Era stato, fino ad allora, uno dei poeti più misconosciuti del suo paese; si chiamava Kostas Karyotakis. Era nato il 30 ottobre 1896 in una delle tante Tripoli sparse per il Mediterraneo; la sua era nel Peloponneso. Una vita ordinaria; una grossa delusione d'amore nell'adolescenza, di quelle che segnano per tutta la vita; un lavoro da avvocaticchio alla prefettura di Preveza, dove si occupava delle assegnazioni di terre e immobili ai profughi greci dell'Asia Minore. Uno stipendio da fame e un aspetto da piccolo ometto senza storia; la condizione perfetta per diventare un poeta. La poesia è quella cosa che riempie i cassetti dei grigi; usualmente, è in forma lirica. Le infelicità, gli slanci, le rabbie e le delusioni di ognuno di noi potrebbero riempire la Biblioteca di Babele. Kostas Karyotakis, però, aveva preso un'altra strada. Ancora più impervia, se si vuole.
In mezzo al suo disgusto totale per lo Stato e per la burocrazia, ad un certo punto decise di averne abbastanza della realtà; volle salire un po' sopra a osservare. Kostas Karyotakis è considerato unanimemente come il fondatore del surrealismo in lingua greca, e la cosa non è di poco conto anche per motivi strettamente linguistici. Con la sua struttura ingabbiata da declinazioni e parole di andamento solenne, anche la lingua neogreca demotica è poco adatta alle acrobazie e alle slegature semantiche proprie del surrealismo; si aggiunga che, lavorando in un ufficio statale, Karyotakis doveva avere a che fare ogni giorno con il "burocratese" di quei tempi, la terribile katharevousa basata sul greco classico che rimase sola lingua ufficiale in Grecia fino alla caduta della dittatura, nel 1974. Piegare il greco al surrealismo è impresa titanica e folle; Karyotakis vi riuscì. E, essendovi riuscito fin dalla sua prima raccolta, intitolata Ὁ πόνος τοῦ ἀνθρώπου καὶ τῶν πραμάτων ("La pena degli uomini e delle cose"), divenne immediatamente oggetto di scherno e di disprezzo. Con la seconda raccolta, Νηπενθῆ, il disprezzo e lo scherno si trasformarono da un lato in totale indifferenza da parte dell'ambiente letterario, mentre quei pochi che non lo ignoravano si occupavano però di stroncarlo senza pietà. La aveva intitolata, quella raccolta, alla nepente, la "droga dell'oblio"; c'è una poesia che si chiama Ωχρά Σπειροχαίτη, vale a dire il Treponema pallidum, il batterio responsabile della sifilide; in seguito, la poesia divenne nota come "Canzone della pazzia". Karyotakis aveva probabilmente contratto quella malattia, ed è facile immaginare come.
A Preveza si sentiva disperato e non aveva letteralmente di che vivere; la sua famiglia si offrì di pagargli un soggiorno a Parigi, ma fu costretto a rifiutare perché sapeva che sarebbe stato un sacrificio economico troppo grosso per i suoi. Così si arriva a quella mattina del 19 luglio 1928, e allo spettacolo che Kostas Karyotakis volle concedere a se stesso, in solitario.
Arriva alla spiaggia di Monolithi e si spoglia; si getta in acqua e comincia a andare al largo, nuotando come un pesce. La sua intenzione era, ad un certo punto, quella di lasciarsi andare e farsi trasportare dalle onde; ma non ce la faceva a smettere di nuotare. Vagava per il mare senza fermarsi, sperando che le forze lo abbandonassero; ma non c'era assolutamente verso. Nuotava e basta. Un astante che fosse stato là ad osservarlo si sarebbe detto che era un atleta che si allenava per le Olimpiadi; ogni tanto tornava a riva, aspettava due minuti e poi si ributtava in acqua per cercare ancora di affogarsi. E ricominciava a nuotare senza sosta; vi rimase dieci ore di fila, arrendendosi alla fine. Non alla morte, ma al mare che gli aveva giocato quello scherzetto, quasi a volergli dire che non sarebbe stato responsabile della sua morte. Una scena quasi comica, con un tizio basso e bruttino che, alla fine, si riveste, prende l'ultima lettera del suicida dalla giacca, la appallottola e la butta via incazzato a morte.
Torna a casa, e si mette subito al tavolo; scrive un'altra lettera, dove spiega razionalmente di essere un nuotatore provetto e di essersi fatto trascinare dal piacere di filare nel mare come un treno, senza pensare a niente. E dire che, poco prima, aveva scritto una poesia al vetriolo contro chi minaccia di suicidarsi a ogni piè sospinto, prepara tutto quanto il rituale e alla fine, regolarmente, ci ripensa. S'intitola, quella poesia, Suicidi ideali:
prendono le vecchie lettere che avevano serbato;
leggono calmi, per trascinare poi
i loro passi per un'ultima volta.
La loro vita, dicono, è stata una tragedia,
Dio mio, le risa orripilanti della gente,
le lacrime, il sudore, la nostalgia
dei cieli, i luoghi abbandonati
Si mettono alla finestra, guardano
gli alberi, i bimbi e, oltre, la natura;
guardano i marmisti che martellano
e il sole che tramonterà per sempre.
Tutto è finito. Ecco l'ultima lettera,
breve, scarna, profonda; così s'addice.
Piena d'indifferenza e di perdono
per chi, nel leggerla, certo piangerà.
Si guardano allo specchio e vedono l'ora,
si chiedono se sia follia o un errore;
mormorano tra sé: “Tutto è finito”,
arcisicuri che ci ripenseranno.
Il giorno dopo, il 20 luglio, si alzò a un'ora antelucana; ma non per nuotare. Andò prima a un piccolo caffè del porto, che era già aperto perché in Grecia, d'estate, tutto è già aperto prestissimo, prima che sia troppo caldo per fare qualsiasi cosa. Erano le quattro e mezzo del mattino; si sedette a un tavolo e cominciò a ordinare un caffè dietro un altro, e a fumare come un disperato. Un caffè e una sigaretta, una sigaretta e un caffè, un caffè insieme alla sigaretta, una sigaretta insieme al caffè. Vi rimase tre ore, poi si alzò, pagò tutto quanto e se ne andò.; il piccolo caffè si chiamava Ουράνιος Κήπος, cioè "Giardino Celeste" e, in definitiva, "Eden, Paradiso". Si diresse poi a un'armeria, e vi acquistò una pistola Pieper Bayard da nove millimetri; con quella in tasca andò ad un'altra spiaggia della zona, chiamata Agios Spyridon, San Spiridione. Era famosa, quella spiaggia, per un gigantesco albero di eucalipto che vi cresceva; sotto quell'albero Karyotakis si mise, in piedi, e si sparò un colpo solo, nel cuore. Lo trovarono là con l'ultima lettera, quella buona, in tasca. Quella in cui raccontava della nuotata del giorno prima. Era vestito di tutto punto e con la magiostrina in testa, come usava allora; nessuno, anche in piena estate, sarebbe mai uscito a capo scoperto. Sotto il suo ultimo albero, la polizia gli scattò la foto come da prassi.
Naturalmente, pochi mesi dopo i critici si accorsero della sua grandezza e della sua innovatività; i poeti sono coloro che hanno bisogno di morire in qualche modo, per diventare grandi. Della loro morte in vita non si occupa generalmente nessuno, e si direbbe quasi che il disprezzo e l'indifferenza siano fabbricati ad arte per costringerli prima a levarsi dai coglioni, e poi a glorificarli. La poesia manoscritta riprodotta nell'immagine sotto il titolo si intitola Ottimismo. Ora Kostas Karyotakis è uno dei più grandi nomi della letteratura greca del XX secolo. Sul muro dove abitava a Preveza c'è una lapide; la Pieper Bayard con cui si uccise è custodita al museo Benaki di Atene. In Grecia, prima o poi tutto diventa una canzone; Suicidi ideali fu affidata a uno dei più importanti, il cretese Nikos Xylouris, colui che il 17 novembre 1973, mentre i militari schiacciavano nel sangue la rivolta del Politecnico, aveva preso la sua lira e era andato a cantare e suonare in mezzo ai ragazzi che venivano massacrati. Il mare, la morte, la musica. Chissà che faccia avrebbero fatto quelle signore che qualche giorno fa, in coda all'Esselunga, mi sentivano cantarla in greco, se avessero saputo di che cosa parla.