- Forse questa cosa sarebbe dovuta chiamarsi Degli Incompiuti, più che Dell'Incompiutezza. Riportare tutto alle persone, a chi dice di avere lottato e creduto, a chi ancora non ha cessato e continua a pagarlo; oppure a coloro che, invece, hanno cessato da tempo e si trascinano in rabbie, in disillusioni, in disimpegni più o meno ostentati e accompagnati quasi invariabilmente dalla presunzione di essere gli unici ad avere “capito qualcosa”. Ma preferisco l'astratto, perché un'astrazione lessicale è maggiormente capace di comprendere tutto l'insieme e, al contempo, stabilisce una precisa relazione con la Storia. Dalla Storia tutto proviene; inutile, totalmente inutile, ozioso, autoreferenziale continuare a raccontare a sviscerare storie, storielle, accaduti e episodi se non si è capaci (inconsapevolmente, il che segna un limite disperante; o consapevolmente, il che segna una colpevolezza e una intrinseca contiguità col nemico nonostante una gran massa parole roboanti quanto vuote) di farci davvero i conti, con la Storia. Se c'è una cosa che si sente più che spesso dagli Incompiuti, è la tiritera sulle “risposte” e sulla “responsabilità”; frasette o massime, tipo quella famosa di Erri de Luca, che da un po' di tempo assolvono al fondamentale compito di fornire il bell'exergo al blog “smilitante” o alla paginetta Facebook dello smobilitato che, però, non rinuncia a fingere di “combattere” perché così impone l'amato personaggio che si è creato, magari con un codazzo più o meno consistente di adoratori e adoratrici (che, peraltro, non sanno sovente di essere la sua periodica carne da macello).
- Prima di decidere, almeno in Rete, di non aver più nulla a che fare con questi “Incompiuti” nel migliore dei casi, e con degli autentici psicopatici attorno ai sessant'anni nei peggiori (impedendo loro di venire a “contatto virtuale” con il sottoscritto, perché la Rete ha fornito un cibo perfetto a parecchi di questi mentecatti), per anni e anni mi ci sono autenticamente, e colpevolmente, perso. Uscendone naturalmente con le ossa rotte,e riportandone danni passibili di minarmi la psiche. Per recuperare non soltanto un equilibrio personale, ma una capacità di osservazione, di giudizio e di elaborazione non mediata da niente e da nessuno, mi è occorso del tempo. Non ritengo ovviamente di avere nessuna “missione” da compiere, né in Rete e né in questo mondo in generale; però una cosa intendo sempre farla presente, a tutti e a tutte. Non esistono “maestri”. Non esistono ori colati. Non esistono fascini e fascinazioni. Non esistono miti e mitologie. Non esistono follie produttive e positive, perché la follia genera soltanto follia anche se appare tanto “poetica” o “creativa” (una delle mistificazioni più stupide e assassine che esistano). Esistono soltanto i Fatti, esiste soltanto la Storia; e tutti, di qualsiasi età, siamo chiamati ad esercitarne esclusivamente l'osservazione e l'analisi personale, non filtrata.
- Servendosi, chiaramente, di tutti gli strumenti a disposizione; ma non lasciandosi mai abbagliare neppure dal pensiero, dalla costruzione, dalla caratterialità e dall'idea più abbacinante o più corrispondente ai propri sogni. Stabilendovi un confronto critico continuo e necessario, ma esclusivamente ai fini della propria coscienza personale e collettiva. Quel che sto descrivendo, sia pure per sommi capi, non è “individualismo”; è, al contrario, viaggiare finalmente verso una vera coscienza di se stessi come persone che soltanto dalla propria vita e dalle proprie capacità, innate e sviluppate, di procedere ad una visione sempre più ampia dei fatti e dei meccanismi del presente, traggono una Compiutezza a tutto tondo. Da questo dovrebbe nascere il confronto definitivo, e non più rimandabile, con la Storia; preferiamo, invece, perderci in una miriade di piccole “storie” che continuano a generare divisioni, equivoci, incomprensioni, odi più o meno profondi, “dissociazioni”, veleni. Diciamo di voler “abbattere l'esistente”, ma il desiderio (tutto fuorché nascosto) di molti è soltanto abbattere, come birilli, chi dovrebbe essere più vicino a te. Diciamo di “individuare il nemico di classe” quando il nemico che più ci piace individuare, e possibilmente distruggere, fa parte proprio della tua classe; e lo individuiamo sull'invariabile base di “purezze”, di “codici”, di “coerenze” che creano, da un lato, conflitti interni insanabili e mortiferi e, dall'altro, un'immensa gratificazione personale. Ho avuto a che fare con dei narcisismi in confronto ai quali impallidirebbe Narciso stesso; ed anche con dei presupposti “antiautoritari” il cui autoritarismo immenso traspare in ogni momento nel modo in cui si relazionano agli altri; e chissà che in tutta la passione che molti di costoro mostrano per i polizieschi e i “noir” non risieda un'ambiguità di fondo, del tutto irrisolta. Non si spiegherebbero altrimenti le frotte di ex “rivoluzionari” che fanno i commissari nei romanzi, con tutte le “parti della barricata” del caso più o meno poetizzate, ma che mostrano sovente che tra anarchia e polizia esiste non di rado ben di più che una rima. Del resto, ultimamente, di anarco-poliziotti pronti a lanciare anatemi “ideali” e “metodologici” se ne son visti parecchi, e continuano a vedersene.
- Quel che è risultato da questa Incompiutezza, è la cultura generalizzata del Rifiuto. Il grande No. Tutto è passibile di essere rifiutato aprioristicamente e vicendevolmente. Mentre il capitale ci schiaccia e ci ammazza quotidianamente e indistintamente, prendiamo per il culo la Storia. La prendiamo per il culo continuando a piegarla non tanto alle nostre identità collettive, che sconciamo del resto ogni giorno preoccupandoci più di individuare attorno a noi “coerenze” che poi faremo di tutto per sbeffeggiare e sbugiardare, e magari anche per delazionare e consegnare, ma alle nostre identità personali, al proprio “io” che coltiviamo meglio di un giardino botanico. L'Incompiuto è, per natura, anche il Depositario. Disgraziatamente, ci ha sì una Storia, ma è sempre e soltanto la sua. Ci ha i suoi morti personali, e non importa mica che siano magari persone, “compagni” con cui ha avuto più o meno a che fare e che quarant'anni dopo gli servono per farci il libriccino (suo o di altri); sono suoi, e suoi e basta, anche quelli di guerre intere. Ci ha tutto quanto, ma questo tutto è esclusivamente al servizio del Rifiuto. Senza mai una minima autocritica. Senza mai riconoscere un errore. Ne consegue che l'Incompiutezza, e l'incapacità totale di analizzare la Storia e di trarne realmente azione per il presente (nonostante fra poco sappiamo anche il colore delle mutande che portava il rivoluzionario Pedro Doscojones sul fronte dell'Ebro, con tanto di fotina recuperata da una cassetta in un bordello messicano nel '58), è una forma di puerilità che è giunto il momento di mettere a nudo. In tutte le nostre fasi ci siamo affidati a dei bambini che non sono cresciuti; non è bastato il carcere, non è bastata la repressione, non è bastata la lotta armata, non è bastata neanche la morte a farli crescere. Stanno ancora a frignare sul giochino rotto nel '900, e la reazione tipica del bambino cui è stato rotto il giocattolo (o che se l'è rotto da solo) è quella di voler distruggere i giocattoli degli altri bambini. E possibilmente anche gli altri bambini stessi.
- Così facendo, nel nostro presente ci ritroviamo slegati. Slegati da noi stessi e slegati anche da un passato che, in realtà, non genera niente. Avulsi. Tranne, naturalmente, servircene, del passato o dei passati, per esercitare il Rifiuto Categorico. Ognuno rifiuta l'altro. L'anarchico “classico”, quello per cui nutre nostalgia persino il capo della polizia, stigmatizza e condanna senza appello l' Informale e l'Insurrezionalista; mentre arriva a ipotizzare che quest'ultimo sia addirittura un questurino travestito (cosa che ho sentito spesso in questi ultimi tempi), si comporta da perfetto questurino interno (esemplari, da questo punto di vista, certi articoli comparsi su “A-Rivista Anarchica”). A sua volta, l'Informale e l'Insurrezionalista si pongono totalmente al di fuori di una dialettica e, oggettivamente, si fanno portatori di una forma di “avanguardia” del tutto priva di senso, nonostante debba loro essere riconosciuto il merito di avere, finalmente, smosso delle acque ferme e mefitiche. Nel frattempo, la repressione colpisce indiscriminatamente; nel frattempo, nonostante la Valsusa, ci rinchiudiamo sempre di più in ghetti privi di solidarietà reciproca nonostante di questa parola si usi e si abusi. In realtà, e lo si è visto bene ultimamente, la solidarietà non esiste. Se ne ciancia e riciancia, si fanno i “comunicati” e si riempiono paginate di quella inutile e criminale merdata di Facebook, ma quando i fatti si presentano in tutta la loro spietata semplicità, l'unica cosa che sappiamo esercitare è la criminalizzazione reciproca, la delegittimazione, il mostrare i nostri asfittici muscoletti scordandoci che siamo due gatti in costante pericolo di essere sbattuti al gabbio; e per esservi sbattuti non importa certo andare a sparare nelle gambe al pezzo di merda di turno. Anche perché, di fronte a un fatto del genere, non si discute mai del significato politico. Può avercelo o non avercelo, e se ne dovrebbe ragionare senza paura e seriamente; ma quel che si fa è invece opporre muri. Muri basati su una “Storia” che più la si nomina, e meno la si conosce. Sono muri che non sono stati edificati dal nulla; sono muri che sono stati cementati con l'Incompiutezza. Dovremmo finalmente imparare a smetterla con le geremiadi, con la Centrale Telefonica di Barcellona (ma i telefoni, mi sono sempre chiesto, avranno continuato o no a funzionare?), con la pregiudiziale dell'antiautoritarismo che sarebbe sacrosanta in sé, ma sulla quale poi cachiamo costantemente sopra comportandoci da autoritaristi nati e sputati, da lanciatori di anatemi, da fabbricatori di palizzate. Ci piacciono tanto le “barricate”, ma le uniche che sappiamo fare sono quelle tra di noi; e il nemico, quello vero, se la ride e se la gode. Anche perché, così facendo, da quei quattro gatti che siamo ci ritroveremo in due gatti. E poi un gatto solo. E poi zero gatti. Al prossimo corteino per Serantini ammazzato non ci sarà nemmeno Serantini, se ne andrà a Marina di Pisa a farsi un bagno.
- Per questo, ultimamente, mi era preso un autentico sconforto. Se ne saranno magari resi conto quelli che seguono 'sto blog del cazzo, vedendomi scrivere d'estate che arriva e di campionati europei di pallone; ho ricominciato a smuovere il culo. A andare a rendermi conto di persona che aria tira. Zaino in spalla, treno, posti a volte strani e in culo al mondo. In particolare, sabato scorso sono andato in un posto, su nel Nord, dove c'era un incontro con uno che non avevo mai visto, ma di cui mi son letto (e forse, addirittura, studiato) parecchi libri. Si chiama Alfredo Maria Bonanno. Proprio perché me lo sono sentito, leggendolo, particolarmente vicino, ho deciso di andarci standomene del tutto defilato. In un centro sociale di tendenza anarchica, a Saronno, il “Telos” (e vorrei fare, a tale proposito, soltanto un saluto a un ragazzo alto come me e riccioluto; e un abbraccio. Nomi non ne voglio fare). L'aria che tira è che il posto era stracolmo da fare a gomitate, e un posto stracolmo per Bonanno vuol dire sicuramente qualcosa. Vuol dire, ad esempio, che gli anarchici vanno a fare a gomitate per ascoltare un Compiuto. Così l'ho percepito al di là dei suoi libri; perché i suoi libri (alcuni dei quali, come “La gioia armata”, hanno contribuito ai non pochi anni che ha passato in galera) presentano un pericolo. Quello di creare il solito rapporto “maestro-allievo”; un rapporto che, peraltro, Bonanno non desidera minimamente. Proprio per questo, da parte mia, nessun intervento. Nessun contatto. Ascoltarlo direttamente mi ha sì spostato degli assi oppure chiarito dei pensieri che mi ero formato; ma non sono andato a ronzargli attorno. Volutamente, e non perché mi incuta soggezione. Ho anche notato in lui, e mi sono sentito del tutto libero di pensarlo al momento, così come mi sento libero di scriverlo ora, una cosa che mi ha dato fastidio, vale a dire la solita esagerata teatralità siciliana. La detesto, ma detestare un aspetto non mi fa perdere di vista tutto il resto. Quel che sto scrivendo qui è frutto anche di quell'incontro, ma un incontro che è senza mediazione alcuna; e la cosa che più mi ha fatto piacere, oltre ai chiarimenti e/o alle conferme (ed anche a qualche correzione, non lo nego), è stata ascoltare anche altre persone che, finalmente, ragionavano con la propria testa. Lontanissime dai “dibattiti” internettari. E, in gran parte, giovanissime. Mi son detto che quel che andavo pensando aveva dei riscontri nella realtà, e la cosa mi ha ridato forza. Sentir parlare proprio un Bonanno, uno dei pochi che i conti con la Storia sa farli autenticamente, dell'ammorbante cultura del Rifiuto; e sentirla condivisa e discussa con tensione e, soprattutto, con nessuna intenzione di porsi su un piedistallo e di stare a sprecare il proprio tempo in chiacchiere e storielline. Al tempo stesso, rendersi perfettamente conto del mutato rapporto con gli altri e con la realtà; e anche del mutato rapporto che gli altri e la realtà hanno con te. Interazione reale tra fatti e azione, ed accettazione di questa cosa che dovrebbe essere ineluttabile; la discussione può avvenire, e del tutto liberamente, sulle forme di azione al momento più opportune -non escludendone nessuna a priori-, ma è finito il tempo dei balocchi e delle canzoncine che parlano di Bresci e Ravachol mentre, col culo su un divano, si gode ciò che oramai non esito a chiamare una vera e propria borghesia anarchica. La quale non risparmia nessuno, nemmeno quello che a parole si mostra più solforoso. Ed autorizzo tutti a pensarlo anche del sottoscritto, perché non sta a voi, bensì a me dimostrare il contrario. Ed è un'esigenza, questa, che sta camminando a gran passi. Smettendola una buona volta di evocare “rivoluzioni” mentre si è non dico al pranzo di gala, ma comunque a consumare buoni pranzetti ancorché “vegan”. Senza più nessuna imposizione, perché mi sono accorto di una cosa che ho faticato parecchio sia a capire, sia a mandar giù. Gli appelli ai “fronti uniti” e agli “antagonismi generalizzati” sono aria fritta senza tenere conto delle differenze e cercando, anzi, di imporre sempre la propria visione, quale essa sia. Al contempo, sono altrettanta aria fritta i “grandi isolamenti”, le “individualità sdegnose”, le ricerche delle antipatie elette a pratica umana e politica, l'aggressività vuota condita con quel misto di superbia e finta “disperazione” che porta il suo titolare ad un'unica cosa, metterlo nel culo ai poveretti che gli vanno dietro. Specialità riconosciuta di certi cosiddetti “reduci”.
- Se volevo avere una riprova di tutto questo, e una riprova ben lontana dalle agonie internettare di merda, dalle rivistine più o meno patinate e da tutto il resto, l'ho avuta il giorno dopo. Dal centro sociale e da Bonanno mi sono spostato sul cocuzzolo della montagna, in un posto incredibile e davvero fuori dal mondo e dal tempo. Si chiama Peli di Coli. C'è una chiesetta ruvida, e bellissima; c'è un piccolo cimitero. E un monumento. Lo vedete nella foto; è il monumento a un anarchico insurrezionalista, nel senso che lui non è stato tanto a chiederlo e l'insurrezione la ha fatta sul serio. Si chiamava Emilio Canzi, piacentino, anarchico, comandante partigiano. Non so perché proprio il ventiquattro di giugno qualcuno abbia deciso di andare a trovarlo con un paio di bandiere nere, una cucina economica, qualche tendaggio, due pentole di insalata di riso, un chitarrista e tre boccioni di vino; so solo che c'ero anche io. E non soltanto per andare a vedere un monumento e una tomba, perché Canzi, morto in uno strano incidente stradale poco dopo la “liberazione”, il 17 novembre 1945, investito da una camionetta inglese che gli amputò entrambe le gambe, è seppellito lassù con vista sull'Universo. Non la voglio fare tanto lunga, e men che mai agiografica; anche perché, davanti a Canzi, eravamo saliti lassù per parlare proprio di Incompiutezza. Parti des rouges, partis des gris, nos révolutions sont trahies; mi frullavano in testa questi versi da La vie s'écoule, la vie s'enfuit, però mi ci frullavano in una maniera un po' diversa dal solito. Partito dei rossi, partito dei grigi, ma anche e soprattutto partito di noi stessi. Noialtri che le rivoluzioni, anche quelle dei fazzoletti di terra e in noi stessi, ce le siamo tradite in gran parte da soli, coi nostri sbagli che non abbiamo mai saputo né voluto inchiodare al muro. Ci hanno fatto quasi comodo, le polizie e le repressioni dello Stato; salvo, poi, trasformare l' “anarchia” in un blob informe, incapace sia di rapportarsi al suo interno che al suo esterno. Ma quale “Spagna”, nemmeno Ivana! Di tutto questo gran mito storico, l'unica cosa che sappiamo fare è raccontarci storielline più o meno simboliche e edificanti, senza mai chiederci la cosa fondamentale: che cos'è che, in un dato momento storico, ha aggregato così tante persone attorno alla pratica rivoluzionaria anarchica? Che cos'è, e perché? Che cosa significa agire autenticamente, sia nella teoria che nella pratica? Come bisogna muoversi all'interno della classe cui si dice di appartenere o, comunque, di riconoscervisi? Che cos'è davvero una “liberazione”? Come interrogare la Storia, e come saperne cogliere le risposte perché di risposte ne darebbe eccome, e parecchie, e precise? Al tempo stesso, come farla finita una buona volta con i rifiuti e con le chiusure perché il tempo ha marciato e il nostro presente pone situazioni differenti e in continua evoluzione? Ci fa schifo il presente, certo; ma il problema è che, in gran parte, continuiamo come dei cretini a vivere nel passato. A immaginarcelo, a crederlo “l'unica epoca in cui è stato degno vivere”, che sia il '36 a Barcellona e dintorni o il '77 a Bologna. Ecco, lassù a Peli di Coli c'erano una trentacinquina di persone sull'aia della chiesa, concessa peraltro gentilmente dal priore e peccato che se n'era andato chissà dove e non c'era anche lui. Con le bandiere nere attaccate ai sacri muri, e i senzadio che andavano a pisciare in un piccolo cesso consacrato, mostrando peraltro parecchio rispetto. Messi in cerchio a parlare di queste cose, che sono le stesse di cui sto scrivendo, e che sono, in gran parte, le stesse dette dal famoso Bonanno. Il quale Bonanno, molti là non sapevano nemmeno chi fosse. Qualcuno, se per questo, nemmeno chi fosse Emilio Canzi. E uno persino, un ragazzo anarchico di Cremona, che non sapeva chi fosse Pietro Gori. E ne sono quasi stato contento, mentre glielo raccontavo un po' col mio accento parecchio forestiero per quei luoghi. Senza conoscere il “glorioso passato”, quei ragazzi che parlavano dell'adesso mostravano al contempo di aver capito la Storia ben più di coloro che ne ragionano oziosamente ogni dì che sorge il sole. Mostrano quali sono le esigenze del presente. Non hanno la cultura del Rifiuto o della “Verità”, perché, contrariamente a quanto si crede e si ciancia, la “Verità” non è affatto rivoluzionaria perché ha il tremendo vizio di essere declinata soltanto da chi se l'è fabbricata a proprio uso e consumo, facendone a gara. La corsa delle Verità. Il campionato delle Verità, e vince sempre e solo la propria -corrispondente ovviamente al proprio “ego” ipertrofico e applaudita da ristrette claques. E qui termino questa lunga cosa, forse caotica, perché caotico è il momento. Ma è nel caos del presente che si può e si deve avere la capacità di agire e di incidere; è solo il presente in cui viviamo che ci deve spingere senza timori e senza muri, di gomma o di altro materiale. E' solo il presente che ci fa comprendere la Storia senza nessuna fregola di trasferirsi né nel passato, né nel futuro; e solo il presente che può formare l'azione più adeguata, e nessuna azione deve essere rifiutata da nessuno. E' solo la rete, l'intreccio dei presenti, che ci farà superare la palude in cui ci siamo impantanati, le sabbie mobili in cui siamo affogati lanciandoci scomuniche reciproche fino all'ultimo rantolo. Questo davanti a Emilio Canzi, che nell'insurrezione poi tradita e compressa (la quale è alla base del nostro presente di merda), guadagnava il rispetto e la stima di tutti, e che veniva eliminato proprio per questo. Gli ho messo in mano un libriccino proprio per questo motivo, e spero che se lo leggerà. Di tempo ne ha, lassù, con una bella pianta velenosissima, un aconitus napellus, che gli è spuntata proprio davanti alla tomba. E l'Incompiutezza scomparirà, e con essa gli Incompiuti; tra i quali noialtri. Ce la faremo a scomparire, e a tornare nuovi e, soprattutto, tanti. Quando non si sa, ma in un altro presente; perché questo, e soltanto questo, è il futuro.