Scrivo il 4 dicembre a distanza di un anno. Non di un anno da un assassinio da parte di uno sbirro di merda, di un mezz'uomo armato, di un'entità addetta alla repressione: scrivo esattamente in capo a un anno da quando Alexis Grigoropoulos era ancora vivo, e viveva inconsapevole uno degli ultimi due giorni della sua brevissima vita.
E non è neanche una cosa fatta semplicemente per ricordare. È una cosa fatta perché il ricordo non cessi mai di trasformarsi in rabbia, ma in quella rabbia che non è e che non deve essere mai fine a se stessa. In un anno che ha visto nuovamente gli studenti in piazza, con la relativa, consueta, immancabile e cieca repressione. In un anno in cui si sono confusi prèsidi e poliziotti. In un anno in cui si è vista, ed in modo irreversibile, la fine di quella legalità di cui tanto si voleva cianciare. La legalità non esiste. E non è morta nemmeno con Alexis. È morta in mille posti dove il disordine dello Stato ha ricominciato a picchiare e arrestare ragazze e ragazzi.
Io ho quarantasei anni. Mi chiedo che cazzo ci faccio a quest'età. Non mi riesce rendermene conto perché ho il cuore che batte con quei ragazzi. Ma non soltanto il cuore. Mi ci batte anche il cervello, perché capisco che cosa stiano passando. Stretti fra una scuola che già di per sé è galera, e che al giorno d'oggi della galera oramai ha assunto anche le fattezze e i regolamenti, e un futuro che è un'autentica istigazione al suicidio. Un futuro che può benissimo riservare un altro 6 dicembre, e una fabbrica dove si muore a grappoli per fabbricare dell'acciaio di merda.
Repressi e messi in un angolo dalle istituzioni ed anche da una massa di loro coetanei che hanno già ceduto alle menzogne del potere. Le solite menzogne a base di “merito”, di “lavoro”, di “obbedienza”, le menzogne che intendono trasformarli in macchinette da precariato. Questo da un lato. Dall'altro, disprezzati e irrisi da chi, alla loro età, faceva le barricate, le Valli Giulie, affrontando la polizia. Ma affrontandola con un retroterra che aveva delle basi, che aggregava, che permetteva di agire. I ragazzi di adesso non hanno più niente di tutto questo. Sono costretti a lottare inventandosi ogni giorno una ragione per lottare. E, in questo, hanno non solo il mio più grande rispetto, ma anche l'esortazione ad andare avanti sempre e comunque. Fregandosene anche dei tromboni di miei coetanei o più vecchi, che si rifugiano costantemente nei loro grandiosi ricordi e nelle loro ancor più grandiose gesta generazionali. Così facendo, non fanno altro che rinovellare l'invidioso disprezzo della vecchiaia nei confronti della gioventù.
Il 4 dicembre 2008 Alexis era ancora vivo. Non so, e non posso sapere, che cosa stesse facendo quel giorno. È ancora vivo, e non so dove sia ora, il suo assassino. Il poliziotto Epaminondas Korkoneas. Quello armato, come armati erano quelli di via della Colonna. Come armati sono sempre. Sono armati e poi chiedono “solidarietà”. Chiedono di capire il loro stress. Io lavoro una decina d'ore al giorno a strascinare disabili, malati, vecchi con edemi polmonari acuti, accoltellati e dolenti storie agli ospedali: torno a casa, a volte, che sono un concio. Eppure non mi viene di andare a sparare addosso a dei quindicenni. Eppure non mi viene di roteare un manganello.
Il 4 dicembre 2008 Alexis stava per morire. Gli restavano sì e no quarantott'ore di vita. E non lo considero, e non lo considererei mai un figlio, ma un compagno. Non mi pongo nei suoi confronti, nei suoi e della sua storia, come una specie di padre; ché i padri sono solo dei poveri imbecilli. Non ho e non voglio avere nessuna barriera di età. Non me ne frega niente dei quindici o dei sessant'anni. Quando la polizia ha sparato sulla folla, in diecimila posti, ha ammazzato vecchi e bambini. Quando il terrore dello stato ha messo bombe nelle stazioni e sui treni ha ammazzato neonati e anziani. Quando le mafie politicanti, e le politiche mafiose, hanno imbottito di tritolo i Fiorini e li hanno fatti saltare in aria in una notte di maggio, mi è toccato vedere, tra tonnellate di macerie, i piedi morti di un padre, di una madre, di due bambine e di un ragazzo.
E un ragazzo con un rotolo di scotch al braccio. E ragazzi ridotti a sacchi di sangue raggrumato nelle galere. E Alexis spezzato. Troncato. Un anno fa, a quest'ora, forse dormiva. Sognava chissà cosa, o anche nulla nel sonno pesante e necessario degli adolescenti. Vi ammazzano, ragazzi. Vi ammazzano con le pistole, con le galere, con la conformità. Vi abbattono il volo. E voi continuate a volare, in qualche modo. Davanti a tutto questo, in una notte di dicembre, cerco, per quel che posso, di darvi una mano. E se non la volete, poi, avete anche ragione; ma ve la do lo stesso.
Perché Alexis Grigoropoulos si è fermato a quei quindici anni che abbiamo tutti, che hanno tutti coloro che non pensano nemmeno per un momento di cedere. Che un gigantesco 15, un ΔΕΚΑΠΕΝΤΕ intriso di luce, ci accompagni in questo tunnel di cui non si vede la fine. Che nel criminale caos di coloro che blaterano di vuoti e merdosi valori ammorbati di morte, siate e siamo capaci di opporre il movimento senza fine che è base della vita. Che fra due giorni non si commemori un ragazzo morto, ma un ragazzo infinitamente più vivo, più beffardamente vivo, più duramente vivo, di chi vorrebbe fabbricarvi una gabbia addosso e poi farvi credere che è tutto normale.
Ο ΑΛΕΞΙΣ ΖΕΙ
ΟΙ ΝΕΚΡΟΙ ΕΙΣΑΣΤΕ ΕΣΕΙΣ