mercoledì 31 dicembre 2008

Il gocciolìo


Partiamo subito coi simboli. Il simbolo del 2008 è nella foto che vedete sopra; una cucina. Cliccateci sopra per vederla meglio. Una normalissima cucina che si può osservare in tutta la sua palese cucinità (Küchenheit). L'acquaio (per i non toscani: il lavello) coi piatti dentro ancora da lavare, i bussolotti dello sgrassatore Chanteclair e del liquido per piatti Esselunga, l'Alicia De Longhi, lo scottex e il surreale menù della pizzeria “Al Dees Matt” di Piacenza (pizza “idem con patate”, solo per dirne una) coi disegnini che illustrano la filastrocca del “decino falso” che, gira che la rigira, va a finire sempre nella cassetta delle offerte e che fa arrabbiare il parroco.

Per motivi che non sto a dire, e che tanto non interessano a nessuno, a lungo sono stato senza cucina a casa mia; è il cosiddetto stato di acucinità (Unküchenheit). Tale bizzarra condizione mi ha provocato làzzi e frìzzi a non finire, tanto che la “cucina del Venturi” è assurta oramai a modo di dire; “come la cucina del Venturi” è un po' come l'Araba Fenice, che ci sia ciascun lo dice eccetera eccetera. Condizione venuta a cessare un giorno all'inizio dello scorso novembre, come dovrebbe essere testimoniato dalla fotografia. Ma so bene che una fotografia è una ben labile prova; si potrebbe dire che è un fotomontaggio, che è stata disegnata con qualche marchingegno informatico, qualsiasi cosa. Affrancarsi dalla Unküchenheit non è facile; pazienza. Lo dicevo giusto giusto un par di giorni fa a quel dilettante di Giobbe, mentre gli cucinavo una frugale cena a base di lenticchie con l'olio e l'aglio.

Per il resto, ecco che finisce un altr'anno. Su un blog di una persona che conosco, uno dei pochi che continuo a leggere molto volentieri, ci sono gli “editoriali”: mensili, annuali. Non so e non voglio sapere se il suo autore li intende come una specie di bilanci, ché sono affari suoi e negli affari degli altri proprio non voglio metterci più bocca (né tastiera); però, per quel che mi riguarda, coi bilanci io ci vo pochissimo d'accordo, per non dire punto. Però stanotte ci avevo voglia di scrivere l'ultimo post dell'anno, e pigramente mi sono accomodato a vergare 'ste righe sansilvestramente banalotte. Ho d'altronde poco da dire sulle situazioni. Di guerre e affini mi occupo altrove. Degli squallidi personaggi che ci governano me ne importa ancor meno che dei governi, il che è tutto dire. Ogni tanto ho avuto da dire qualcosa su una cosa che mi sta a cuore, lo stupido razzismo di questi tempi; a un certo punto sono passato all'Asocial Network. In tutta sincerità credevo di avere inventato io questa locuzione, e me ne sono pure beato per una decina di minuti. Poi mi è presa la curiosità di andare a smanettare su Google e ho visto che dà 1780 risultati. Insomma, non ho inventato proprio una beata sega. Pazienza anche qui. A non “interagire” più ci sto benissimo. In un periodo di sovraesposizione mediatica in cui tutti danno in pasto la propria vita, io mi sono rinchiuso qui dentro senza dare più la possibilità di “dire la propria”. O meglio: ditevela pure, ma non mi rompete più il cazzo con le vostre magagne, i vostri “musi duri”, e nemmeno con i vostri grandi affetti, le acrobazie verbali e le tragicommedie fatte di pixel. Chi ancora pensa di volermi bene, sa dove sto. La porta è sempre aperta, e se anche è chiusa possiede un campanello. E se non sono in casa, sul campanello c'è un numero di telefono. Se non sento suonare quel campanello o squillare quel telefono vuol dire che non vi interesso, ed è una cosa oltremodo legittima. E anche questo è l'anno che sta per essere passato.

E' cominciato assieme a delle persone, e finirà con altre. Domani c'è il rito della “festa di capodanno”, e confesso che mi piace. Ricordo quasi tutti i capodanni che ho passato. Tra il 1978 e il 1979 lo passai da solo a ascoltare Radio Bucarest che trasmetteva in rumeno. Tra il 1979 e il 1980 invece ero a giro per Firenze con una tizia truccata “dark” e che si era fatta coscienziosamente baciare in mia presenza da un tipo da spiaggia di nome Brunero; funzionava così, sembra. Tra il 1992 e il 1993 vagavo di notte fra via delle Cinque Vie e via Benedetto Fortini. L'anno dopo ho imparato, e non lo direste mai, a pattinare sul ghiaccio sul lago di Lavarone, sotto una nevicata mai vista prima. Tra il 2005 e il 2006 ero a vedere i fuochi d'artificio sul lago di Vevey, in Svizzera, inzuppato d'acqua perché io l'ombrello non lo porto per davvero. Tra il 2007 e il 2008 ero assieme a delle persone, molte delle quali non rivedrò mai più; ed è una cosa oltremodo normale, e che finalmente riesce a non farmi più né caldo e né freddo.

Anche questo è l'anno che sta per essere passato; domani sarò con altri che mi entrano nella testa per non uscirne mai più. Poi si avvierà un altr'anno che, come tutti gli altri, sarà fatto di tutto e di niente. Che sarà, al tempo stesso, inutile e fondamentale. Che sarà un'altra parte della propria vita. Altre persone verranno, ed altre se ne andranno; verranno scritti ed espressi altri modi per affermare una presenza che, come da sua natura, sempre sfuma nel gocciolìo del tempo; finché qualcuno o qualcosa non si deciderà a chiudere quel dannato rubinetto. Ma per ora continua a gocciolare, e quel tìc tòc sono io, e siete voi, e siamo noi.


lunedì 29 dicembre 2008

Ad Liburnum. Nuova Guida Informale alla Città di Livorno.


Questa nuova "Guida Informale" si propone di suggerire al visitatore, al turista ma anche al livornese una nuova gamma di locali, esercizi & altri luoghi che, nel XXI secolo, possano suscitare nuovo interesse verso la simpàtica città toscana.


1. RISTORANTE “AL TERMINE DELL'UNIVERSO”

Via degli Asili, 26 – Livorno. Tel. 0586/7729034

Orario: Tutti i giorni dalle ore 23,00 alle 05,00 - Chiuso il martedì

Era stata, finora, questione di romanzi o film di fantascienza, più o meno riusciti; e da un noto romanzo del genere questo fantasmagorico locale riprende il nome, superando però di gran lunga ogni possibile & futuribile immaginazione. Rinunciando per ora ad ambientazioni intergalattiche, ché in fondo a noi delle galassie non ce ne importa praticamente una sega e l'universo può terminare dove si vuole (per quanti non va più in la del proprio naso?), diciamo immediatamente che il ristorante, situato in una via della città vecchia che già, da decenni, ospita la storica sede della Federazione Anarchica Livornese, ha già attirato, nei suoi scarsi sei mesi vita, l'attenzione dei media e dei fautori di un rinnovo della cucina pur nel rigoroso rispetto della tradizione. Una via labronica alla nouvelle cuisine? Non ci poniamo neppure il problema, così come non se lo è posto Rolando Razzaguti, proprietario e mèntore del Termine dell'Universo, assieme al suo chef, Ugo Van Vreeswijk, scarno superstite della nazione olandese che già diede nome agli Scali, e che a tutti quanti dice di chiamarsi Bianchi perché tanto nessuno saprebbe pronunciare il suo cognome senza prima annodarsi la lingua, e poi prorompere in colorite bestemmie all'indirizzo di tutti gli dèi e i santi possibili e immaginabili.

Un'insegna tracciata con un pennarello carioca su di una lastra di latta smaltata, una porta che sbatte di continuo e che nelle serate di vento forte dev'essere rinforzata con una robusta sèggiola, facendo peraltro battere delle dentate sul nudo pavimento agli avventori che ancora non sono a conoscenza delle particolari condizioni del locale; l'orario assolutamente improponibile per le normali famigliuole, gli onesti lavoratori che devono rizzassi alle sei di mattina per andare ad essere vessati e financo schiavizzati dal sor padrone e, in generale, coloro che sono fautori di una vita sana e regolata; l'atmosfera stessa del locale, assolutamente e fieramente menèfrego di ogni divieto di fumo e per questo regolarmente gravato di multe atroci da parte del Comune di Livorno -fogliacci che vengono utilizzati come carta da culo nelle orrende e malsane latrine attigue alla cucina e che, comunque, prima o poi faranno chiudere il ristorante con relativa demolizione, spargimento di sale sulle sue rovine e doveroso esorcismo per cacciare diavoli, dimonij e soprattutto un deciso puzzo di piscio misto a blinis Strogonoff, afrore da cignale, paillarde à la bourguignonne e merda secca stratificata che proviene dall'interno1.

Non sarebbe già questo sufficiente per una visita? Ma si dà il caso che, anche tenendo conto ditutte le particolari caratteristiche del Termine dell'Universo, ad un ristorante ci si vada essenzialmente per mangiare. E qui sta la vera e propria rivoluzione operata da Razzaguti e Van Vreeswijk, sin dal primo giorno di apertura (fissato simbolicamente al 7 novembre). Alla peraltro non numerosa clientela accorsa (dato che nessuna forma di réclame era stata operata sui media locali, sebbene alcune scritte con lo spray fosse apparse sui muri della città fin dalla fine di agosto), fu proposta una “serata inaugurale a tema” che ha fatto epoca: la Serata dei Piatti Vuoti. Il trionfo dell'Immaginazione in cucina spinto alle estreme conseguenze: fatti accomodare gli avventori a dodici tavolacci zoppi, dopo una breve presentazione e un brindisi a base d'acqua del rubinetto (a temperatura ambiente) in bicchieri di risulta, furono soffuse le luci e presentati dei piatti completamente vuoti con l'invito a concentrarsi, meditare, e riempirli coi propri desideri più reconditi. Con le specialità che non venivano più gustate dall'infanzia, con i più immondi troiai proibiti dal dottore, con le leccornie che la moglie non sa preparare manco se la pigli a legnate ner groppone, con le mescolanze più ardite e indicibili. Chi vide nel suo piatto una montagna di croste di parmigiano fritte nell'olio, chi una quiche di ranocchi sbucciati al sugo di pavoncella in agrodolce, chi un blocco di sugna di majale da mangiarsi a cucchiaiate fino all'irreversibile coma da grassi polinsaturi, chi una delicata pastina glutinata col formaggino Mio sciolta dalla cuginetta che nel frattempo praticava le prime, timide ditate sull'implume membro, chi una monumentale frittura di cèe condite col burro. Un giovane assai impegnato sul fronte di una corretta e sana alimentazione, che era intervenuto sia per personale curiosità che come inviato dell'autorevole rivista Mangia Sano e Caca Bene, s'era occhieggiato nel piatto un letale, quintuplo deathburger del McDonald's, con strati di ketchup al peperoncino armato del Chiapas, pancetta assatanata del Vermont, strutto di Perignano e formaggio pressurizzato dei macelli di Chicago; casualmente udito dalla fidanzata (che lo attendeva preoccupata fuori dal locale) mentre declamava berciando gli ingredienti del panino, uno ad uno, era stato crudelmente abbandonato con lancio dell'anello e grida del tipo: brutto merdaiolo, vigliacco e assassino, ieri tu m'ha' fatto 'ondì l'inzalata 'or gomasio e coll'olio di 'oriandolo! Te lo do io ir checiap!

Così era andata; dopo circa un'ora di fantasia al potere nel piatto, le luci erano state riaccese e gli intervenuti si presentavano in posture del tutto degne di un apocalittico quadro di Bruegel il Vecchio, una Narrenschiff di giacche strappate, addentature di malleoli, visioni mistiche, diti in culo, lividi sugli zìgomi, sputacchi ne' polsini, mòccoli a Sant'Ignazio di Loyola, ovazioni al chef e fugaci amplessi con la dott.sa Grazia Maria Licciardi, segreta degustatrice della Gault & Millau, la quale s'era lasciata andare al sesso promiscuo dopo aver immaginato nel suo piatto vuoto una cospicua île flottante in forma vagamente fallica. Soltanto una voce dissonante si era levata, quella di un minuto e tranquillo signore che cercava urbanamente di dire: - Ma ora 'sta caata occorre pure pagàlla? Il disgraziato fu immediatamente fatto oggetto della più acuta riprovazione, riempito di picchi ne' denti e sbattuto fuori dal Ristorante a ombrellate nella nuca, ché si trattava d'una novembrina ed uggiosa serata di pioggerella salmastra.

Consegnato agli avventori un conto di circa duecentocinquanta euri a persona, prezzo invero assai mite per quell'esperienza mai vissuta prima, la fama del Termine dell'Universo ebbe un immediato e grande balzo in avanti; invero, però, la Serata dei Piatti Vuoti non è stata più ripetuta, vuoi per gli elevati costi, vuoi per la sua unicità che tale deve restare, e vuoi anche per le accorate seppur civili proteste del consorte della dott.sa Licciardi, che s'è ritrovato la moglie trasformata in una ninfomane culinar-declamante e che ultimamente l'ha data pure a un tizio che era venuto a vendere surgelati porta a porta col furgone della Bofrost. Altre serate “a tema” sono però state escogitate, alternate ad una cucina la cui filosofia “oltre” pone continue sfide all'appassionato che desidera addentrarsi nei meandri più inesplorati del gusto.

Si va dalla “Serata Ad Metalla”, usualmente proposta il giovedì, in cui piatti della più squisita tradizione labronica vengono reinterpretati con sapienti pizzichi (in dosi certificatamente non letali) di metalli comuni e rari (notevolissime le triglie al cromo-vanadio, il lesso di manzo rifatto à la Torricelli con un sorprendente intingolo di mercurio e salsa béarnaise, gli spaghetti al vecchio sugo selenizzato e i fenomenali mostaccioli all'ununnillio, che si trasforma in piombo dopo una spettacolare seppur brevissima reazione termonucleare); la domenica, invece, c'è la gettonatissima “Serata del Pajolo”, durante la quale, in un capiente pajolone empìto d'acqua di mare proveniente dal porto industriale e contenente quindi un vasto campionario di idrocarburi, vengono messe a bollire verdure, pezzettoni di pollo, gli avanzi di carne (grasselli, cartilagini ecc.) che nelle antiche macellerie livornesi venivano dette topa, sassi muschiosi, pesci rimasti intrappolati nelle fognature cittadine ed altri gustosi ma dimenticati ingredienti della più schietta cucina popolare, per offrire una zuppa che viene versata caldissima e scoppiettante in scodelle di legno, accompagnata generalmente da un buon vino rosso di Cenaja servito in prezïose caraffe di cristallo di Collesalvetti. Ma anche nelle serate non a tema, non rinunciate all'avventura di un riso al nero di seppia e catrame dell'Elba (ancor chiamato, come da tradizione, blècche), a un bordatino con cavolo nero e scaglie di cinghie di distribuzione di OM Lupetto del '61, alla francesina con fricassea arricchita con raschiature di calli di Lucarelli (il grande centravanti fornisce personalmente tale rarissimo ingrediente) e la spigola al cartoccio in lamierino ondulato.

Potrà forse stupire che, in tale tripudio, manchi dal menù la gloria della cucina livornese, il cacciucco; ma, come ha dichiarato Rolando Razzaguti in un'intervista alla Gazzetta di Parma, “Qui tutto è un cacciucco, nel senso etimologico del termine. La parola, infatti, deriva dal turco küçlük, che significa guazzabuglio, mescolanza di ogni cosa; così noi facciamo essenzialmente con ogni piatto, mèmori di quando a Livorno c'era una fame da strappàssi ir bùo 'oll'ugne e avèccelo un po' di catrame da mètte' ner piatto pe' condì la magerrima pietanza.” Come dare torto al geniale ristoratore e al suo chef Van Vreeswijk? Nel frattempo, il Termine dell'Universo ha provocato amori e lodi senza fine, come odî feroci e insanabili. Se la Gault & Millau, spinta dall'oramai conquistata dott.sa Licciardi, lo qualifica di “pietra miliare nel rinnovamento della cucina italiana, imprescindibile, sublime tempio dell'anarchico ordine cosmico coalescente nei retrogusti avvitati che esplodono in una weltanschauung, in una strassenbahn, in una bundesliga di sapori primordiali che fanno gridare all'orgasmo, sì, all'orgasmo”, per la paludata e conservatrice Guida Miscelèn il locale è liquidato semplicemente come un “disgustoso merdajo” (un merdier dégoûtant nell'edizione originale francese). Se Gualtiero Marchesi lo ha definito “un'originale forma di suicidio”, Gianfranco Vissani si è dichiarato “stupito, esterrefatto, commosso, adorante”.

Comunque sia, un motivo in più per una visita alla nostra bella Livorno, spinti anche dalla modicità e all'originalità dei prezzi e dei modi di pagamento (150/300 euri a persona, con possibilità di saldo mediante 8 giorni di prestazioni gratuite presso le granducali Saline di Volterra o, a scelta, giorni altrettanti di pulitura stive presso un cargo a scelta alla fonda nel porto labronico) e dalla vasta carta dei vini, che propone tra le sue perle un Catarro Secco di Porto Marghera del '94, un Tenuta S. Polimero del Salento del '90, un Sita Persa Sottoilnaso delle Murge del '91 e, tra i bianchi, un rigoglioso e protuberante Château Bande à Bonnot dell'84. Prenotazione non obbligatoria, ma si consiglia di presentarsi almeno 45 minuti prima dell'apertura muniti di tirapugni e pattada sarda.

1The typical, inimitable “Termine” smell, a very distinctive feature of this unique restaurant – Lloyd Constantine, A Guide to the World's Alternative Cuisine and Restaurants, London, Routledge & Kegan Paul, 2008

mercoledì 24 dicembre 2008

Auguri


Domani sarebbe natale, e fra qualche giorno c'è anche un nuovo anno. In altri tempi, magari, avrei sproloquiato sul mio solito odio per le “feste”, mi sarei fatto il consueto “sfogo” (che peraltro mi sono comunque, e buffamente, concesso in un posto dove si parla della Fiorentina, con il pretesto della malaugurata interruzione del campionato), e altre cose. Quest'anno sono arrivato quasi all'atarassia, all'indifferenza totale. L'anno passato? Sono successe, come è logico che sia, tante e differenti cose. Sono accaduti degli inizi, e sono accadute delle fini. Ci sono stati dei cambiamenti e dei proseguimenti. E me ne sto qui nel mio parallelepipedo ipogeo, rigorosamente da solo ché ci sto alla perfezione, vestito da 118 perché mi faceva fatica spogliarmi e cambiarmi (e poi il “pile” verde da autista di ambulanze è bello caldo e permette di rimandare tranquillamente l'accensione del riscaldamento, ché c'è la crisi e si risparmia un po'). Poco fa mi sono fatto una bellissima cacata, che di per sé sarebbe la migliore consolazione degli afflitti; figurarsi quando non si è per nulla afflitti, come nel mio caso attuale. Domani? Un giovedì. Destino pure ha voluto che avessi la macchina dal meccanico, grazie ad un braccetto dell'avantreno spezzato a causa di buche nell'asfalto, dossi rallentatori e altre nequizie stradali; me la renderanno il 29 perché il pezzo ha dovuto essere ordinato. Quindi, a casina. Niente famiglie, niente strippate, con la mia squisita coerenza mi sono comprato “Sky TV” e magari riesco a beccare una partita del campionato coreano, o equadoregno, o di chissenefrega dove. Nel frattempo soneranno le campane, din don dan, e può essere che riuscirò a farmi una bella dormita, e magari anche un bel sogno.

Vada come vada, magari mi piglierà la voglia di andare fino a Ugnano a piedi, alla casa del popolo. A scambiare tre parole, a pigliare un caffè e un grappino. E poi, scrivere qualcosa, come questa. Fondamentalmente senza né capo, né coda. Magari, sì, potrei fare degli “auguri” a chi se li vuole prendere; a quelle persone che più o meno gradiscono ancora la mia esistenza, o perlomeno cui non dà eccessivo fastidio. Ad un amore discreto e di non moltissime parole, ma di tante cose belle e finalmente vere fino all'ultima. All'ottobrino sciroccato, torinista e cantautore, e da ieri persino terremotato. Al compagno sassarese che ogni tanto mi riprende le cose che scrivo, ché magari non ci vedremo mai ma che mi va di buttargli un pensiero. A quella specie di complice del “Va”, ai suoi casini e al suo amore per la pioggia e il brutto tempo. Ai “minimi termini” di chiunque, ma particolarmente di un tizio in riva a un lago. Alla bandana e alla rosa di un altro tipo che chiede ai passanti se hanno incontrato un elfo. A chi stasera si troverà, per l'appunto, a sonare le campane davanti a un défilé di vestiti della festa. Ad uno tornato senza clamori e senza fretta, trasferitosi lontano, forse finalmente in pace. A un paio di donne, madre e figlia. A mia madre, a mia zia e a mio fratello. E ad altri ed altre ancora, cui li faccio, questi “auguri”, senza ulteriori cose, senza né pretendere né desiderare risposte, nudi e crudi. Li prendano se gli va; e se non gli va, li buttino pure nella spazzatura o li riciclino, e sia detto da uno troppo pigro per fare la raccolta differenziata.

Li faccio anche a chi sicuramente non gliene frega un cazzo, agli andati, ai passati, agli amori terminati, ai diciotti ottobri interrotti (ché, tanto, il diciotto ottobre in realtà non era accaduto nulla di trascendentale), ad ognuno e a nessuno al tempo stesso. In realtà, non so neppure che cosa “augurare”. Vorrei augurare a tutti di restare vivi, ma sicuramente se lo augureranno in modo assai più gradito ed efficace da soli. La finisco qui sennò va troppo per le lunghe e bisogna essere concisi, in queste cose. Li faccio, gli auguri, anche a me stesso. Stavolta nessun “meno che a uno”. Divertitevi, state bene, e se per caso vi passo nella testa state tranquilli ché me ne vado subito. Puff.


domenica 21 dicembre 2008

Ἡ νῆσος ἐστίν (3). Seccheto, Fetovaia, Pomonte. 17 dicembre 2008.























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Avviso & Auguri

Nei prossimi giorni (si spera per poco; ma non si sa mai, quindi meglio mettere un "avviso ai naviganti") questo blog andrà molto a rilento per problemi tecnici.

In pratica, grazie all'oculatissima gestione di rete di Fastweb (che utilizzo), Google mi ha bloccato l'accesso ad alcune funzioni, tra le quali la gestione di questo blog. Fastweb utilizza una sorta di "IP collettivo"; basta che un utente qualsiasi che si serve del mio stesso indirizzo IP faccia qualcosa di sgradito a Sua Maestà, Herr Google, e addio accessi a tutti gli altri utenti.

Si potrebbe ovviare acquistando un IP pubblico ("gratis per ben 20 ore al mese!", come mi ripeteva un operatore Fastweb mentre lo sfanculavo a gran voce, al telefono), pagandolo salatamente; naturalmente me ne guardo bene, e per il blogghino si vedrà; andrò nel frattempo a curarmelo un po' al CPA e dovunque esista un IP diverso dal mio, oppure ricorrerò a "rigirìi" provvedutimi da una certa informatica con la quale ho una discreta consuetudine (e che oggi compie gli anni: auguri Daniela!!!!!).

Beh, in qualche modo il resto delle foto riuscirò a inserirlo; sia mai che il qui presente si lasci abbattere da un Fastweb qualsiasi; non mi hanno abbattuto ben altre cose.

Nota a margine: Il problema si è gia fortunatamente risolto e il blog "funzia" regolarmente.

sabato 20 dicembre 2008

Ἡ νῆσος ἐστίν (2). Il Formicaio, 17 dicembre 2008.






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Ἡ νῆσος ἐστίν (1)


νῆσος ἐστίν. L'isola c'è. Ma le sue immagini, se le andate a cercare nella grande Rete, sono sempre sotto il sole. Pochi, credo, l'hanno vista, l'Isola, in delle giornate invernali, quando il sole in realtà appare come una conquista, e magari dopo una tempesta che ha spazzato le sue coste e trasformato i paesi in cataste di barche sbattute persino nelle piazze. E' in giornate come queste, in stagioni come queste che l'Isola c'è davvero; e allora, trovandomici, ho pensato non solo di scriverlo con un piede sulla sabbia bagnata della Grande Spiaggia, in quella lingua greca che, comunque, è e resterà sempre la lingua fatata e franca delle Isole; ho pensato anche di prenderne tutta una serie di immagini, nella sua parte sud-occidentale che è quella più esposta al mare e ai venti, e di lasciarle parlare. Da sole. Da qui i "post" che seguiranno, suddivisi grosso modo per zona, e senza alcun commento. Le immagini sono state prese mercoledì 17 e giovedì 18 dicembre 2008.

mercoledì 17 dicembre 2008

E si vedono altre terre




L'Elba in dicembre è un po' di tempo che non la vedo, da anni e anni. Torno a vedermela per un due o tre giorni, in questo mese, dopo un periodo in cui ho addirittura, mi si perdoni l'orripilante parola, lavorato. È ora di smetterla, e di inforcare il traghetto da Piombino con una scusa qualsiasi, quando è soltanto la voglia di vedere spiagge vuote, la stufa accesa in casa, il paese deserto, i vecchi imbacuccati, l'isola come isola. Un tempo fu appurato qui dentro che le isole non esistono. Benissimo. Non esistono, e per me vadano anche a farsi fottere, piccole e grandi, una dopo l'altra; ma esiste l'Elba, che è un'isola, che è la sola. Perché io la voglio così e la sento così, e io sono il re di me stesso.

Ci voleva, per quest'Elba dicembrina, una partenza strana. Ho deciso di non andare a dormire, ché tanto non ho sonno. Parto alle tre di notte per pigliare la nave delle sei e quaranta. Sarà ancora buio quando infilerò il muso della macchina dentro l'Oglasa, o la Marmorica, o quel che sarà. Sarà ancora buio quando sentirò le sferzate fredde del vento di mare. Sarà l'alba quando mi apparirà Portoferraio. E sarà prima mattina quando arriverò al Formicaio. Poi, probabilmente, me ne andrò a letto a sognare qualcosa e qualcuno. A casa. Sull'isola, ché isola è. L'unica, la sola, la mia.

È uno di quei periodi in cui si ricuperano le cose vecchie, cose delle quali ci si è forse persino vergognati a lungo. Come le poesie, seppellite, impolverate, buone soltanto per un sorrisetto imbarazzato al ripensare d'averle una volta scritte. Poi, invece, ci si accorge che sono anch'esse una parte di te. Una di queste parlava dell'Isola in inverno. Avevo ventun anni quando l'ho scritta col pensiero, perché non ero all'Elba; si chiama Isola, così, e basta. La voglio dedicare a me stesso, a quel che ero, a quel che sono. Non me ne frega un cazzo se sia brutta o bella. Sono parole che mi sono venute fuori in un tempo oramai lontano.

È un giorno di sole invernale,
Con aria limpida, e si vedono altre terre:
Col corpo fermo qua nelle piazze
Sto dirupando giù dai tuoi pendii.

Ci sono barche dai colori smorti
E spiagge che si specchian nei calanchi:
Col corpo fermo qua, in queste vie
Da un pino guardo verso casa mia.

Ti seguo per i sentieri, tra i pruni,
Tra le miniere stanche ed irreali,
Mani di dei accendon fuochi fatui
Nelle tue chiese dai venti consacrate.

Nave che lascia una scia di gabbiani
Staglia alla vista una tua profondità.
Grida delle tue coste addormentate
Nel giorno di gennaio lungo e breve.

Ed i tuoi vecchi abitanti senza pelle
La insegnino a mutare a quelli nuovi,
Stridono a centinaia, senza nome,
Vigne e terrazze, casematte abbadonate.

Dalla tua vecchiezza vengo, e dalla rabbia
Che mi riempie nel vederti confiscata;
Figlio di un'isola sono, figlio del mare,
Della separazione, della sete.

Figlio delle tue fughe, delle tue grettezze,
Figlio di questo sole ipocondriaco;
Dei tuoi gatti rugginosi, dei tuoi colli,
Della tua pesca, del tuo carcere son figlio.

Se potessi, t'avrei dal fondo sradicata
E gettata seimila miglia ancor più al largo;
Ti vedo sporca, umiliata ed insabbiata,
Ti ho nel cuore, con le tue forme, isola.


lunedì 15 dicembre 2008

Deviazioni


Sono stata sparata, credo, dall'arma di un soldato o di un poliziotto, in una piazza di una città, e c'era tanta gente. Perché noialtre pallottole non abbiamo né anima, né cuore; né occhi per vedere, né orecchi per sentire. Forse. Ad ogni modo, ci infilano in un tubo di metallo, si sentono grida secche, tumulti, altre voci e rumori sovrapposti; poi partiamo. Sparate. Ma non partiamo mai da sole, ci dev'essere sempre qualcuno che ci spara, e quel qualcuno è un uomo in mezzo ad altri vestiti uguale.

E' l'unica cosa di cui ci accorgiamo, l'impulso, la compressione, l'attrito; poi cominciamo a volare. C'è, tra noi, chi raggiunge immediatamente il bersaglio; e allora si ritrova impantanata, conficcata, a finire il suo volo dentro un essere vivente; e la fine di quel volo si chiama morte. Morte per entrambi, morte organica, morte inorganica. Cadiamo entrambi a terra, io dentro a un cuore, a un fegato, a una testa. E non esiste, poi, più nessun rumore. Finito tutto. Scopo raggiunto. Bersaglio centrato. Restiamo là, inutilizzabili. Una vita che non c'è più, assieme all'oggetto che gliel'ha tolta.

Io non ho avuto questa sorte. Ne ho avuta una ancora più stupida e triste. Mi ha sparata un giovanotto di belle speranze, che credeva nella giustizia e nella legalità, e di poter difendere queste due nobili cose obbedendo a degli ordini. Gli dicevano: “Spara!”; e lui sparava. Sotto le sue belle speranze ce n'era un'altra, più grigia, che non si poteva dire; al massimo pensare, o sussurrare tra sé. C'era la speranza di poter sparare a chi voleva lui, senza ordini, senza obbedienza. C'era una giustizia del tutto personale, condita d'invincibilità, insaporita da quell'arma che gli avevano messa in mano. Di fronte, persone che di armi non ne avevano. Che cosa volevano? Pane? Lavoro? Una vita migliore? Essere pagate di più? Oppure, più semplicemente, non lo sapevano neppure loro che cosa volessero? Oppure, ancor più semplicemente, si trovavano a passare di lì? A noialtre pallottole cosa importa. A noi ci sparano. Altro che essere sparate non sappiamo fare.

Mi ha tirata, quel giovanotto, e non ho colpito il bersaglio che intendeva centrare, se mai lo intendesse. Ho colpito qualcos'altro. Un muro, un automezzo dalla carrozzeria particolarmente robusta, un albero dal legno durissimo, non lo so; e ho cominciato il mio viaggio. Sono stata deviata. Appartengo al novero delle pallottole deviate. Quelle costrette a vedere il mondo senza sapere cosa fare. Quelle che finiscono nelle perizie di parte. Quelle che servono sempre a far continuare ad avere speranze più o meno belle a quell'imbecille di giovanotto che doveva essersi accorto che differenza corre fra un poligono di tiro e una pubblica piazza, e tra un bersaglio di cartone e uno di carne viva.

Ho sentito un colpo su un mio lato. Ci sono anche di quei muri, di quelle carrozzerie, di quei legni che si lasciano conficcare; e non è poi malaccio. Almeno non abbiamo ammazzato nessuno. Ma ce ne sono di quelli perfidi, di muri. Di quelle carogne, di carrozzerie. Devo averne beccata una di questa categoria, ed eccomi deviata in alto, verso il cielo, verso lo spazio. Entrare in orbita? Che sogno. Un sogno, appunto. Neanche per sogno. La ringhiera di un balcone al terzo piano, sì, dev'essere stata quella, ed eccomi a volare per una via cittadina, affollata, coi negozi aperti, le chiacchiere, i bambini che tornano da scuola, gli innamorati che si baciano, i nonni che attraversano e tutte le consuete figure d'ogni giorno, tutti miei potenziali bersagli.

Mi ci stavo quasi abituando, o rassegnando; ma le vie cittadine hanno un terribile difetto, quello di terminare e di sbucare da qualche parte. Stònk, un altro muro, e sempre di quelli duri. Maledetta città di pietra, di cemento armato, di materiali imperforabili; ma le traiettorie impazzite mica le decidiamo noi. Dicono che le decide Dio. Su molte di noi, pensate, la parola “Dio” ce l'hanno pure incisa, e Dio sta sempre con chi ci ha sparate; mai con chi ci riceve.

Nulla da fare. Ancora a vagare per il cielo, in questo mio destino ridicolo. Qualcuno, forse, mi vede passare; no, vedere no, vado troppo veloce. Mi sente, impercettibilmente. Sta in terrazza a innaffiare i fiori e ode un bizzarro sibilo, wiiiiiiiiiiii....! Si domanda che sia. Una signora che stende i panni quasi sorride. Poi mi tocca un altro affare, un'altra deviazione. Sono oramai quasi fuori città, vedo degli stabilimenti, chissà se c'è anche quello dove sono stata forgiata. Ci lavora tanta gente, in quello stabilimento. Siamo prodotte in serie. Non abbiamo nome, ma un calibro. Il calibro serve a farci passare per il tubo giusto. Anche quel palo lì davanti, sembra un tubo; maledizione. Preso di striscio, ma di quel tanto che basta a farmi di nuovo cambiare direzione; e rientro in città. In un altro quartiere, con altra gente alle finestre e sui balconi, con altre tonnellate di vita che potrei far terminare in un attimo.

E via, e via, per altre strade, per piazze, per vicoli e viali. A rimbalzare di qua e di là, senza meta, senza un obiettivo. Ad un incrocio tra due strade, sembra anche a me di sentire un sibilo; dev'essere una mia compagna vagante, una che condivide il mio destino, magari sparata dallo stesso giovanotto che ancora se ne sta lì a difendere l'ordine; e chissà quante altre ancora ce ne saranno. Però sta succedendo qualcosa di strano.

Mi sembra di riconoscere, dopo un po', la via per la quale sto rimbalzando in volo. Accidenti, ma sì che è quella. C'è la signora che stende ancora i panni, deve aver fatto il bucato per tutto il condominio. C'è il signore che prima stava innaffiando i fiori; ora ha finito, si è messo a armeggiare ad un vaso, è sporco di terriccio; wiiiiiiiiiii....! Ed ecco quella via qualunque, ma sembra cambiato tutto. I negozi sono tutti chiusi. Non c'è più nemmeno l'ombra di bambini, di innamorati, di nonni. Solo un gruppetto di ragazzi che urlano qualcosa a qualcuno; ma guarda tu che roba. Mi sono fatta una visita della città, un city sightseeing. Ora potrei anche.....ma porca puttana, ragazzino, che fai! Spostati! Spostati! Vattene via! Sono stata ridevia......


domenica 14 dicembre 2008

Ugnano's Circolino's Viola's Sappòrterz



Sì, lo so che ho le "crisi di pigrizia", e inoltre sono un metereopatico. Il mese di dicembre mi fa veramente cacare, buio, freddo, il natalònzolo, le lucine e i regali, i babbi natale scalatori e tutto il resto. L'unica cosa buona è che il 21 dicembre comincia l'estate (visto che è il giorno in cui cominciano a riallungare le giornate), e che lo stesso giorno è il compleanno della Daniela; però, come tutti sanno, il 21 dicembre 2012 finirà il mondo secondo i Maya, accidenti a loro e alla mayala di su' ma'. Ci restano quattro anni per vincere 'sto cazzo di terzo scudetto, Diego datti da fà', scuci, eccetera eccetera.

Però, nonostante la pigrizia, nelle mie vene scorre sangue viola e alle ore 15, pur di questo mese infausto, sono davanti a un qualsiasi schermo Scaitivvù. Quest'anno avevo incominciato a San Bartolo a Cintoja, ma dopo un piccolo diverbio con un avventore ho deciso di emigrare alla casa del popolo di Ugnano. Scelta naturale: ho per le frazioni di Ugnano e Mantignano una passione che risale addirittura all'adolescenza, quando ci andavo a fare lunghissimi e solitari giri in bicicletta. Nelle belle giornate d'estate, a volte, mi ci sistemo a un tavolino, con libro e Settimana Enigmistica, passandoci ore e ore da pensionato anzitempo. Chissenefrega di tutto il resto, nella mia vita mi son sempre contentato di poco e la ricchezza, se voglio, me la creo con uno sguardo o con un pensiero.

E così, anche oggi, giornata di Fiorentina-Catania, eccomi nella "sala TV" della casa del popolo di Ugnano, dopo il consueto percorso. Pochi fiorentini saprebbero muoversi per il dedalo di stradine di campagna, perché Ugnano e Mantignano, non si sa ancora per quanto, sono rimaste uno dei pochi lembi di piana attorno alla città che poco sono stati toccati dall'urbanizzazione, anche se qualche troiaio di blocco abitativo sono riusciti a infilarlo pure lì. Via del Ponticino, via di Mantignano, via dei Pozzi di Mantignano, via del Tabernacolo...per arrivare poi alla casa del popolo col suo parcheggio fangoso, pieno di pozze che sembrano laghetti. Comincia Fiorentina-Catania, ed eccoli tutti lì.

Il tizio da spiaggia che, ogni volta che un giocatore Viola viene toccato da un avversario, anche a centrocampo, bercia: "RIGORE!". Ci sono le cinque sedie degli ipercritici, età media 82 anni, quelli che hanno visto giocare Sartimagninicervatogiulignomontuori, quelli che Liverani si sente la mancanza sempre di più, quelli che Pazienza hai visto che gol ha segnato ieri, quelli che "Vamborre" (non potranno mai arrivare a dire "Vanden Borre") è titolare fisso n'i'Ggènova (anche dire "Genoa" presenta difficoltà insormontabili), quelli che.

C'è quello che, al primo errore di Gilardino, comincia a invocare Pazzini: "Prandelli, e lèalo questo qui che 'un ne mette dentro unaaaa...metti i' Pazzooooo...!"; c'è quello che ce l'ha con Vargas anche quando non gioca (e oggi giocava), invitandolo a "tornare nelle favelas" (al che ho fatto gentilmente presente, a bassa voce, che le favelas sono a Rio de Janeiro e non in Perù); e c'è, ovviamente, l'anti-Montolivo di professione, quello che anche oggi ha avuto da ridire, quello che avrà sempre da ridire fino al giorno in cui Montolivo non passerà a qualsiasi altra squadra; e allora lo rimpiangerà, e allora giù a spalare cacca su chi "l'ha venduto", perché "con Montolivo in campo era un'altra cosa".

Ho smesso di incazzarmi. Anzi, a modo mio ho preso quasi a volere bene a questa fauna; che non è del circolino di Ugnano, è di tutti i circolini di questa città senza l'eguale, dove si riuniscono a vedere la partita i tifosi di una squadra senza l'eguale. Ché poi, quando il Gilardino smadonnato per tutto il match la mette dentro, saltano dalla sedia nonostante l'età avanzata, e urlano, e si abbracciano, e si vede che hanno gli occhi che tendono al lucido. Ché poi, mentre la luce pian piano scompare nel pomeriggio dicembrino, si apprestano a tornare a casa; e io non so nulla delle loro vite, come loro non sanno della mia.

Ché saranno vecchi che hanno lavorato per una vita, o giovanotti di paese, la bellona che la dà a tutti tranne che a quello che le sta dietro disperatamente, o tizi che domattina si dovranno svegliare alle sei per andare a consegnare l'ennesima giornata della propria vita al sor padrone per due lire di merda. E allora va bene tutto. Va bene anche essere contro Montolivo. Va bene anche dire che Gilardino non ne mette una in rete. Vanno bene anche le favelas peruviane. Poi, alla fine della partita, giocata in un lontanissimo Campo di Marte che lì, a Ugnano, è come fosse in un altro continente, si alza un omino, spenge la TV ed è già buio. E' ora di tornare a casa per altre strade che non conoscete. Viuzzo di Ugnano, via del Donicato, via Perlone Zipoli, fino a ripigliare via di Mantignano e via di San Bartolo a Cintoia.

Ricomincia la città, s'è vinto, forza Viola (eternamente).

Nella foto: un paesaggio di Ugnano.