Al tempo stesso, credo che sia necessario non fare quel che Vittorio Arrigoni stesso, probabilmente, non avrebbe mai voluto. Essere trasformato in "eroe". Le persone come Vittorio Arrigoni vivono la propria scelta come una normale concatenazione di pensieri e fatti; persone che, ad un certo punto, danno realmente seguito a quel che hanno dentro. Sono poche. La vita di ognuno, che lo si voglia o meno, incatena. Quando iniziamo a pensare certe cose, a indignarci, a desiderare ardentemente di "fare qualcosa" e quant'altro, la logica e l'umanità vorrebbe che lo facessimo; ma, nella stragrande maggioranza dei casi, restiamo invece degli ibridi. La sincerità dei propri pensieri e della propria rabbia non viene messa in discussione, ma il fosso non lo saltiamo. Di motivi possono anche essercene parecchi, a cominciare dall'istinto di conservazione; Vittorio Arrigoni sapeva benissimo quel che rischiava, non per questo rinunciando alla propria normalità. Uno che vi rinuncia non dice di "restare umani". Non è un'affermazione da "eroe", questa, ma da essere umano che agisce quando vede altri esseri umani calpestati.
Proviamo per un attimo ad immaginare di vedere il proprio nome su una lista di eliminazione. Sapere che, per le tue attività e per i calli che inevitabilmente pesti, ti vogliono morto. E non ti vuole morto un qualche singolo che ce l'ha con te, ma uno Stato. Il normalissimo ragazzo Vittorio Arrigoni il suo nome lo ha letto; è rimasto là, a Gaza, a fare quel che faceva tutti i giorni. Aiutare, salvare, informare. Non agendo da generico "pacifista", ma a mio parere tutto al contrario; un "pacifista" non intitola il proprio blog informativo "Guerrilla Radio". Stava conducendo, assieme ai volontari dell'ISM, una guerra ancorché senza armi da fuoco (anche se è possibile che, in una situazione come quella di Gaza, un kalašnikov almeno qualche volta lo abbia preso in mano). Conduceva una guerriglia fatta di pescatori, di aiuti, di quotidianità in una città sotto assedio. Vorrei associare il suo nome non solo a quello di Enzo Baldoni, ma anche a quello di Rachel Corrie e di Dino Frisullo. Tutte persone normalissime, e tutte morte. Non erano in "missione di pace", per usare quell'orrendamente falsa espressione tanto cara a ogni potere e ad ogni suo servo. Erano a fare una guerra, una guerriglia. Erano, autenticamente, a lottare. Senza "eroismi" di sorta alcuna. Tutto sommato, credo che Vittorio Arrigoni, pur avendo affermato di essere disposto a morire per quello che faceva (cosa che, purtroppo, è avvenuta), avrebbe preferito di gran lunga vivere. Da morto, in modo schifosamente disgraziato, serve a poco. A parte, forse, convincere qualche sparuto altro a fare la stessa cosa; lasciare tutto e andare a combattere in una zona della Terra dove si muore. Non so perché, ma il nome del "Movimento di Solidarietà Internazionale" mi ricorda da vicino le Brigate Internazionali. La Spagna del 1936 è forse l'unico luogo che ne ha visti a migliaia, di Vittorio Arrigoni; e, come lui, non erano "eroi", pur avendo compiuto atti che difficilmente riusciremmo a immaginare. Così come non riusciamo affatto a immaginare quel che viveva Vittorio Arrigoni a Gaza. Nonostante le sue cronache puntuali, nonostante la sua "Guerrilla Radio", nonostante le sue azioni che venivano rese note.
E noi, ovviamente, ce ne restiamo qui. Con le nostre rabbie confortate magari da un bicchierino di sambuca, da un figlio appena nato, da un'occhiata alla partita della squadra del cuore. E, peraltro, con queste cose dovremo conviverci finché non ci decideremo a partire per Gaza, per la Palestina. Andiamo ai presidi per i prigionieri politici palestinesi senza aver mai provato cosa significa essere prigioniero politico. Nelle carceri israeliane ce ne sono a migliaia, di prigionieri politici; così come nelle carceri di qualsiasi paese del mondo, compreso il nostro. Comandi militari e statali, colpe spesso non commesse, arbitrio, tortura, violenza psicofisica, morte. Ogni tanto, un ricordo verso chi, come Vittorio Arrigoni, ci ha rimesso le penne perché il suo "basta" era andato a gridarlo in loco, e senza tanti berci ma con i fatti. Non dico certamente questo per instillare inutili sensi di colpa personali o collettivi, ma semplicemente perché è la realtà delle cose e, come tale, domanda di essere espressa nella sua crudezza. Anche per questo ho scelto di declinare il nome di Vittorio Arrigoni, che non conoscevo di persona, per intero. Nome e cognome. Nessun "Vik". Lo chiamerò, tra me e me, "Vik" quando sarò a bordo di una flottiglia che va a Gaza; cioè mai. Lo chiamerò "Vik" quando arriveranno da me dei bastardi che mi preleveranno per ammazzarmi; cioè rimai, perlomeno a Gaza. Questo mi potrebbe, a rigore, succedere anche in via dell'Argingrosso; ci ho un Salafita che, ogni tanto, mi lascia dei bigliettini terribilmente minatori sul parabrezza perché lascio la macchina nello scivolo condominiale (cosa proibitissima).
E così discutiamo, ci incazziamo, magari ci diamo addosso l'un l'altro; e così, ogni giorno o quasi, eccoci qui a "postare" sui nostri "blog" (o su Facebook, o su qualsivogli'altra diavoleria del ventunesimo secolo). Che almeno non ricordiamo solo quando ammazzano un normalissimo Arrigoni Vittorio, proveniente da una banale Besana Brianza, perché era "dei nostri" (o così almeno lo percepivamo) e perché ci mette in moto qualche rotellina di cattiva coscienza. A Gaza si crepa ogni giorno. In Palestina si è messi in galera. Nelle nostre città vivono centinaia di esuli palestinesi; ogni giorno dovremmo ricordare e fare, anche senza avere il coraggio necessario per andare laggiù. Ogni giorno, anche se Vittorio Arrigoni non fosse mai esistito. Ma fortunatamente lo è, e la sua è un'esistenza che è stata ben spesa.