pipe scalcinate, che non fumo quasi mai;
non è fatta per me, la pipa,
troppa cura, troppa lentezza, forse troppa
pacata meditazione che l'accompagna.
Ogni tanto, una sera qualsiasi
me ne accendo una,
e sono scene comiche
(che per fortuna nessuno vede):
come ogni
fumatore compulsivo, di sigarette,
di quintali di sigarette,
faccio quel che nessun fumatore di pipa fa:
traspiro.
Il fumo caldissimo e aromatico mi piomba dritto nei polmoni
e tossisco come una specie di maiale;
nel frattempo la pipa si spegne,
non ho gli attrezzi, e finisce là.
Finita là come la vita
di un'ombra che camminava
per la città lontana
e assediata.
Ci sono consegnate da mille e mille
ignoti punti
fotografie che lo hanno colto con
la sua pipa in bocca;
le pipe hanno forme spesso d'arte
che contrastano in modo vitale
con lo squallore, con la morte,
con la sopraffazione senza fine.
Doveva essere
come una parte di lui,
e conoscendo alcuni fumatori di pipa
posso ben immaginarlo
senza troppo timore
d'essere smentito.
Smentito di che, poi;
in mezzo alle bombe a grappolo,
quelle che esplodono mischiando
le ossa dei bambini ai formicai,
i pancreas delle madri alle bancarelle
di frutta secca carbonizzate,
le linfe dei prigionieri alle vecchie Mercedes
ridotte in lamiere contorte.
Ci si muoveva,
e quel muoversi non ha più bisogno né di cronache,
né di retoriche;
ora che l'immagine di lui canonica,
quella che sta nei blog
(e, probabilmente, anche nelle pagine Facebook
e nei diari di qualche sedicenne)
è una pipa in bocca a un giovane
che si volta e saluta in una vignetta
tenendo un bambino per la mano.
Un fumatore compulsivo
come me,
(e anche mentre sto scrivendo questa cosa
le sigarette vanno in cenere una dietro all'altra)
non sa, naturalmente, niente.
Sente quel nome e gli viene a mente
di continuo, come un mantra,
il titolo di un libro che
peraltro
non ha mai letto:
Eyeless in Gaza...Eyeless in Gaza...
Ma senz'occhi dovevano essere
molti seppelliti
tra le macerie,
e il traffico infernale, i clacson, i mercati, le fughe
i rifugi
la privazione persino dell'aria
e il mare forse avvelenato
dove pure i pescatori gettano le reti
e nel gettarle hanno probabilmente
paure che nessuno di noi
può immaginare.
Una salamoia putrefatta di carcerazione a cielo aperto.
Una prospettiva che non oltrepassa un incrocio di strade
senza più targhe che ne indichino il nome.
Una serie di dèi che rinuncerebbero alla loro
presupposta onnipotenza
per un paio di taniche di benzina o di gasolio.
Una serie di odori violenti
che dicono:
è finita.
Finita là come la vita
di un'ombra che camminava
per la città lontana
e assediata.
Nessun simbolo, perché i simboli sposano l'odio.
E il ricordo è come una vecchia melanzana
lasciata marcire piano piano nel frigorifero;
e il ricordo
è come un bene di consumo effimero,
somiglia al pulcino elettronico giapponese
che ebbe due mesi di moda
tanti anni fa
(si chiamava, se non mi sbaglio, Tamagochi).
Il ricordo
dicono falsamente che vada coltivato,
ma solo amori saldi e calmi possono farlo;
per il resto, in realtà,
tutti noi coltiviamo l'oblìo.
Un evento, come il Tamagochi, caccia l'altro ogni giorno:
sposi, papi, nemici
ed anche, e sicuramente con più forza,
bollette da pagare
schiavitù quotidiane
irrisolti pensieri che seminano rancori
solitudini arroventate dal loro riprodursi malato.
E non c'è posto
per ricordi di chi non si è conosciuto,
per i suoi movimenti, per i suoi atti,
per i suoi scopi d'ogni giorno
che, più aumentano l'ammirazione per ciò che faceva
e la rabbia per la sua morte,
più ci restano, fondamentalmente,
ignoti,
estranei,
o caricati in un fardello che,
a intervalli quasi regolari,
mettiamo addosso a figure al tempo stesso
semplicissime
e irraggiungibili.
Eppure, in qualche modo, sono parti di noi.
Eppure anche noi fumatori compulsivi
vorremmo saper fumare quella pipa
come si deve,
davanti alle rovine di un tramonto,
una bisaccia e un canto
e un bambino tenuto per mano
senza alcuna illusione
e senza alcuna speranza
(e la speranza, poi, diciamolo francamente
è un'invenzione clericofascista).
Studiare le mosse,
andare e escogitare
un fanalino barcollante di sopravvivenza.
Il fumatore compulsivo, a un certo punto,
è giocoforza che finisca le sigarette;
e senza sigarette termina ogni cosa,
termina soprattutto la voglia di scrivere.
Eppure
aveva inteso fare qualcosa che non fosse vana,
o perlomeno che non lo fosse del tutto:
oramai lontano giorni-luce dal fuoco dell'immediatezza
pagare qualcosa
ad uno sconosciuto fumatore di pipa
tatuato, sudato e lucido.
Pagargliela in fumo
che non era senz'altro il suo,
e pagargliela in parole
che non lo rendessero
un fantoccio di applausi e di pixel scomposti.
Non so se.
E non lo potrò sapere;
un'ultima sigaretta mi è però rimasta
e me la fumerò in silenzio tra poche righe.
Sarà dedicata ad un giovane essere umano
che agì per il bene senza rinunciare a un pugno chiuso
e alla sua ordinaria vocazione alla scomodità;
sarà dedicata alla sua pipa
dove brucia e si dissolve in fumo
tabacco che somiglia un po' all'amore.
A Vittorio Arrigoni.