martedì 2 luglio 2013

Saluta e se ne va.

Cesare Batacchi, 1849-1929.

Questa cosa è dedicata al Sassicaia Molotov, livornese, macchinista teatrale. 
Nel caso di post molto lunghi, sono solito segnalarlo prima; e questo è lunghissimo. Chi lo volesse leggere, farà forse meglio a stamparselo e procedere con calma; diciamo che non può essere concentrato in centoquaranta caratteri.

Cesare Batacchi era nato a Firenze, in Santa Croce, il 4 settembre 1849. Precisi riferimenti fanno credere che fosse nato in Borg'Allegri; e, a Firenze, ancora poco tempo fa dire “Borg'Allegri” era sinonimo di strada tra le più malfamate. E' capitato anche a chi scrive, quando da ragazzo si lasciava andare a qualche intemperanza condita da un linguaggio non propriamente da scuola di belle maniere, di sentirsi dire da qualcuno: “Ma che vieni da Borg'Allegri?...”; insomma, la Santa Croce che è stata. Ai tempi del Batacchi, poi, probabilmente non ce la possiamo nemmeno lontanamente immaginare.

Firenze: Borgo Allegri.
Era nato, come recitano le scarne note biografiche dell'Archivio del Movimento Operaio, “da Pietro e Carolina Ciulli”; tutti cognomi fiorentini del popolo. Così, per curiosità, piglio l'elenco del telefono d'oggigiorno e vo a vedere; sia pur nell'insignificante opuscolo che è diventato ora l'elenco, a Firenze risultano ancora una venticinquina di Batacchi e ancor più Ciulli; chissà che qualcuno non sia un lontano discendente di Cesare Batacchi. Faceva il falegname; poi diventò macchinista teatrale al Comunale, che allora si chiamava ancora Politeama Fiorentino (prese il nome di “Teatro Comunale” solo nel 1933). Ci era andato a lavorare da poco in teatro, il Batacchi; e, del resto, era un teatro nuovo. Era stato inaugurato nel 1862, ma già un anno dopo era andato completamente a fuoco provocando morti e feriti; poi era stato ricostruito tale e quale.

Le “scarne note biografiche” dicono che Cesare Batacchi era diventato anche membro dell'AIL, vale a dire l'Associazione Internazionale dei Lavoratori cominciatasi a formare a Londra nel 1862 e che, in Italia, si identificava con l'anarchismo. Anarchico internazionalista, insomma; nulla di più facile, nella Firenze di quel periodo. Assieme a Napoli, Firenze era in pratica la “capitale” dell'anarchismo italiano, o comunque una delle città in cui il movimento internazionalista si presentava più forte. Alla fine dell'anno 1873, a Firenze era stata costituita la sede della commissione di corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana, e di conseguenza la città era diventata il centro dell'organizzazione internazionalista in Italia. All'inizio del 1874 Cesare Batacchi risultava in stretto contatto con gli anarchici Natta, Ceretti e Scarlatti i quali, a loro volta, erano in contatto diretto con Michail Bakunin.

Bakunin.
Sono anni, quelli, di spaventoso fermento. I congressi dell'AIL di Bologna nel marzo 1872, e di Rimini nel maggio successivo, sanciscono il predominio dell'anarchismo rispetto al marxismo nella penisola italiana; inoltre, fallisce miseramente la Prima Internazionale e gli anarchici ne fuoriescono in blocco abbracciando quanto propugnato da Bakunin. Si crea, in pratica, un clima prerivoluzionario in Italia, e specialmente in alcune regioni italiane. Sarà a questo punto bene ricordare quanto affermato da Carlo Cafiero e Errico Malatesta al congresso dell'Internazionale Antiautoritaria di Berna, nel 1876: «La Federazione Italiana crede che il fatto insurrezionale, destinato ad affermare con delle azioni il principio socialista, sia il mezzo di propaganda più efficace ed il solo che, senza ingannare e corrompere le masse possa penetrare nei più profondi strati sociali...».

Il 1874 è, in Italia, anno di tentativi di insurrezione. Il più famoso è senz'altro quello di Bologna e di Imola dell'agosto di quell'anno, cui presero parte, oltre allo stesso Bakunin, Cafiero, Malatesta e Andrea Costa; ma altri conati insurrezionali si ebbero contemporaneamente nelle Marche, a Roma, in Puglia, e a Firenze. A questi ultimi Cesare Batacchi doveva aver preso parte; da buon borgallegrino qual era, aveva peraltro già subito condanne per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale, una specialità che in Santa Croce sapeva esplicarsi ancora nel 1966, quando gli abitanti presero a copiose manate di fango addosso una jeep contenente anche il presidente della repubblica, Saragat, che era venuto a vedere come stavano i fiorentini dopo l'alluvione. Fu arrestato assieme a altre decine di persone, e tutti furono mandati a processo nel 1875. Imputati per il tentativo insurrezionale erano, oltre agli anarchici, anche i repubblicani; il processo voleva essere anche una delle “risposte dello Stato” (mi ricorda qualcosa) alla diffusione dell'anarchismo nell'Italia “post-unitaria”, quella tanto celebrata un par d'anni fa con le bandierine alle finestre. Il processo di Firenze assunse un'importanza nazionale; e qui va notata la condotta di Cesare Batacchi e di tutti gli altri anarchici. Probabilmente per una precisa strategia, ed anche perché durante l'insurrezione avevano fatto attenzione a coprirsi ben bene (pratica sempre raccomandabile), si proclamarono totalmente estranei ai fatti (“chi, io, un onesto lavoratore?!?!....”); e furono tutti mandati assolti per insufficienza di prove. Fu così che il Batacchi cominciò a costruirsi il suo destino di capro espiatorio, che lo avrebbe colpito poco dopo assieme ad altri. Detto in parole povere: era loro andata bene con la magistratura, e si preparavano quindi le contromisure di polizia nelle questure del Regno. Quelle chiamate generalmente “operazioni”.

L'arresto della Banda del Matese (1877)
In questo, le questure, che stavano attente, furono facilitate anche dal dissidio interno tra gli internazionalisti, che opponeva gli “estremisti”, vale a dire gli anarchici -per i quali, allora, sarebbe stato inutile l'epiteto di “insurrezionalisti” perché l'insurrezione era la prassi generalizzata- e i cosiddetti “evoluzionisti”. Il colpo subito con le fallite insurrezioni del 1874 era stato duro, però la riorganizzazione era stata rapida e aveva confidato in una “maggiore tolleranza” da parte della “Sinistra”, che nel 1876, con il governo Depretis, era succeduta alla “Destra”. Naturalmente, fu proprio dalla “Sinistra” di Depretis che gli anarchici ricevettero il colpo mortale; emmenomale che la storia dovrebbe essere “maestra di vita”. L'occasione fu il tentativo insurrezionale nell'Italia meridionale, avvenuto nell'aprile del 1877 e più noto come Banda del Matese; con il suo fallimento, non si perse occasione per porre sotto accusa l'organizzazione davanti alla opinione pubblica nazionale.

Ancor più sfruttato fu l'attentato che l'anarchico individualista Giovanni Passannante (nato a Salvia di Lucania nello stesso anno del Batacchi, il 1849) realizzò a Napoli il 17 novembre 1878 nei confronti di re Umberto I servendosi di un micidiale temperino (la storia successiva insegnerà che per “marciare sulla testa dei re”, quella cosa per cui saremmo nati secondo Shakespeare, ci vuole ben altro, tipo una bella pistola). Su un fazzoletto, l'anarchico lucano scrive: «A morte il re! Viva la Repubblica Universale». In una Napoli festante accorsa a salutare il passaggio della real coppia, Passannante tira fuori il temperino (lama di centimetri otto!), si avvicina alla carrozza e cerca di colpire il sovrano, beccandosi però dalla regina una “fiorata” addosso (vale a dire: l'attentatore fu colpito con un mazzo di fiori), la quale devia il colpo sul ministro Cairoli che ne riporta una ferita alla gamba. Il re, invece, riporta un semplice graffio, sufficiente per scatenare sugli anarchici, oltre che la repressione più violenta e capillare che mai si fosse vista, anche la cosiddetta “rabbia popolare”.

Giovanni Passannante.
In mancanza di radio e televisione di regime, si ricorre ad ogni cosa disponibile sul mercato; ad esempio, il “vate” Giosuè Carducci, che scrive, in onore del “re buono” scampato al vile attentato, la famosa Ode alla Regina. Mentre Passannante viene tritato (prima condannato a morte, poi “graziato” e spedito ad una sorte ben peggiore della morte nel forte della Linguella a Portoferraio, dove impazzirà), mentre persino il paese di Salvia deve espiare la colpa di aver fatto nascere quel “mostro” e deve cambiare nome in “Savoia di Lucania” (che porta tuttora!), un altro poeta ha il coraggio di scrivere, e di declamare pubblicamente, un Inno a Passannante; si chiama Giovanni Pascoli, e la cosa gli costerà l'arresto. In seguito, Pascoli si “ravvede” e distrugge l'inno (ne restano solo i due versi finali); ma durante il suo processo, esclamerà: «Se questi sono i malfattori, evviva i malfattori!».

Il giorno successivo, il 18 novembre 1878, si organizzano in tutta Italia manifestazioni di appoggio alla monarchia e di ringraziamento a Dio per aver preservato il “re buono” dal feroce anarchismo; in una di esse, a Pisa, viene lanciata una bomba nel corteo, che non fa nessuna vittima. Viene comunque arrestato un anarchico, Pietro Orsolini, che nonostante le prove di assoluta estraneità ai fatti viene sbattuto in galera a Lucca, dalla quale non uscirà che morto, nel 1887). A Firenze invece, durante un'analoga manifestazione di giubilo e ringraziamento (nonché, ovviamente, di “rabbia popolare” antianarchica) viene lanciata un'altra bomba, al passaggio del corteo in via Nazionale (così era stata ribattezzata l'antica via Tedesca; figuriamoci se in quella che, per qualche anno era stata capitale del Regno, ci poteva essere una via con un nome del genere!); e stavolta è una strage. Il re sarà anche “scampato al pericolo”, ma non scampano alla bomba tre fiorentini che festeggiano l'intervento divino che ha deviato la lama di Passannante, e che ci rimettono la pelle mentre un altro resta ferito grave.

Firenze: via Nazionale (allora "Via Tedesca") in una foto del 1849.
Facciamo un passo indietro. Circa tre settimane prima di andare a Napoli, nell'ottobre 1878, re Umberto I si era recato in visita anche a Firenze ed erano scattati, come da prassi, gli arresti preventivi riservati agli “elementi pericolosi”. Uno di questi era toccato a Cesare Batacchi, al quale era toccato rimanere in galera anche nei giorni successivi; un altro era toccato alla famosa Anna Kuliscioff, che si trovava a Firenze. Il Batacchi viene rilasciato esattamente il 18 novembre, due ore prima dell'attentato di via Nazionale; e viene arrestato immediatamente come suo autore, nonostante si premuri di fornire anche per quelle sue due ultime ore di libertà un alibi validissimo e confermato da più persone (era andato al teatro Comunale a lavorare). Il fatto è che al Batacchi, come ad altri anarchici, deve essere fatto pagare carissimo il semplice fatto di essere tali; anche il suo “rilascio” prima dell'attentato assume il valore di una trappola predeterminata; assieme a lui vengono arrestati altri sei anarchici.

Il processo si apre a Firenze il 31 marzo 1879 ed appare immediatamente chiaro che non soltanto gli arresti degli anarchici, ma l'attentato stesso hanno tutta l'aria di essere provocazioni poliziesche (al pari di quello di Pisa). Come dire: una perfetta “strategia della tensione” con bombe piazzate dallo Stato una novantina d'anni prima di Piazza Fontana, ma con risultati che mostrano notevoli analogie. Cesare Batacchi potrebbe essere definito il Valpreda del 1878, in tutto e per tutto: così come nel 1969 furono fabbricati dalla polizia falsi testimoni (come il famoso tassista Rolandi) per incastrare l'anarchico, nel 1878 la questura ricorre ad un ladro confidente della polizia (tale Buci) e, soprattutto, a due “superteste” ben unti, istruiti e con promessa di rifarsi una vita altrove a spese dello Stato: tali Francesco Alessi e Nicola Menocci. Ovviamente, accanto alle unzioni in denaro, alle istruzioni e alla promesse, la questura applica ai due “supertestimoni” anche una congrua dose di minacce; tutto funziona alla perfezione, e i due depongono al processo una massa di invenzioni e di falsità preparate dalla Regia Questura. Cesare Batacchi si prende l'ergastolo, e gli altri sei imputati anarchici vent'anni di lavori forzati.

Il tassista Rolandi (in mancanza di immagini dell'Alessi).
Nel 1881, però, succede una cosa imprevista. L'Alessi e il Menocci, i due “superteste” fatti riparare all'estero (naturalmente, gli anarchici fiorentini avevano giurato loro la pelle), furono presi dai rimorsi di coscienza. Spontaneamente e indipendentemente l'uno dall'altro, l'Alessi a Alessandria d'Egitto e il Menocci a Nizza, dichiararono davanti a pubblici ufficiali di essersi inventati ogni cosa. Non solo: dichiararono di averlo fatto su istigazione della Polizia e sostennero “con forza” la totale innocenza dei condannati. In seguito a queste rivelazioni clamorose, gli internazionalisti iniziarono un'agitazione per la revisione del processo, e nel 1882 Francesco Pezzi pubblicò sulla “Lanterna libertaria” un opuscolo sul Batacchi con le dichiarazioni dell'Alessi e del Menocci. La stessa rivista anarchica promosse una campagna di stampa a suo favore. Ma, dopo la fine dell'Intemazionale a Firenze, perché il processo Batacchi questo aveva significato, il caso cadde in totale dimenticanza. In altre parole: nella “culla del diritto” quale ama definirsi l'Italia, due supertestimoni che avevano fatto condannare a pene gravissime degli innocenti ritrattavano tutto, accusavano la Polizia (quindi lo Stato) e sostenevano che “avevano dovuto farlo” per soldi e per minacce, e le persone condannate venivano “dimenticate” in galera.

Cesare Batacchi fu rinchiuso in quello che, forse, era il più terribile carcere d'Italia: il Maschio di Volterra. Si tratta di un'antichissima fortezza composta da due corpi, la Rocca Vecchia e la Rocca Nuova, uniti tra loro da lunghe cortine a beccatelli. La Rocca Vecchia fu fatta costruire nel 1342 dal Duca d'Atene, Gualtieri di Brienne, all'epoca governatore di Firenze. Fatta restaurare da Lorenzo il Magnifico, presenta una pianta trapezoidale con al centro una torre semiellittica, detta “la Femmina”. La Rocca Nuova, fatta costruire da Lorenzo tra il 1472 e il 1475, presenta una pianta quadrata con quattro torrioni circolari agli angoli e uno centrale detto “il Maschio”. La fortezza di Volterra era nata come galera, e galera è rimasta per tutta la sua storia, ancora al giorno d'oggi. Qui Cesare Batacchi, come tutti, vive in condizioni disumane e totalmente dimenticato da tutti. Le prime campagne in suo favore si esauriscono nel nulla passati i primi lampi, al pari di quel che accade oggi. Fine della storia.

Pietro Corsi (1844-1887)
Fine? Non del tutto, mettiamola così. Bisogna, però, fare un salto di lunghissimi anni; cercando di non scordare che, per Cesare Batacchi ed altre cinque persone, non si tratta di anni di vita, ma di morte. Per cinque? Ma non erano sei, gli altri imputati condannati a vent'anni? Sì; ma uno, Pietro Corsi, era morto in galera nel 1887. Ora siamo invece nel 1899, l'ultimo anno del XIX secolo. Stava nascendo la generazione di “ragazzi” che, a diciott'anni, lo Stato italiano avrebbe mandato al massacro nelle trincee. L'anno prima, nel 1898, il “re buono” per la cui “salvezza” dal temperino di Passannante i fiorentini manifestavano con giubilo vent'anni addietro, aveva fatto stroncare nel sangue da Bava Beccaris i “moti per il pane” di Milano; solo per ricordare alcuni fatti che, naturalmente, tutti conoscono. Il giornale socialista fiorentino “La Difesa” si ricorda di Cesare Batacchi e degli altri anarchici dimenticati in galera, e costituisce un “comitato” formato da rappresentanti di tutti i partiti politici. Nel frattempo, per i cinque anarchici condannati a vent'anni scadono le pene, e vengono tutti rimessi in libertà tranne il morto. Rimane in galera solo il Batacchi, ergastolano di cinquant'anni.

Franco Serantini, 1951-1972
Nel 1900 si devono tenere le elezioni politiche, e i socialisti decidono di candidare Cesare Batacchi alla Camera, nel collegio di Pietrasanta; viene eletto a furor di popolo, dello stesso popolo che si era completamente dimenticato chi fosse. Se vogliamo ancora analogie, ricordiamo la candidatura di un Pietro Valpreda ancora in galera, nel 1972, che provocò scintille nel movimento anarchico tra “duri” e “elezionisti” (tra i quali un giovane sardo che si dava parecchio da fare per sostenere la candidatura di Valpreda, tale Franco Serantini; il quale, a quanto ne so, fu letteralmente “smusato” per questo da un anarchico del “gruppo Durruti”, lo stesso che pochi giorni dopo gli avrebbe pronunciato l'orazione funebre dopo che era stato pestato a morte della polizia, a Pisa, e lasciato morire in galera). Il 10 marzo 1900, l'elezione dell' onorevole Cesare Batacchi, che in Borg'Allegri non si sarebbe mai immaginato, un giorno, di poter uscire di galera con tale qualifica, fu discussa in parlamento; e fu invalidata. Quattro giorni dopo, però, il 14 marzo, arrivò la grazia; uscì dal Maschio di Volterra il 16 marzo 1900, settantotto anni esatti prima della morte di Juan Rodolfo Wilcock e, pare, anche del prelevamento di uno “statista” democristiano di cui, per tutti gli sforzi che faccia, non mi riesce ricordarmi il nome.

Poco prima della scarcerazione del Batacchi, probabilmente ancora nel 1899, l' “eco” suscitato dalla campagna di liberazione della “Difesa” raggiunge il popolo anche in un altro modo, che gli è perfettamente naturale: una canzone. Sicuramente nasce a Firenze, anzi in Santa Croce; all'improvviso tutti si ricordano del “povero Batacchi”, del suo processo, dei falsi e infami testimoni, e della triste sorte che gli è toccata. Il “popolo”, nella canzone originale, si esprime con un rigore quasi da storico consumato; tranne che per un fatto. Nessuna menzione dell'anarchia, nella canzone; si tratta di un canto di galera. I motivi per i quali Cesare Batacchi vi era finito, non vi sono menzionati; ciononostante, e fin da subito, il componimento diventa un canto anarchico, e tra i più famosi: Il maschio di Volterra. Se qualcuno già lo conosce, ed è probabile, forse si sarà chiesto chi mai fosse quel tale “Batacchi” che vi compare, e chi fossero l'Alessi e il “Maocci” (così, nella canzone, viene chiamato Nicola Menocci).


Ah me ne stavo mesto a lavorare
rinchiuso dentro il maschio di Volterra;
un secondin mi venne a salutare
con lieto volto la mano mi serra
e mi dice: «Allegro, grazia faranno a te
tutti i giornali parlano, combattano per te».

Grazia l' accetterò se mi daranno
coi miei diritti di buon cittadino,
sono innocente e l'è già ventun anno
non vo' morir col marchio d'assassino.
Sette innocenti ci voller condannar,
ma i nostri patimenti, chi li compenserà?

Non ebbi l'amicizia di un Labori
e il mio processo non lo vide Zola
dovrò subire sì pene offese e rancori
e dalla rabbia mordo coperte e lenzuola
nel ripensar quanto dovrò soffrir
a tormentar mi sento l'anima lo stesso si morir.

In queste quattro mura sì malidette
la meglio gioventù io l'ho qui passata
si portano l'offese a noi dirette
nel pronunciarci la galera a vita
mondo crudele che hai dato luce a me
son vittima di agenti di rinnegata fe'.

Vola pensiero mio sera e mattina
là nei dintorni di Borgo la Croce
via dei Pilastri e via Ghibellina
qua in borgo Allegri e piazza Santa Croce
mondo crudele che desti luce a me
sono vittima di agenti di rinnegata fe'.

L'hanno riconosciuta la mia innocenza
or che lo vedi il mio capello è grigio
viva l'adorno cavalier di scienza
che mi convertirono il bianco con il bigio
sette innocenti ci voller qui serrar
ma i nostri patimenti chi li compenserà.

Di quell'infame Alessi io mi rammento
e di tutti gli altri falsi testimoni
sento nell'aria un gelid'e un lamento
che mi sembra pervaso dai demoni.
Stride il Maocci che rantolando va
e gli dico: «Sei dannato per la tua falsità».

E addio compagni, viva la libertà
e questo l'è il Batacchi che non vi scorderà.
Addio compagni, viva la libertà
un saluto dal Batacchi: vi saluta e se ne va.

Ma anche il famoso canto fa la fine del Batacchi, alla lunga: con gli anni viene dimenticato. Lo ritrova però a Galceti, vicino a Prato, Michele Luciano Straniero; è il 1962 quando, alla ricerca di canti tradizionali in Toscana, si imbatte in un cantastorie locale, Luciano Suisola, detto “Topino”, dal quale registra quanto segue:



Questa è invece la bella versione, seppur abbreviata, che l'anno scorso ho ascoltato (e registrato di persona) al “parco Iqbal Masih” di Campi Bisenzio da Marco Rovelli e Lara Vecoli:



Di versioni del canto ne esistono però letteralmente a decine, arrivate anche fuori dalla Toscana (ce n'è, ad esempio, una proveniente da Ancona). Verso il 1990, il gruppo psichedelico sardo “Joe Perrino & The Mellowtones” ne ha fatto anche una versione rock; non so come la abbia presa il Batacchi perché un borgallegrino rimane tale anche da morto, ma fortunatamente è anarchico e noialtri non ci abbiamo “aldilà”.

A proposito di Cesare Batacchi, dato che -comunque- la sua vita non termina con la scarcerazione per grazia dal Maschio di Volterra. Da qualche parte si dice che “non si sa più nulla di lui”, sancendo in questo modo che il galeotto rimandato libero perde irrimediabilmente di interesse. Invece qualcosa si sa. Uscito da Volterra, Cesare Batacchi torna in Santa Croce; sembra non occuparsi più di politica, anche perché per tre anni deve subire la sorveglianza speciale. Probabilissimo che ascolti parecchie volte il canto scritto su di lui, e mi immagino che a un certo punto si sia pure rotto parecchio i coglioni della cosa. A sentire alcuni, comunque, rimane fedele agli ideali anarchici; per vivere, apre prima una rivendita di carbone, e poi una di tabacchi (che è, curiosamente, l'anagramma di “Batacchi”). Nel 1910 smette di lavorare e si trasferisce in campagna, a Bagno a Ripoli; prendo ancora l'elenco del telefono e constato che a Bagno a Ripoli esistono tuttora numerosi Batacchi, quasi tutti all'Antella; e che c'è pure un Alessi. Chissà se si conosce con un Batacchi. Il Batacchi Cesare, comunque, persiste nelle sue idee anarchiche, perché noialtri siamo fatti a questa maniera a parte qualche eccezione. Non svolge però più alcun lavoro politico particolare almeno fino allo scoppio della “grande guerra”; nel novembre del 1917 viene segnalato alla questura come partecipante ad un convegno che riunisce anarchici e socialisti mirato alla costituzione dei “Fasci Rivoluzionari”, su decisione del Congresso anarchico tenutosi, clandestinamente, l'anno prima. Nel 1927, già a regime fascista ben avviato coi relativi tribunali speciali, a Cesare Batacchi tocca quel che proprio non si sarebbe mai aspettato in quel frangente: viene totalmente riabilitato. Vale a dire: viene riconosciuta formalmente la sua innocenza, e la sua condanna viene “cancellata” dal casellario giudiziario dopo che si è fatto vent'anni da morto a Volterra. Muore l'undici di maggio del 1929; gli mancano pochi mesi per compiere ottant'anni.

Il 18 aprile 1975, verso notte, in via Nazionale a Firenze, nel punto esatto dove circa novantasette anni prima era stata messa dalla polizia la bomba che aveva ammazzato tre partecipanti al corteo filomonarchico (all'angolo con via Faenza), un giovane manifestante comunista ad un corteo contro la repressione, Rodolfo Boschi, fu ammazzato a revolverate. Fu arrestato uno che non c'entrava nulla, tale Panichi; molti dissero d'aver visto sparare agenti in borghese. Il fatto, come mi è capitato a volte di raccontare, accadde davanti ai miei occhi, ed erano occhi di ragazzino. Non sapevo nulla allora, ovviamente, di Cesare Batacchi. Per trovarne un'effigie ho dovuto penare. Nessuna lapide sul posto, né per Rodolfo Boschi, né per dei lontanissimi innocenti e per altri innocenti che sperimentarono, sulle loro spalle e sulle loro vite, la violenza dello Stato italiano. Per chi ha salutato e se n'è andato, a causa dello Stato, da una galera, dalla vita, e spesso da tutte e due.