Ma era acqua, e non c'era da essere troppo schizzinosi. L'acqua di Chiessi, con la sua fontana e le sue sorelle pazze che la difendevano con le unghie e con i denti; e, alle volte, anche con le seggiole e coi sassi. Nella piazzetta sotto la strada provinciale c'erano sempre delle seggiole, e le due sorelle non esitavano a tirarle addosso ai foresti che arrivavano con le taniche e con le bottiglie; oppure si mettevano sulla provinciale e pigliavano a sassate chi si avvicinava alla cannella. Matte sì, e da legare, e me le ricordo già vecchie quand'ero bambino; ne è morta però una sola. L'altra è ancora viva e non più di quattro o cinque anni fa era ancora alla fontana a fare il diavolo a quattro.
Ché occorre immaginarsele bambine e ragazze, in quel paese tagliato fuori dal mondo ma davanti al mare senza fine. Una mulattiera, il somaro, i sacchi e le barche; e quell'unica acqua per bere e per lavarsi un po'. La mamma e la nonna che dicevano loro, se sorprendevano qualcuno alla fontana, di cacciarlo via. Era del paese, e nessuno doveva prenderla. Un bicchiere in meno di quell'acqua era un bicchiere in più di sete. Ci batte il sole. Ci batte il vento di ponente. Una ponentata a Chiessi non è affar di poco, può essere la morte a portata di mano.
Ci si buttano in mare, a volte, gli stranieri. Mi toccò, da ragazzo, fare un viaggio intero, di notte, da Chiessi fino al vecchio cimitero di San Mamiliano, a Campo, accanto a un morto. Un francese che s'era fissato di nuotare col ponente; a buio il mare lo risputò sulla spiaggia, gonfio, la sua barba d'uomo maturo ma con poca dimestichezza del mare calmo, e con nessuna del mare scatenato. Si partì con una vecchia Fiat 131 familiare guidata da un prete spretato che aveva fatto quattro o cinque figli, e teneva una locanda; e siccome la barella non aveva le cinghie per legarlo e tenerlo fermo, ché i morti si muovono sempre come vogliono loro e in ispecial modo su una strada dove il rettilineo più lungo misura due metri, mi toccò andar dietro a reggerlo. Mentre s'arrivava a Campo, quasi mi ci ero messo a conversare; a certe curve secche mi si rovesciava addosso, ché l'autista andava forte. Non fa piacere a nessuno viaggiare con un cadavere a bordo, e si tende a sbrigarsela rapidamente. Avevo, in quel 1981, diciott'anni; e non so quanti diciottenni si sian fatti un viaggetto con un francese morto, e nudo, accanto. Al cimitero c'era già la Mezzasoma a trattarlo; non mi ricordo come si chiamava, era la Mezzasoma e basta.
A Chiessi, a prender l'acqua dalla fontana a nostro rischio e pericolo, ci andavo sempre con zio Ulisse, e da filelleno ancor prima che sapessi che esisteva la Grecia considero un onore avere uno zio che si chiama Ulisse. Ora ha novant'anni sonati, sta a Piombino vicino a una figlia, ma ha già detto che d'estate se ne torna all'Elba. Le isole, come sanno tutti, non esistono; però zio Ulisse non si pone tale squisito problema filosofico e a maggio o giugno chiapperà il traghetto, la Marmorica o l'Oglasa, per ritornare alla sua casa e al suo orto. Nel magazzino, fermo, credo che abbia sempre il vecchio Ape Car, col cassonetto aperto, di colore ocra. Era quello con cui s'andava a Chiessi alla fontana.
Mi piaceva andare con mio padre, su al Perone con la 850, a prendere l'acqua al Castagnone; ma con lo zio Ulisse era un'altra cosa. A quattordici o quindici anni ero già talmente alto e grosso che non ci stavo, accanto a lui, nell'abitacolo dell'Ape; e allora mi mettevo nel cassonetto, a pigliarmi addosso le sei di mattina d'estate. S'andava a quell'ora perché,alle otto e mezzo o alle nove ci sarebbe stata già la fila; e, poi, magari, le due vecchie matte erano ancora a dormire. Macché. Quelle lì, forse, non dormivano nemmeno; oppure si stendevano accanto alla fontana. Erano sempre lì. Gridavano maledizioni di tremila anni fa in un linguaggio che, mi disse uno, non veniva capito più nemmeno dai cinquanta o sessantenni del paese; ma sono certo che con Omero si sarebbero capite alla perfezione.
Quei dodici chilometri da solo, sul cassonetto, erano come la mia gloria. Con le gambe incrociate, quella specie di ossute zampacce di ragno degli adolescenti, rivolto verso il mare. A un certo punto, con la testa, abbracciavo la Pianosa, che allora era ancora una galera; ma non facevo gesti. Non era teatro, era il vento in faccia. Con lo scirocco si sudava quanto più se ne pigliava addosso, e non si vedeva nulla per la foschia; ma non importava. Lì da solo, senza chiedermi nulla, davanti al mare che disegnava le sue correnti; e cercavo di seguirle finché non si perdevano lontane, e intanto mi perdevo anch'io senza rendermene conto.
Nel cassone dell'Ape, se ce n'entravano di taniche; anzi, di canistri, come si dice all'Elba. È una di quelle parole che, a volte, mi sale dall'infanzia e mi viene da dire; come m'è successo da un benzinaio, una volta. Ero rimasto senza benzina e mi scusavo chiedendogli di prestarmi un canistro; questo continuava a guardarmi in modo interrogativo, finché non mi venne di dirgli "una tanica". I canistroni da venti o cinquanta litri, che per riempirne uno ci voleva mezz'ora sempre che non s'arrovesciasse per il peso dell'acqua, in bilico su una pietra sotto il rocchio della fontana. Bisognava arreggerlo, e intanto lo zio Ulisse mi raccontava le sue storie di galera. Gli ergastolani; a Portolongone aveva conosciuto anche Graziano Mesina, e per i sardi aveva una predilezione. Aveva imparato, e piuttosto bene, il sardo; o un miscuglio delle varie parlate sarde. Ogni tanto se ne veniva fuori con parole incomprensibili, ridendo, e raccontando.
Di quello lì, un Atzori, o Atzeni, o qualcosa con una "tz" nel mezzo, che s'era beccato trent'anni per avere ammazzato la moglie. L'aveva sorpresa con l'amante, e l'aveva massacrata a bottigliate in testa. O di quell'altro che aveva sterminato una carrettata intera d'una famiglia con cui c'erano state delle discussioni di proprietà agricola. E così via. Quel che avevano fatto, avevano fatto. Succede, poi, che a volte, e convinto, canto di respirare la stessa aria di un secondino non mi va; eppure l'ho respirata, e ne ho respirato le storie.
Intanto la fontana buttava. D'estate, il getto non era mai regolare. Un momento sembrava un idrante schiavardato, e il momento dopo usciva un pisciolino da far ridere. Occorreva portare pazienza, e ascoltare; io, di storie, non ne avevo. O, se ce le avevo, ero troppo giovane perché le sapessi dire, e perché si lasciassero ascoltare. E buttava, buttava, acqua salmastra, polverosa, calda; e non era raro che si stesse zitti, ad ascoltarla. Dai monti, a una cert'ora, spuntava un sole incarognito, e compariva qualcun altro con i suoi canistri e le sue bottiglie.
Tanto, oramai, s'era riempito tutto. Si doveva andare via perché nella piazzetta non c'era nemmeno un albero smunto, e si rischiava l'insolazione. Al ritorno avrei voluto riabbracciare la Pianosa, e la Corsica e Montecristo quando si vedevano; ma, piuttosto, dovevo abbracciare i canistri per non farli viaggiare di qua e di là. L'acqua serviva, e ogni goccia era costata qualcosa. E aveva dato qualcosa. Mio zio guidava piano, e io tiravo fuori una sigaretta. Mi raccontavo, mentre la confusione mi saliva i suoi scalini addosso, di nuovo quelle storie; e tornavo a seguire le correnti facendo con due dita, vicino ad un occhio, il gesto di camminarci sopra.