagano. L'inferno pagano perse la partita assieme a tutti i suoi dèi e i suoi demoni, sostituito dall'inferno tribunalizio del monodìo palestinese; perdendo la partita, retrocesse. Come in un campionato. Fu retrocesso a mostro delle fiabe, a mangiabambini. In questo si è assicurato un continuum, nella sua eterna serie B. L'inferno ha Dante Alighieri, l'orco ha un qualsiasi contadino pugliese che strangola la nipote quindicenne e ne violenta il cadavere. Lo zio orco, o l'orco zio.

Nessuno a parte poche, naturalmente, che faccia presente brutalmente un paio di cose. La prima è che la qualifica di orco bisogna guadagnarsela, per lorsignori. Sono loro, dalle loro tv e dai loro giornali di merda, a attribuirla. Lo zio che, come chissà quanti altri zii, ammazza la nipote; anzi, meglio, lo zio brutto e vecchio che ammazza la nipote giovanissima e bellissima. In questo si ripetono perfettamente gli archetipi della fiaba, come sa chiunque abbia letto il caro vecchio Propp. Si consideri bene come, nelle fiabe autenticamente popolari, il "cattivo" sia sovente proprio uno zio. Le fiabe non sono storie per bambini; dietro qualsiasi fiaba con l'orco ci sono generazioni intere, e da secoli e secoli, di zii pugliesi e di Sarah senza nome. In questo caso ci si guadagna la qualifica di orco.

Puntare invece un fucile alla tempia della figlia di 3 anni, sterminare la famiglia intera nel sonno, inseguire la moglie per le scale con un revolver carico (e scaricarlo), mettersi all'agguato della fidanzatina sedicenne che passa in bici e abbatterla, prendere la prima donna che passa e massacrarla a calci e pugni, ecctera, non dà diritto ad essere orchi. Tutt'altro. La cosa fa piuttosto passare nel novero dei santi. Affari che vanno male, depressione, solitudine ("lo hanno lasciato solo!"), separazioni, l'immancabile gelosia, l'angoscia, le disperazioni, aggiungere tre gocce di Tabasco e mescolare bene; e allora si vola in cielo. Ecco, contro questi quotidiani voli in cielo sarebbe ora di usare un po' la contraerea. Dicendo ad esempio che tutti questi paparini, maritini, fidanzatini depressi e soli non sono affatto meno orchi dello zio di Sarah. E lo restano anche se poi si ammazzano. Sarebbe una contraerea efficacissima, questa.

Per essere orchi, poi, la componente etnico-religiosa è necessaria. Non può esistere un orco pakistano o un orco rumeno. Un pakistano che ammazza la moglie a sassate o la figlia è un patriarca, oppure schiavo di tradizioni. Un rumeno che stupra una dodicenne è portatore di una cultura violenta. In questi casi si scomodano i ministri. Un orco vero, invece, deve avere il cappellino da pescatore, parlare un dialetto italiano, avere una Panda rossa, andare in televisione; capace fosse anche devoto 'e pPadre pPìe, questo simpaticone! E deve anche provocare applausi alla bara della sua vittima. Diceva bene il commissario Montalbano:"Si vede che sono contenti. Gli applausi si fanno quando si è contenti, vuol dire che sono felici che sia morta."

Il femminicida pakistano suscita riflessioni sull'integrazione e sulla cultura e serve perfettamente a scatenare gli istinti razzisti della gente. L'orco italiano, invece, serve per scatenare gli istinti forcaioli. Pene di morte a gogò; ergastoli con chiavi buttate via; galere su galere. Oggi, in una galera italiana, è morta la cinquantatreesima persona dall'inizio dell'anno. In Italia la pena di morte c'è già. Inutile che la invochino tanto, gli editorialisti e la gente. C'è la pena di morte e ci sono i lager, noti sotto varie sigle; e poiché la cosa è chiarissima, appare altrettanto chiaro che gli appelli alle esecuzioni capitali servono unicamente ad eccitare ancora di più i più bassi istinti della folla.

In mezzo a tutto questo, le donne. Di qualsiasi età. Di qualsiasi aspetto. Bellissime adolescenti come Sarah e povere ottantenni. Madri di famiglia e prostitute. Donne ricche e donne che non hanno nulla. Italiane e straniere. Perché le donne, in realtà, non hanno nessuna etnia: sono soltanto fiche con qualche chilo di carne attorno. Contenitori di figli e forza lavoro low cost. Incocciano nel marito violento come nello zio col cappellino da pescatore. Nel padre-padrone come nel datore di lavoro rispettabile. Nella violenza della casa e in quella dello Stato. Nella famiglia-focolare come nel branco di lupi con le Hogan. Nel silenzio del mondo che le circonda e nelle morali di dèi e chiese. E non c'è proprio nessunissima differenza: tutti orchi. Ma non si può dirlo, perché dirlo significherebbe attentare a tante, troppe cose. Dirlo significherebbe spegnere la trasmissione nel momento di massima audience. Dirlo significherebbe non avere più una coscienza manipolata. Dirlo equivarrebbe a individuare il vero orco, che è un sistema socioeconomico intero. E allora non restano che gli applausi alla bara, gli striscioni forcaioli e il sor vescovo che, fra un'omelia e un invito al perdono, salmodia e santifica l'orco Dio.

mercoledì 6 ottobre 2010

Prào è già chiusa


Ci sono, evidentemente, epoche in cui tre donne che stanno andando a lavorare in piena notte, sorprese da un nubifragio di eccezionale violenza che trasforma un sottopasso in un abisso che inghiotte la loro automobile e le loro vite, devono essere fatte morire più volte. Morire un'altra volta classificandole subito etnicamente; morire nelle ciance dei bar e dei giornali; morire nelle stucchevoli e ridicole polemiche sul lutto cittadino concesso o non concesso dall'amministrazione comunale. Una città non è in lutto quando lo dichiara il sindaco; è in lutto quando dentro se stessa sente realmente il dolore per la perdita di vite umane in un dato modo. Non è in lutto esponendo bandiere a mezz'asta, ma con un fiore o un altro semplicissimo omaggio alla memoria delle persone che sono scomparse. Prato non è in lutto. Ci saranno , per carità, dei pratesi cui dispiacerà, e anche sinceramente, che quelle tre donne siano morte; ci sarà qualcuno che si sarà seppur minimamente commosso pensando a una bambina di dieci anni impietrita davanti al cadavere della madre ripescato da una strada allagata. Ma ci saranno dei pratesi che commenteranno tranquillamente, davanti al cappuccino e alla brioscia, che sono solo tre cinesi in meno sulla terra. Ci saranno dei pratesi che daranno a quelle tre donne di stupide perché hanno deciso di percorrere quel sottopasso sotto la tempesta. E ci saranno dei pratesi, più semplicemente, cui questa tragedia resterà del tutto indifferente; e nulla mi autorizza a credere che non sarebbero rimasti anche se le tre vittime fossero state pratesi.

Le prime due frasi le ho sentite coi miei orecchi, quella delle tre cinesi in meno sulla terra e quella delle stupide. Non le ho sentite peraltro a Prato; le ho sentite qui a Firenze. Nel quartiere dove abito. La prima proviene da un anziano vicino di casa, la seconda da un giovane in giacca e cravatta in un bar. In questi casi si dice che ci si dovrebbe riflettere; ma non c'è davvero più niente su cui riflettere. Neppure sulle amministrazioni comunali, sui sindaci, sui cosiddetti rappresentanti cittadini. A Prato, così come altrove e senza oramai più nessuna distinzione tra "schieramenti politici" (inesistenti), costoro rappresentano benissimo i loro cittadini e i loro pensieri. Chi non si sente più rappresentato ha smesso di andare a votarli. Chi va ancora a votarli lo fa con indifferenza mista al tifo da stadio; per questo la Lega riscuote tanti successi. Nella pratica, la politica della Lega è del tutto assente come per gli altri; ma sa condirla bene con le ciliegine che piacciono tanto ai tifosi. C'è chi offre Ronaldo ai propri tifosi, e chi l'espulsione degli immigrati e degli zingari. C'è chi offre Ibrahimovic e chi le discriminazioni. C'è chi offre Kaká e chi la crassa indifferenza e l'idiozia fatte regole. A Prato tutto questo è in atto. Non è un caso che Maroni parli spesso di modello Prato. È questo il modello che si impone. Indifferenza e carogneria. Del tutto ozioso farne una questione di lutti cittadini e di bandiere a mezz'asta. Qui si sta parlando di indifferenza totale nei confronti della morte. Si sta parlando di gente scocciata perché il sottopasso è stato sequestrato e chissà quando verrà riaperto; tutto questo per tre cinesi di merda, poi. E gli avèano a sta' più attente. Sentita anche questa.

Certo che fa una certa impressione pensare come l'indifferenza più o meno razzista si sia così bene impiantata in una città che è stata baluardo fino all'altro ieri del grande Partito Comunista; ma è un'impressione apparente. In Francia, il Front National è letteralmente fiorito proprio nelle aree dove un tempo il Partito Comunista Francese era più forte (ed ho vissuto qualche tempo in una di quelle aree). L'indifferenza e il razzismo proliferano dove si avverte la mancanza di un futuro; e se è presente una comunità estranea, è facile scaricare tutto quanto su di essa. I pratesi, anche se non soltanto loro, questa mancanza di futuro se la sono preparata e organizzata scientificamente. I loro rappresentanti non sono migliori o peggiori dei loro cittadini, anche se in parecchi casi sono state la loro cecità e la loro avidità ad accelerare un processo già in corso. Non serve prendersela con il sindaco Cenni, con un assessore, con un consigliere comunale. Non serve fare contrapposizioni tra il "cattivo" pratese che nega il lutto cittadino ed il "buon" fiorentino che in nome del "bello" sgombera il mercatino etnico. E non è un caso che la Lega, la formazione che sa esprimere alla perfezione l'indifferenza più carognesca di questi tempi, stia sbarcando in forze anche in Toscana. Come non è un caso che Prato sia la sua testa di ponte.

Servirebbe invece prendersela con le ragioni che hanno portato a tutto questo. Servirebbe smetterla di riflettere perché si è già riflettuto più che a sufficienza su fenomeni che, del resto, sono chiarissimi. Servirebbe incominciare a ribellarsi contro logiche economiche e sociali che stanno distruggendoci dentro. Qualche tempo fa scrivevo che "Prato deve chiudere"; non ce n'è più bisogno. Prato è già chiusa. La chiusura è avvenuta definitivamente quando l'acqua di una tempesta d'ottobre si è richiusa sulle teste di tre povere donne che andavano a lavorare, e al tempo stesso su tutta una città a cui questo sembra non importare minimamente. L'acqua si è richiusa su tutte le ciance di integrazione. "Impianto sottoposto a sequestro", sta scritto sul cartello della Polizia Municipale apposto sulla transennatura del sottopasso di Narnali; ho voluto ritoccare la foto. Tutta la città di Prato è sottoposta a sequestro. Sequestrata da una storia intera di capitalismo imbelle, di finto "comunismo", di vanità, di disgregazione culturale e sociale, di egoismo, di prevaricazione, di ignoranza. Ma stiamo ben attenti a non sentirci in alcun modo superiori e immuni.

Bisanzio, stanotte


Ce ne andavamo quasi incosciamente giù al porto Bosforeion, quando un'ombra furtiva si avvicinò. Non sapevamo nemmeno esattamente che forma avesse, anche se si vedeva un cappellaccio proiettarsi irregolarmente alla luce della luna, στου φεγγαριού το φως, parallela al moto del mare, tranquillo, inquietante.

Ci disse, sottovoce, d'essere l'eco d'un ideale e la visione di cose future. Già pronti a rimontare sulla R4 targata Smirne, ed a passare il vicino confine turco pur consci degli incerti eventi che ci avrebbero atteso, fummo trattenuti da una mano grossa, possente, di montanaro. “Forse non avete bevuto abbastanza”, ci disse; Markos Oualdos M.Y. scosse il capo con un sorriso beffardo, aprì il portabagagli dell'autovettura e mostrò allo sconosciuto le dodici bottiglie di raki che ci eravamo scolate, vuote come lo spazio intersiderale. “Forse mi sbagliavo”, disse con voce cavernosa lo sconosciuto. “Venite con me.”

E ci addentrammo lievi, allontanandoci dal porto, per la città. Blaterava, in un dialetto che comprendevamo solo parzialmente, delle cose su Procopio di Cesarea. Si fermò a una fontanella che buttava acqua freschissima. “Conoscete....”

Si ardì a parlare una delle donne, quasi trasecolata. “Conosciamo...?”; ne seguì un breve silenzio assoluto, che a tutti parve durare secoli.

Anarchein

“Conoscete...l'Anarchein?” Usava quell'antico infinito del verbo anarchô. Nato prima del sostantivo. Prima l'azione; il vivere senza governo e senza regole, sicuramente, ma anche l'etimologico non-inizio. An-archô. Vivere senza regole è non avere alcun inizio. Qualcuno, timidamente, pensò al romanzo che Pasolini stava scrivendo quando fu ucciso, “Petrolio”, che non comincia. “Questo romanzo non comincia”, sta scritto esattamente sulla prima pagina del manoscritto. E la regola, il reggimento, la parata, la schiera devono per forza di cose avere un inizio e una fine. Anarchein significa invece prescindere dalle estremità borghesi. Significa non avere né inizio e né fine; e, di conseguenza, anarchein è l'unico vero e valido sistema per sconfiggere la morte.

Senza dèi, senza paradisi, senza trascendenze. Con quella semplice domanda, il gigantesco sconosciuto dalla voce di macigno bleso aveva già dato la risposta. Conosciamo? La conoscenza, per i vicoli di Bisanzio dai mille nomi, appariva chiara negli sguardi e nelle facce di milioni di vite che solo possedevano se stesse, e che negli sguardi e nelle facce trovavano l'unica e vera ragione di esistere. Aveva, lo sconosciuto, nelle tasche tre bombe accese.

Tre palle scure, tre micce che ardevano, lentamente, inesorabilmente. “Salteremo tutti quanti in aria”, disse dolcemente l'altra delle donne. “Mai”, rispose. “Noi non moriremo. Siamo morti mille volte e rinati altrettante. Bevete, bevete ancora”, e tirò fuori da un'altra tasca una bottiglietta d'un liquido scuro e fortissimo, distillato dal sangue di re.

In quel preciso momento, il mago traeva oroscopi di salute e prosperità per il potente. Giustiniano e Teodora, con le loro leggi, con il loro Autocratore ad uso e consumo dell'oppressione delle plebi. Aleksandr Nevackij, variago del regno di Kiev, non faceva festa. Lui aveva capito; e il mago Masetathios, manipolatore di atomi, continuava e continuava. La R4 stava avvicinandosi, percorrendo oscuri angiporti, al palazzo dell'Imperatore.

Lo scoppio fu udito da entrambi i continenti. Una chitarra di luce descrisse una giravolta indicibile sopra lo stretto del Bosforo. Markos Oualdos M.Y., che era alla guida, ingranò la seconda per partire come si fa sul ghiaccio; la macchina si sollevò piano, sopra Bisanzio che forse non è mai esistita, carburata a dure razioni d'alcool al tempo stesso nobile e proletario. “Avete visto.” Avevamo visto e fatto. Accorrevano le plebi smisurate, gli alamanni e i goti, accorrevano le empietà. Il palazzo non esisteva più.

Su una spiaggia. Al sole. Ci amavamo tutti disperatamente. Ci cercavano. Forse ci avrebbero trovati. Forse non ci avrebbero mai trovati. Forse siamo tutti. Forse siamo niente. Lo sconosciuto, malgrado il sole terrificante, non si toglieva il pastrano e il cappello. Ci trovassero pure. Avevamo sconfitto la morte, avevamo sbeffeggiato Dio.

Ché siamo nati per marciare sulla testa dei re; e ai re, qualche volta, la testa scoppia.

Cosa scritta il 4 giugno 2009 a commento di una canzone che parecchi conosceranno. Poiché stasera è proprio una di quelle sere, di ritorno da un ospedale, credo che un mestesso abbia detto ad un altro mestesso di metterla anche qui. Segue la traduzione della canzone in greco bizantino, perché non appartengo a coloro che amano cianciare di Ellade in lingua italiana.

ΒΥΖΑΝΘΙΟΝ

Καὶ αὐτὸ τὸ βράδυ ἀνέτειλε ἡ σηλήνη
ἐν χρώματι πνιγμένη πάρα πολύ ἐρυθρῷ και ἀορίστῳ,
ὁ Ἑσπῆρ οὐχ ὁρᾶται, ἐσκοτεινιάσθη,
ἡ τοῦ στύλου αἰχμὴ ἐσπάσθη,
τί ὡροσκόπιον δύνασαι νὰ βάλεις, Μάγε ;

Ἐγώ ὁ Φιλεμάθιος, πρωτοιατρὸς μαθηματικὸς ἀστρονόμος καὶ τοῖνυν σώφρων
καταντημένος νὰ προχωρῶ γύρῳ, ψηλαφῶν εἰς τὰ τυφλά
οὐκ ἔχω τὴν γνῶσιν, ἢ μᾶλλον τὸν θάρρον
νὰ βάλω τὸ ὡροσκόπιον αὐτὸ, νὰ μαντεύσω
καὶ ἕστηκα ἐδῶ περιμένων νέαν ἡμέραν

Καὶ δὴ λέγω, καὶ δὴ λέγω ἐμὲ πάρα πολὺ εἶναι γέρον νὰ καταλάβω,
τὸν νοῦν ἐμοῦ τὸν ἔχασα τίς οἷδε εἰς ποιόν ἐλάττωμα ἢ ἀπραξίαν,
ἀλλ'ἀλλάζονται οἱ ἁστέρες ἐν ταῖς νυξὶ ταῖς ἰσημερικαῖς,
ἐγὼ ἵσως, ἐγὼ ἵσως τοῦτον τὸν νέον θεὸν ὑπετίμησα,
ἐν εμοὶ μὲν ἀναγινώσκω καὶ ἐν τοῖς σήμασι ὅτι ὑπάρχει ἀλλαγή,
ἀλλὰ δ'εἶναι ἀδύνατον προαίσθημα οὐ λέγον πῶς καὶ πότε...

Τὰς προνύκτες ὑπῆγον σχεδὸν ἀσυνείδητος
εἰς τὸν λιμένα τὸν Βωσφορεῖον, ἐκεῖ ὅπου χάνεται
ἡ γῆ μέν ἐν τῇ θαλάσσᾳ ἐὰν καί ἐν τῷ μηδενί
καὶ δ'ἡ γῆ ἐξαναγίνεται οὐκ οὖσα μᾶλλον δύσις
τί ἐνδιαφέρει τὴν θάλασσαν νἆναι γαλάζιαν ἢ πράσινην ;

Ἤκουον τὰ ᾅσματα τὰ αἰσχρὰ τῶν μεθυσμένων,
ἀνθρώπων βαμμένους καὶ κενοὺς ὀφθαλμοὐς ἐχόντων...
ἱπποδρόμον, πορνεῖα καὶ βορείους στρατιώτας,
φωνάξετε Ῥωμαῖοι καὶ Ἕλληνες, ποὺ ὑπήγατε ;
Ἤκουον βλασφημίας ἀλλημαννιστὶ καὶ γοτθιστί...

Παράλογος πόλις, παράξενη πόλις αὐτοῦ τοῦ πορνογάμου αὐτοκράτορος,
ἀπείρων ὀχλῶν, λαβυρίνθων καὶ ἐκλύσεως,
βαρβάρων ὅπου ἵσως ἥδη ἐξῆυρον τὴν ἀλήθειαν,
φιλοσόφων καὶ ἑταιρῶν, κρεμασμένη μεταξύ δυονῶν κόσμων καὶ δυονῶν ἐποχῶν,
ἡ τύχη ἢ ὁ χρόνος μὴ μακρυνὴν ἡμέραν ἀπεφάσισαν,
ἢ θὰ ᾐθεῖτο ἡ μοῖρα νὰ ἐκλέξει τὴν χεῖρα ἐμοῦ, ἀλλά...

Βυζάνθιον ἵσως εἶναι σύμβολον ἀόρατον,
μυστικὸν καὶ διφορούμενον ὥσπερ ὁ βίος,
Βυζάνθιον εἶναι μύθος ἐμοί οὐκ ὢν συνήθης,
Βυζάνθιον εἶναι ὄναρ γινόμενον ἀτελές,
Βυζάνθιον ἵσως οὐχ ὑπῆρξε οὔθ' ὑπάρχει
καῖτοι οὐχ οἷδα, καὶ ἄλλη νύξ ἐπέρασε,
ὁ Φωσφόρος ἥδ' ἀνέτειλε, ἢ εἶναι ἡ ἡλικὶα ἐμοῦ ἡ ἄρρωστη,
βίον ἐπαίρω διὰ θάνατον, οὐχ οἷδα πώτερον ἐπέρασε,
τὴν κεφαλὴν τῷ ὑποδήματι καλύπτω οὐκ ἀκούων,
μὲ λαμβάνει ὁ ὕπνος,
μὲ λαμβάνει ὁ ὕπνος,
μὲ λαμβάνει ὁ ὕπνος.

lunedì 4 ottobre 2010

Dall'altra parte



Non mi piace, e non mi piacerà mai voltare gli occhi dall'altra parte.

Anche perché non è che una donna ammazzata, ferita o violentata da un uomo abbia per me una qualche nazionalità, e men che mai una religione. È soltanto una donna ammazzata, ferita o violentata. È soltanto l'ennesima vittima della più brutale violenza maschile. Una delle tante. La differenza non sta in questo. La differenza sta soltanto in quello che fa comodo.

Che un uomo ammazzi la moglie a sassate e ferisca la figlia, è un atto orribile. Da chiunque provenga, anche perché questo chiunque è sempre un uomo. E non m'importa se sia pakistano, italiano o marziano. Farne un discorso di religione o di cultura è semplicemente e criminalmente disonesto, in un paese come il nostro dove si ammazza almeno una donna al giorno. Ma è un paese, questo, dove la disonestà è regola.

La prima disonestà, in questi fatti, consiste nel famoso risalto dato alla notizia. Consiste nello scomodarsi dei ministri, delle carfagne, delle santanchè (minuscole volute). Nessuna carfagna che dichiari di volersi "costituire parte civile" per una qualsiasi delle decine di donne ammazzate dai mariti, dai conviventi, dai padri, dai fratelli o comunque di un uomo. Nessuna santanché che faccia la vomitevole "pasionaria" quando uno di questi crimini li commette un italiano, cioè nel 98% dei casi.

Uomini assassini che non soltanto non vengono fatti oggetto di nessuna campagna di stampa, ma addirittura giustificati o comunque "capiti", quando addirittura non blanditi. Per l'italiano che ammazza una donna c'è sempre un tentativo di comprensione. Quando anche lui si ammazza dove aver compiuto la strage, c'è sempre qualcuno pronto a dichiarare che è stato lasciato solo. E allora decidiamoci. Perché allora anche il pakistano che ha ammazzato la moglie e ferito la figlia dovrebbe essere giustificato, con lo stesso metro. Dovrebbe essere "capito" e blandito. Dovrebbe diventare un eroe anche per i maschilisti nostrani; quelli che, poi, sono immediatamente pronti a farsi paladini dei "diritti delle donne" quando c'è di mezzo un islamico.

Curioso che il fatto di oggi, quello per cui si è scomodata la carfagna, sia accaduto proprio in una "Novi". Vi ricordate di quell'altra Novi, quella "Ligure" che in realtà è in Piemonte? Della coppiettina di fidanzatini piemontesi che fece fuori madre e fratellino, Erika e Omar? Vi ricordate di quando la ragazza uscì fuori simulando un tentativo di rapina e urlando che erano stati degli albanesi? Vi ricordate della fiaccolata della Lega Nord che era già bell'e pronta, stroncata soltanto dall'arresto dei due? E vi ricordate che i due decisero di passare all'azione perché la madre si opponeva alla loro storia? Allora, ne deduciamo che è nella cultura piemontese ammazzare madre e fratellino quando un genitore si oppone? Ah, a proposito: naturalmente il povero Omar fu presentato immediatamente come succube della perfida fanciulla, il povero, debole ragazzo stregato dalla maliarda.

Ne fanno, questi signori e queste signore, un fatto di cultura. Proprio come la ragazzina sedicenne che, qualche tempo fa, mi disse che i rumeni stuprano perché è nella loro cultura. Sto cominciando a provare un odio profondo per un altro stupro, quello che si sta compiendo (anzi, che è stato già compiuto) nei confronti della nobile parola "cultura"; e i nomi dei suoi stupratori si conoscono benissimo. Ma ce la avete presente la carfagna (continuo imperterrito con le minuscole) che dichiara che "L'Italia non accetta tradizioni che violano i diritti delle donne"? Come sempre, tragedia e ridicolo si toccano quando ci sono di mezzo personaggi del genere. Il paese europeo più arretrato in qualsiasi diritto, e non solo delle donne, che nelle parole di questa serva si erge a baluardo. "Anche questo è un modo per essere vicina alle giovani immigrate, per far capire che il nostro Paese è con loro ogni volta che vedono lesa la libertà e il diritto di essere cittadine libere". Sono ancora parole della carfagna, come dubitarne. Il nostro paese è con le giovani immigrate. Ad esempio rinchiudendole nei CIE. Ad esempio espellendole, chiudendo loro ogni porta, permettendo tranquillamente che siano sfruttate in ogni modo, negando loro (o frapponendo mille ostacoli) al ricongiungimento familiare. Conclude stratosfericamente la carfagna (sempre più minuscola): "L''Italia respinge e rifiuta con decisione ogni forma di prevaricazione degli uomini sulle donne". Qui si impone soltanto il classico no comment.

Li chiama delitti patriarcali, la carfagna. Sono, invece, ed esclusivamente, delitti maschili. Quotidiani, senza tregua. Le uniche risposte date sono orribili ciance che servono soltanto a mascherare la realtà. Si costituisca pure "parte civile", la carfagna: quando, domani, l'ennesimo zio stuprerà la nipote, quando l'ennesimo marito geloso, depresso, solo ecc. ammazzerà la moglie, quando l'ennesimo padre volerà in cielo assieme a tutta la sua santa famiglia, allora, come per incanto, scompariranno culture, dèi, patriarchi e quant'altro.

Per questo è necessario non voltarsi mai dall'altra parte. Si volti dall'altra parte, e possibilmente scompaia per sempre, chi genera razzismo e repressione. Si volti dall'altra parte chi giustifica l'italiano e condanna il pakistano. Si volti dall'altra parte chiunque abbia trasformato la parola cultura in scontro. Si voltino dall'altra parte i paladini a targhe alterne. Si volti dall'altra parte la rappresentante di un "governo" che non solo non intende "costituirsi parte civile", ma che non ha speso nemmeno una parola per l'assassinio premeditato di Teresa Buonocore; ed assieme a lei i pennaioli che l'hanno immediatamente etichettata di camorrista. Ma a tutti questi, a tutte queste, il nome "Teresa" non interessa. Interessano loro soltanto nomi come "Hina" o "Sanaa". Le stesse Hina e Sanaa cui, ogni giorno, annullano ogni tipo di futuro assieme alle Terese.

Lo faccio raramente, ma vorrei invitare a leggere anche:

- Cattolico accoltella la moglie, è emergenza cristiani
- La ministra Carfagna e gli immigrati


La foto è un'immagine dell'omicidio premeditato patriarcale di Teresa Buonocore,
frutto della cultura italiana e di tradizioni che violano i diritti delle donne.

Vi fa impressione, vero, leggere una cosa del genere?

sabato 2 ottobre 2010

Le notti delle matite, dei bolzaneti, delle macellerie


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Claudio de Acha - 17 anni.
Gustavo Calotti - 18 anni.
María Clara Ciocchini - 18 anni.
Pablo Díaz - 18 anni.
María Claudia Falcone - 16 anni.
Francisco López Muntaner - 16 anni.
Patricia Miranda - 17 anni.
Emilce Moler - 17 anni.
Daniel Racero - 18 anni.
Horacio Ungaro - 18 anni.


1982: Pablo Díaz, 24 anni, esce. Neanche da un carcere. Esce dal nulla. Esce dalla desaparición. Esce dalla morte militare. Vi era entrato, assieme alle sue compagne e ai suoi compagni di scuola, il 16 settembre 1976. Li avevano prelevati all'alba, colpevoli d'avere richiesto il tesserino per l'autobus gratuito, o meno caro, per i ragazzi dei licei della Plata; il boleto estudiantil. Bastava questo, nell'Argentina della giunta militare benedetta da monsignor Pio Laghi, per essere considerato sovversivo. La chiamarono, lo dovrebbero sapere tutti, la Noche de los lápices. La notte delle matite.

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La Plata, 1976. Le manifestazioni per il tesserino studentesco dell'autobus.

Arrivarono all'alba, i poliziotti e i militari. Noche de los lápices era il nome che loro stessi avevano dato all' “operazione”. Sequestrarono i ragazzi e le ragazze e li portarono in vari punti segreti della città; quando le famiglie, sapendo che erano stati “prelevati”, andarono a chiedere in quale carcere fossero stati portati, fu loro risposto: non sono in carcere. Erano stati portati direttamente a qualcosa di peggio dell'inferno, perché l'inferno è una panzana inventata dai preti. I sotterranei delle caserme, o cos'erano, in cui gli studenti erano stati portati, invece esistevano. Erano luoghi. Erano l'annullamento di ogni tipo di umanità. Erano il potere nella sua vera essenza.

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Presi, imprigionati, bendati, torturati. Le ragazze stuprate a sangue. María Clara aveva 18 anni, María Claudia 16; entrambe avevano cognomi italiani, segno di una vecchia emigrazione che era andata in Argentina per una speranza. La speranza si trasformava in tortura e morte. Ad un ragazzo che, mentre lo massacravano, invocava Dio, uno dei militari rispose: Aqui Dios somos nosotros. Qui Dio siamo noi. Dei dieci ragazzi sequestrati, ne sopravvissero soltanto tre. Entrambe le ragazze morirono. Fu Pablo Díaz, tornando alla luce senza rinascere (perché un'esperienza del genere tiene morto per tutta la vita), che raccontò tutta la storia di quella notte, e della Notte intera. Nel 1986, il regista Héctor Olivera, uno che da ragazzo era stato fatto studiare ad una scuola militare e che ne aveva riportato un orrore infrangibile, realizzò un film. In italiano si chiama La notte delle matite spezzate. Alla stesura del copione partecipò lo stesso Pablo Díaz.

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Qualche dato, qualche nome. L'operazione fu realizzata congiuntamente dal Battaglione 601 dell'Esercito Argentino e dalla Polizia del distretto di Buenos Aires. La direzione fu affidata al generale Ramón Camps. Si trattava di un deterrente contro la “sovversione nelle scuole”; compito preciso, secondo le parole di Camps, era il seguente: ”Gli adolescenti sequestrati dovevano essere eliminati dopo avere sofferto pene indicibili”. I ragazzi furono portati tutti in centri clandestini di detenzione: Arana, il “Pozzo di Banfield”, il “Pozzo di Quilmes”, la Questura Provinciale di Buenos Aires, i commissariati di La Plata e di Lanús (il sobborgo dove è nato Maradona) e il Poligono di Tiro della questura di Buenos Aires. Qui sotto un'immagine del "Pozzo di Banfield".

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Accadeva, tutto questo, sotto una dittatura spietata. Com'è stato possibile, ci chiediamo ancora. Ragazzi e ragazze di un liceo. Poi ci diamo la risposta: in una dittatura militare sudamericana è stato possibile. Da noi una cosa del genere, fortunatamente, non sarebbe mai possibile. Noi siamo una democrazia, abbiamo delle forze dell'ordine democratiche, il nostro è un potere democratico. Da noi un ispettore di polizia non potrebbe mai massacrare un liceale:

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Da noi non esistono certamente centri clandestini di detenzione della polizia dove si massacra e tortura, dove si bastona al grido di Un-due-tre viva Pinochet (“Videla” non fa la rima, e nemmeno “Massera” o “Galtieri”), dove si stupra, dove ispettrici donne chiamano altre ragazze e donne troia comunista mentre le schiaffeggiano:

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Veduta democratica di Bolzaneto

Da noi, infine, nessuna Notte delle matite. Ci mancherebbe altro. A noi le matite non interessano, servono a scrivere e scrivere è sovversivo. Noi preferiamo le macellerie, e le relative notti:

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Scuola Diaz, Genova, 20/21 luglio 2001.

Scuola Diaz, già. Curiosa questa cosa. Intitolata, come decine e decine di altre scuole in Italia, a un generale di merda. Anche io, elle elementari, sono andato a una "Diaz". Sarebbe il caso, però, di togliere quell' "Armando" che è stato corresponsabile del macello di una guerra che ha mandato a morire una generazione intera di adolescenti. Sarebbe il caso di intitolare tutte queste scuole a Pablo Díaz e a tutti gli altri ragazzi e ragazze cui spezzarono le matite e la vita. Ma non il nostro ricordo. Non La memoria.

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Si tratta, per modo di dire, di una riproduzione. Questo post non è nato come tale, ma come commento ad una canzone su un sito cui partecipo. Poi ho pensato che stava bene anche qui. Qualche scarna aggiunta. Le ragazze e i ragazzi che non sono tornati risultano ancora ufficialmente scomparsi; si presume che siano stati eliminati tra il 1° e il 15 gennaio 1977 (sicuramente). Pablo Díaz raccontò tutto ciò che era accaduto durante il "Proceso a las Juntas" del 1985. Nella "cabina di regia" alla questura di Genova durante il G8 del luglio 2001 c'era il fascista Gianfranco Fini.