giovedì 17 novembre 2011

Dopo un mese e qualche giorno


Già scordati del 15 ottobre? Beh, capisco che ora non c'è più la fonte di tutti i mali e che ci abbiamo i tanto agognati tecnocrati di "alto livello", molti saranno felici e contenti (nonché pronti a farsi massacrare, ma sicuramente "coesi" e per il "bene dell'Italia"). Eppure, il qui presente è convinto che occorra riandare al 15 ottobre perché ben presto si presenteranno scenari da farlo impallidire. Quello che segue rappresenterà forse una novità per molte lettrici e lettori di questo blog, in quanto si tratta, ebbene sì, di un documento politico. Era nato come tale e non per essere pubblicato su questo blog, ed alcune parti sono state poi integrate effettivamente in un "documento unitario" di alcune realtà antagoniste. In breve, mi vedete alla prese con forme di ragionamento e di argomentazione che non traspaiono spesso da questo "faro della bloggosfera" (la definizione non è mia). Con tutto ciò, sono persuaso che affrontare gli avvenimenti quando sono usciti dall'immediata attualità sia una cosa utile, anche perché le problematiche che vi sottostanno sono sempre terribilmente presenti. Ovviamente, pur tenendo conto della sua natura, vi troverete alcune cose che ho già detto qui dentro. Buona lettura, se vorrete.

Un ragionamento analitico su ciò che è avvenuto dopo la manifestazione del 15 ottobre non può prescindere da alcuni confronti con il passato. Pur nella diversità estrema delle situazioni, o meglio dei sottofondi sociali, politici e economici, non si possono certo considerare come delle novità alcune reazioni ed alcuni fatti avvenuti in seguito alla manifestazione ed agli scontri violenti che l'hanno caratterizzata. La manifestazione del 15 ottobre si configurava già da prima come un “ibrido” che racchiudeva in sé entità molto differenti, e in certi casi persino incompatibili tra di loro; cosa che avviene regolarmente quando si ammucchiano in un solo corteo realtà che si dicono “radicali”, ma che invece sono interamente inserite nel sistema (si pensi a SEL), realtà antagoniste fuori dal sistema e, infine, realtà non facilmente definibili che esprimono però un'autentica rabbia dal basso. Non a caso, percependo la presenza di tali realtà in mezzo al corteo, già da alcuni giorni prima si erano moltiplicati gli “appelli” (da parte di figure istituzionali e non) affinché “tutto si svolgesse in modo pacifico”. Occorrerebbe senz'altro ragionare anche sulla “forma-corteo”, e sull'opportunità di riproporre regolarmente “grandi manifestazioni” che obbediscono sempre alla medesima scaletta, con la divisione tra “manifestanti pacifici” e “facinorosi” (per i quali oramai si è soliti usare l'etichetta giornalistica di “black bloc”); in attesa di un serio ragionamento su tale problematica e sulle forme di lotta attiva più efficaci in un frangente come questo, un ragionamento che a nostro parere non è più rimandabile alle calende greche, si è assistito ancora una volta al consueto svolgimento dei fatti. La necessità di relazionarsi comunque con l'esterno ha prodotto un cospicuo numero di partecipazioni critiche (e persino controvoglia); ha prevalso però in molti il desiderio di “esserci” e di fare parte comunque di un “movimento” che, alla realtà dei fatti, si è dimostrato pervaso da scopi, metodologie e pulsioni assai differenti e, a volte, del tutto opposte. Non che non lo si sapesse fin da prima, ma ancora una volta ha prevalso la logica del grande numero, della “massa manifestante” che, alla fine, si è dimostrata in massima parte del tutto avulsa dalla discriminante dell'autentica lotta anticapitalista e antisistema. Gli “Indignados de noantri” non spingono la loro “indignazione” al di là di generici slogan, di “colorate e pacifiche manifestazioni” e di accorate lamentazioni che sono gradite persino a certi politici e a certi governatori di banche. Se un Di Pietro può indifferentemente “comprendere le ragioni dei manifestanti” prima e invocare strette repressive poi non è un caso: le “indignazioni” che non vanno a toccare mai i capisaldi del sistema sono incoraggiate in quanto utili, mentre quelle che lo vanno a toccare e propongono anzi una forma di lotta organizzata devono essere stroncate con ogni mezzo.

Come dicevamo all'inizio, ciò che ne è susseguito non proviene dalla luna, ma obbedisce anzi a precisi riferimenti storici. La suddivisione tra “manifestanti buoni” e “cattivi” non è una novità, né in riferimento a periodi più lontani, né a periodi più vicini; è, anzi, la controprova (se mai ce ne fosse bisogno) che accodarsi alle “indignazioni” promosse e organizzate da entità non realmente antagoniste produce soltanto confusione e impasse disperanti (e un impasse disperante è in effetti ciò a cui si sta assistendo dopo il 15 ottobre, mentre gli eventi camminano a grande velocità). Occorre avere il coraggio di dire, a questo punto, che il problema non risiede nella quantità di manifestanti o nella partecipazioni ad ammucchiate che passeggiano per una città, ma nella capacità, da parte delle entità antagoniste e antisistema, di chiarire definitivamente la loro opposizione reale al capitalismo e di formulare proposte e forme di lotta tese alla sua eliminazione (o definitivo superamento). E' necessario avere questa capacità e di diffonderla con ogni mezzo a disposizione, senza rifiutarne alcuno a priori; altrimenti saremo sempre a confrontarci con strategie che non solo non pagano affatto, ma che offrono regolarmente il fianco a tutta una serie di cose che sono troppo ben conosciute per non tenerne mai conto. In termini di lotta, entità che si definiscono antagoniste non possono non relazionarsi a chi esprime una rabbia violenta e non negoziabile; è verso queste realtà, sempre più diffuse, che esprimono per la maggior parte il disagio incontrollabile di una generazione abbandonata e che parlano il suo stesso linguaggio, che un movimento di lotta antagonista e anticapitalista deve indirizzarsi. Se il 15 ottobre ha rappresentato uno spartiacque, come è stato giustamente detto da più parti, è necessario prendere atto che con le entità che si riconoscono comunque nel sistema, nelle sue istituzioni e nella sua “legalità” non è possibile alcuna forma di dialogo. Le reazioni da autentici questurini di un Vendola o di un Casarini ne fanno fede.

Imboccare decisamente una strada del genere espone naturalmente a rischi di ogni genere, ma è l'unica realmente praticabile se si vuol dare seguito al termine di antagonismo. Antagonismo significa “combattere contro”, e non esiste forma di lotta autentica esente da pericoli personali e collettivi. A tale proposito, meravigliarsi per la stretta repressiva messa in atto dopo il 15 ottobre è semplicemente miope e rivelatore di una mancanza di capacità di analisi storica e critica. La delazione è stata una costante a partire dalle lotte degli anni '70, e se un Di Pietro invoca il ritorno alla “Legge Reale” occorre sapere precisamente in che cosa essa consistesse e quali effetti abbia prodotto. Se un giornale-partito come “Repubblica” è in prima fila in tale campagna repressiva e delatoria, non si hanno evidentemente presenti le prese di posizione dell' “Unità” degli anni '70 nei confronti del movimento, oppure gli “untorelli” di Enrico Berlinguer. La legislazione speciale fu sostenuta fattivamente dal PCI così come oggi le forze della cosiddetta “sinistra” sostengono una “legalità” a base di arresti, repressione, ordinanze giudiziarie, sgomberi e chiusure. Il “pacifismo” di tale forze, tanto strombazzato e tanto invocato, si configura oggi come allora come una forma estrema di violenza nei confronti di chiunque si opponga al sistema non a parole, ma nei fatti. Alla delazione si accompagna la delegittimazione sistematica, specialmente con il pretesto che certi atti “rovinerebbero un movimento gioioso e pacifico”. Gli appelli all'unitarietà non sono praticabili, se tale unitarietà significa sottostare a logiche che non hanno niente di nuovo e che non mettono minimamente in discussione lo stato di cose; assai indicativa, a tale riguardo, è l'assoluta mancanza di una qualche forma di solidarietà nei confronti degli arrestati durante e dopo la manifestazione del 15 ottobre. Si tratta di una strategia ben precisa, che da un lato mira al consenso elettoralistico (tale, infatti, si è rivelata in gran parte la vera natura del corteo del 15 ottobre) e, dall'altro, a stabilire una forma di “lotta buona”, accettabile senza far troppo male a lorsignori e che, anzi, conti pure sull'appoggio di alcuni di essi (vedasi addirittura Draghi). A lorsignori, invece, occorre fare male, molto male. Occorre rifiutare qualsiasi appello pretestuoso alla “nonviolenza”, che nasconde soltanto la necessità di non addentrarsi nello scontro sociale frontale e nelle pietrose lande della coscienza di classe. “Nonviolenza” e “pacifismo” sono i capisaldi di chi, anzi, intende non fare assumere allo scontro caratteri di autentica contrapposizione, senza compromessi.

Un movimento che si vuole antagonista non può prescindere dal riferimento costante allo scontro sociale, perdipiù in un momento come questo, in cui esso sta raggiungendo dei livelli latenti potenzialmente esplosivi (si veda la situazione in Grecia). Una discussione all'interno dell'antagonismo deve essere tesa a capire i vari movimenti, la loro composizione e il loro ruolo, ma sempre con la discriminante dell'anticapitalismo militante, fattivo e teso realmente alla sua eliminazione e sostituzione. Lo scontro deve essere promosso, senza titubanze e pulsioni “ammucchiatorie” verso movimenti ed entità che intendono anzi chiaramente tenerlo a freno (e, ancora una volta, il riferimento storico al PCI è obbligatorio; come un giovane Adriano Sofri ebbe il coraggio di dire in faccia all'allora segretario Luigi Longo, “il PCI è di fatto il partito che ha impedito la rivoluzione in Italia”). Da questo punto di vista, un movimento antagonista deve anche mettere in risalto le ambiguità gravissime di certi movimenti che letteralmente vorrebbero tenere il piede in due staffe (si pensi ad esempio a “Bene Comune”) e, contemporamente, evitare categoricamente di commettere il medesimo errore (un pericolo purtroppo ben presente). O di là, o di qua. Siamo di fronte ad entità che promuovono e propongono come necessaria la stretta repressiva, e con esse è necessario ribadire che non si ha nulla a che fare. Si facciano pure le loro “manifestazioni pacifiche” e i loro inutili cortei più o meno grandi, e si “indignino” da una parte mentre dall'altra consegnano i “compagni cattivi” nelle mani della polizia. Si tratta di stabilire chiaramente e senza timori un diverso livello culturale, sociale e politico che tenda a mettere in risalto la necessità imprescindibile di uno scontro sociale che combatta davvero la violenza quotidiana di un sistema e di un potere economico e politico che ci ha condotti alla disperazione e alla mancanza di qualsiasi futuro. Questo e non altro. La cosa è terribilmente semplice e non richiede artificiali complicazioni, sofismi bizantini e acrobazie varie (caratteristica, quest'ultima, di alcuni presunti “maîtres à penser” come ad esempio il “Bifo” Berardi). Come scrisse Alfredo Bandelli nella redazione originale della sua famosa canzone “La violenza”, “chi ha esitato questa volta non sarà con noi domani”.

Si leggano anche:

- Il governo della repressione, da Militant Blog

- 15 ottobre: ecco la prima condanna, da Polvere da sparo (Baruda)