Negli anni '70, quand'ero ragazzo, le poesie di Attila József erano
abbastanza conosciute; non credo che lo siano ancora adesso. Tra di
esse, questa: „Mia madre”. Prima di parlarne un po', è bene di parlare
della breve e tragica vita del più grande poeta ungherese moderno, un
comunista che nemmeno la rivoluzione anticomunista del '56 si sognò
minimamente di toccare.
Attila József, o meglio József Attila (come è
obbligatorio dire in ungherese), era nato a Budapest, nel quartiere
popolare di Ferencváros famosissimo per una squadra di calcio, l'11
aprile 1905. Era figlio di un operaio, Áron József, e di una contadina,
Borbála Pőcze. Il padre abbandonò la famiglia quando Attila aveva tre
anni, e la madre non riuscì mai a mantenere i figli col duro lavoro di
lavandaia a domicilio. Dire che la famiglia di Attila József era povera
non rispecchia la realtà: lui, la madre e le due sorelle crepavano
letteralmente di fame. Ad un certo punto la madre, sola, non ce la fece
più e Attila, tramite un'istituzione nazionale di assistenza sociale, fu
affidato ad una coppia di contadini che lo misero a spezzarsi la
schiena nella loro fattoria.
Attila era un ragazzo altissimo e fragile;
le condizioni di vita erano talmente dure, che fuggi dalla campagna per
tornare a Budapest dalla madre. La quale, nel 1919, morì di stenti e di
lavoro pagato niente; aveva 43 anni. Venne quindi cresciuto dal cognato,
tale Ödön Makai, che lo fece studiare in una scuola superiore; Attila
era intelligentissimo, e aveva cominciato a scrivere poesie da
giovanissimo. Ma non si trattava di poesiole rassicuranti e graziose:
Attila vi metteva dentro tutto quel che vedeva attorno a sé. Miseria.
Ingiustizia. Fame. Morte. Si iscrisse all'università di Szeged perché
voleva diventare un insegnante, ma ne fu espulso per aver scritto una
dura poesia di denuncia; da quel momento tirò a campare coi magri
proventi dei suoi scritti, che qualcuno cominciava a conoscere.
Immediatamente dopo, cominciò a dare segni di schizofrenia, finendo in
cura psichiatrica. Il 3 dicembre 1937, dopo trentadue anni di questa
vita, andò in una stazioncina di campagna dal nome per noi
impronunciabile, Balatonszárszó, e si buttò sotto il primo treno che
passava. Per divenire ed essere considerato il più grande poeta che il
destino avesse dato all'Ungheria nel XX secolo dovette, naturalmente,
provvedere a ammazzarsi dopo un'esistenza di merda; succede così.
|
Attila József e sua madre. |
Quando,
il 6 gennaio 1931 (datava sempre scrupolosamente le sue poesie), Attila
József scrisse questa poesia, sua madre era morta oramai da dodici
anni; Attila, di anni, ne aveva ventisei. La sua lingua era, al tempo
stesso, delicatissima e perfetta, e durissima e popolaresca. Col tempo,
era diventata anche cinica, di quel cinismo che ha chi avverte attorno a
sé, in ogni cosa, il peso di una società ostile. Ma era anche poesia
lucidissima che esprimeva una coscienza di classe: per questo non è
sbagliato dire che era un poeta proletario, uno dei principali che
l'intera Europa abbia avuto. In tutto ciò che scrive si avvertono le sue
concezioni sociali derivate dalla sua vita, dall'esserci dentro senza
via d'uscita. Un suo verso dice: “Soltanto i poveri andranno
all'inferno.” E', la sua, una poesia che non consola affatto; una poesia
di risentimento, spesso faziosa, di durissima protesta. Ma, al tempo
stesso, è una poesia semplicissima, non retorica, contenuta formalmente
proprio per dare maggior mordente a ciò che vi si dice. Una cosa che in
“Mia madre” è espressa al meglio. State per leggere ciò che è, a mio
parere, uno dei capolavori della poesia del secolo passato.
La madre di Attila József era una donnetta striminzita, che a
quarant'anni ne dimostrava venti di più. Proletaria, lavoratrice
malpagata e donna. Con le spalle ingobbite. Anni dopo la sua morte, il
figlio se ne ricorda, e se la ricorda così: portare a casa, per
mangiare, qualche avanzo del padrone. Stanca e distrutta dal bucato
imposto, perché il padrone deve avere la biancheria pulitissima.
Spezzata dal capitalismo, e questa non è una metafora: così dice,
precisamente, un verso della poesia. Ad un certo punto prorompe,
inatteso, un monito. La madre diventa simbolo di tutte le donne
proletarie, e di tutti i proletari. Dei poveri, degli sfruttati. Di
milioni di esseri umani che, come lei, sono risecchiti e senza niente.
Segno e simbolo del dolore del mondo, che è un dolore che ha una causa.
Non dice di lottare, Attila József: ma leggendo ogni parola di questa
poesia, ne dovrebbe venire l'imperativo categorico.
E' giunto quindi il momento, se non la conoscete, che la leggiate nella
storica traduzione che ne fece un giramondo nato a Montalcino e dal nome
bellissimo, Folco Tempesti, nel 1969. Buona lettura, e pensateci.
MIA MADRE
Una domenica sera mia madre è tornata
fra le mani recando due pentolini:
sorrideva in silenzio e s'è fermata
un po' nella penombra.
Nelle pentole c'erano gli avanzi
della cena dei nostri padroni;
anche a letto, dopo, io pensavo
che quelli ne mangiano pentole piene.
Mia madre, esile, scarna, è morta giovane:
le lavandaie muoiono presto.
Le gambe non reggono ai carichi,
la testa duole dallo stirare.
Ed è il bucato la loro montagna!
Per allietanti giochi di nuvole,
il denso vapore, e per cambiare aria
le lavandaie hanno, su, la soffitta.
La vedo: sta con il ferro da stiro.
Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo;
si fece sempre più striminzita
- pensateci, proletari.
Si aggobbì per lavare:
ed io non sapevo che era ancora giovane.
Sognava di avere un grembiule pulito
e allora il postino la salutava.
A bögrét két kezébe fogta,
úgy estefelé egy vasárnap
csöndesen elmosolyodott
s ült egy kicsit a félhomályban.
Kis lábaskában hazahozta
kegyelmeséktől vacsoráját,
lefeküdtünk és eltünődtem,
hogy ők egész fazékkal esznek.
Anyám volt, apró, korán meghalt,
mert a mosónők korán halnak,
a cipeléstől reszket lábuk
és fejük fáj a vasalástól.
S mert hegyvidéknek ott a szennyes!
Idegnyugtató felhőjáték
a gőz s levegőváltozásul
a mosónőnek ott a padlás.
Látom, megáll a vasalóval.
Törékeny termetét a tőke
megtörte, mindíg keskenyebb lett :
gondoljátok meg, proletárok.
A mosástól kicsit meggörnyedt,
én nem tudtam, hogy ifjú asszony,
álmában tiszta kötényt hordott,
a postás olyankor köszönt néki.