martedì 17 maggio 2011

On figòn bel grand


A me, Milano non è mai piaciuta. La conosco poco, anche se -come quasi tutti- ci sono stato alcune volte; la prima avevo diciott'anni, e ci andai assieme alla fidanzatina per una specie di mostra di pittura tenuta da un suo amico pugliese. In realtà ci voleva andare soprattutto perché con un amico di questo amico, l'estate prima, c'era stata diverse volte a letto insieme; presumendo che ci fosse anche lui, insomma. E io sapevo tutto, perché me lo diceva tranquillamente; di questo qui, che era più grande di me, sapevo persino nome e cognome. Allora funzionava così, e in un certo senso è stata una bella scuola; leggendo che gli adolescenti di oggi scannano le ragazzine perché li lasciano o li "tradiscono", mi ritengo fortunato. Lo avrei anche conosciuto, quel tizio; poi, però, alla famosa mostra non era venuto. Mi ricordo il viaggio di andata, le prime immagini della stazione centrale, il tempo regolarmente grigio. E il viaggio di ritorno, e tutte queste cose che, mi dicevo, avrei scordato; invece no. Non le ho scordate affatto.

Non mi è mai piaciuta e la conosco poco. Però, i milanesi di vecchio stampo sí, mi piacevano; almeno quelli che ho conosciuti più o meno bene. Mi piaceva quel loro humour particolare, rarefatto, e anche l'accento con cui lo esprimevano. Mi piaceva Gianni Magni. Mi piacevano anche Cochi e Renato. E Ivan Della Mea, che pure era toscano di Lucca, e il suo amico Claudio Cormio; il primo è morto due anni fa, un maledetto quattordici di giugno. Il secondo è fortunatamente vivo e vegeto, ogni tanto lo rivedo a Fosdinovo sulle Alpi Apuane, e una volta l'ho fatto dormire in una parrocchia del Chianti. Insieme scrissero, nel 1997, una canzone in dialetto milanese; si chiama Sciambola e parla, appunto, di Milano. Ce ne sono non so quante, di canzoni che parlano di Milano, in tutti i modi; da O mia bela Madonina a Io vi parlo di Milano di Diego de Palma. Da Luci a San Siro a quella di Lucio Dalla. Milano non mi è mai piaciuta, e non la conosco; ma è una città che ha tante canzoni. Qualcosa, forse, vorrà pur dire.

Se ogni tanto ci rivado, mi ci sento non so come. Milano è quel posto dove si va a lavorare, e io a lavorare non ci sono stato mai, nemmeno una volta. Milano è la vecchia e incasinatissima casa di Alessio Lega. Milano è la sorpresa di una manifestazione tenuta in un giorno di febbraio con una luce accecante. Milano non mi è mai piaciuta, e non mi piacerà mai. Sento più vicine a me città dove non ho mai messo piede, tipo Palermo o Siviglia. A volte chiamo Milano, spregiativamente, Lavoròpoli o Arbeitstadt. Talvolta mi figuro se qualche accidente della vita mi ci avesse fatto trasferire; sarebbe stata una tragedia. Poi, probabilmente, avrei fatto come faccio sempre. La avrei cominciata a girare, da solo, e magari a ore strane. Prima o poi, magari, me ne sarei anche innamorato; come tutti quei grandi amori che cominciano in guisa d'odio. Ma così non è stato; Milano e Giuseppe Pinelli, Milano e Fausto, Milano e Iaio. Milano il 17 aprile 1975; c'è un manifesto, la cui immagine si vede nella foto sotto il titolo, che recita Vivere a Milano, via Mancini, 17 aprile 1975. Claudio Varalli e Giannino Zibecchi. Milano e un diciannove di gennaio di qualche anno fa, in una trattoria che ora sta per chiudere o è già chiusa; un giorno che è stato un bivio nella mia vita. Era in una direzione, e è andata in un'altra; è successo a Milano. L'ultima volta ci sono stato pochi mesi fa, e in un posto in cui mai mi sarei immaginato di mettere piede: l'ippodromo di San Siro. Io che avevo sempre disdegnato l'ippica, mi son ritrovato incollato a veder correre i cavalli, e ho fatto persino una modesta scommessa. Non mi è mai piaciuta Milano, mi ci son ritrovato la prima volta a fare i conti con la sessualità libera di una ragazzina e l'ultima a farli con dei cavalli su una pista in un crepuscolo invernale.

Nella canzone di cui parlavo prima, Sciambola, Ivan della Mea e Claudio Cormio parlano di come si sarebbe ridotta, Milano, in questi vent'anni. La Milano da bere, o del Berlusca. La Milano dei comitati d'affari, dei nani e delle ballerine, della Lega sempredura. Il protagonista della canzone è un milanese che la gira senza sosta, che la guarda e che non la riconosce più; ed è una canzone, francamente, bellissima. Me la cantavo leggendo il libro per cui Manolo Morlacchi è finito in galera, parlando della storia della sua famiglia. Forse devo essermela cantata anche quando leggevo un altro libro, quello di Marco Philopat sulla Banda Bellini. O forse non mi sono cantato nulla, perché si fa presto a scrivere cose sotto una suggestione. Frammenti. Non mi è mai piaciuto quasi nulla di Milano, tranne Milano. Tranne quella Milano che, credo, si dev'essere nascosta da qualche parte assieme ai suoi sciambola.

Dicono che accogliesse tutti, basta che volessero laurà. A me laurà non piace manco un po'. Nella canzone, Claudio Cormio dice che era on figòn bel grand, e non c'è bisogno di tradurre. Forse ho conosciuto Milano nei modi sbagliati, anche se la prima volta che ci sono stato, proprio quella della mostra di pittura, comunque volli andare a vedere Piazza Fontana. La mostra di pittura si teneva, fra l'altro, a due passi dal carcere di San Vittore. Proprio in via San Vittore, anzi; e un'altra canzone. Ma mì, ma mì, ma mì, quaranta dì, quaranta nocc' a San Vittur a ciapaa i bott, mi sun de quej che parlen no. Non mi ricordo dove ho letto che una città la si sente propria solo quando hai vissuto una rivolta che vi è avvenuta; ho cercato di immaginarlo. La città dei partigiani di Piazzale Loreto e del 25 aprile. La città di Giovanni Ardizzone. La città dell'aprile del '75 che si prese anche Firenze e la vita di un altro ragazzo. La città di Luciano Bianciardi, grossetano, e della sua filologica intenzione di far saltare la sede del Corriere della Sera parlando della vita di un traduttore forzato. Non so, poi, cosa è avvenuto; ne sento parlare da quei pochi milanesi che ho conosciuto, e a volte me ne hanno parlato per canzoni. Quei milanesi hanno un sorriso particolare, e quasi sempre un vocione che acuisce le vocali aperte. E degli sguardi che forano la nebbia. Chissà dove se ne sono andati, quando il figon bel grand che accoglieva tutti s'è trasformato in un una passerina striminzita che respinge e che produce i Magdi Allam.

In questi giorni leggo proclami trionfalistici. Sembra che un candidato alle elezioni comunali abbia vinto il primo turno, inaspettatamente, e che abbia qualche probabilità di diventare sindaco. Qualcuno pensa che Milano, e assieme a lei l'Italia intera, possa cambiare per questo; ma, per cambiare davvero, dovrebbe verificarsi l'azzeramento totale di un periodo. Si dovrebbe, ad esempio e per prima cosa, eliminare la sicurezza. Passare dall'immondezzaio securitario e dal paurificio ad una città che tornasse ad essere sanamente insicura, rischiosa, libera; e questo non vale, ovviamente, soltanto per Milano. Si dovrebbe dar luogo tranquillamente alla seminale intenzione di Bianciardi. Ho sentito dire che Milano è stata così, e magari inconsciamente l'ho pure cercata quelle volte che ci sono stato, impegnato a dirne peste e corna e a maledire il freddo e i suoi viali tutti uguali. Forse cercavo la ringhera, chissà; e il destino mi ha fatto conoscere due persone che stavano in via Savona, la strada del me' gatt e della vecchiaccia con el nas svizzer e gross. Non basterà un sindaco, sempre che ci sia, a cambiarla; dovrebbe cambiare ben altro. Dovrebbe tornare il Novecento. Ma forse, chissà, si è semplicemente nascosto anche lui, in mezzo al suo figon bel grand. Non sottovaluto. Vorrei anch'io che perlomeno gli autori materiali di questi vent'anni si levassero dai coglioni, e possibilmente anche in un modo ben più drastico di un' "elezione"; ma c'è bisogno del vento. Non mi è mai piaciuta, Milano, e il vento non ce l'ho mai sentito.

Ma ci dev'essere. Un poeta milanese, Vittorio Sereni, interista sfegatato, una volta immaginò la sua morte; o meglio, immaginò di vedersi morto, alle sei del mattino, in una Milano spettrale e ventosa:

Tutto, si sa, la morte dissigilla.
E infatti, tornavo,
malchiusa era la porta
appena accostato il battente.
E spento infatti ero da poco,
disfatto in poche ore.
Ma quello vidi che certo
non vedono i defunti:
la casa visitata dalla mia fresca morte,
solo un poco smarrita
calda ancora di me che più non ero,
spezzata la sbarra
inane il chiavistello
e grande un'aria e popolosa attorno
a me piccino nella morte,
i corsi l'uno dopo l'altro desti
di Milano dentro tutto quel vento.

È una delle poesie che più amo al mondo, e si svolge a Milano. Non mi è mai piaciuta, Milano, e non potrò mai amarla; ma se da Milano s'innalza il vento, s'addensa la tempesta. Di tempeste c'è bisogno, non di sindaci.