giovedì 7 marzo 2013

Il gioielliere, il coltello e la danza


Si comincia col cognome, si nasce con un cognome che manco si sa bene come si scrive. Κοεμτζής (Koemtzìs) nella forma più generalmente nota; ma all'anagrafe di Eginio di Pieria, nel 1938, è scritto Κουγιουμτζής (Kuyumtzìs). E sarebbe questa, probabilmente, la forma più autentica e corretta: un cognome di origine turca, derivato da kuyumcu, che significa “gioielliere”.

È la sera del 24 febbraio 1973 quando due fratelli entrano in un locale notturno ateniese, il Neraïda tis Athinas (“Fata di Atene”), dove due altri fratelli, i Romios, suonano il bouzouki accompagnati da un'orchestra. Il locale, tenuto da tali Karousakis e Athanasiadis, è uno di quelli che, a Atene, vengono detti skyladika: dei “posti da cani”. Locali notturni di infimo ordine dove si suona e si balla esclusivamente musica popolare greca, frequentati da un sottobosco di piccoli criminali, alcolisti, prostitute e tipacci a vario titolo; ma dove anche, si dice, è possibile cogliere la “vera anima greca”. Possibile; però, a chi li frequenta, della vera anima greca non deve importare assolutamente una minchia. Stanno lì per ballare, per affogare, per dimenticare, per scoparsene una disponibile, per bere in mezzo all'aria irrespirabile dal fumo. Trovare dei motivi validi per tutto questo, è probabile che non sia punto difficile nell'Atene e nella Grecia del '73, così come -per motivi al tempo stesso diversi e molto simili- non sarebbe difficile trovarne ora, nella Grecia d'oggi.

Nikos Koemtzìs.

I due fratelli che entrano dentro quel locale di merda si chiamano Nikos e Dimosthènis Koemtzìs; Nikos, il maggiore, ha trentacinque anni; il fratello minore, cui vuole un bene dell'anima, ne ha qualcuno in meno e sa ballare bene. Nonostante il loro cognome, la cui origine etimologica probabilmente non conoscono affatto, sono tutt'altro che “gioiellieri”; di gioielli non ne hanno visto nemmeno uno nella loro vita grama e dura di proletari, o sottoproletari. Sono nati in un posto in culo al diavolo; Eginio di Pieria, nella Macedonia centrale, nord egeo della Grecia abitato ancora in massa, all'epoca, da slavi (il paese, fino al 1926, aveva il nome slavo di “Libanovo”). Un posticino simpatico dove, appena finita la guerra mondiale, inizia subito la guerra civile. Nel 1945 il padre dei due ragazzi, comunista, scappa in montagna e si dà alla macchia; per paura di rappresaglie da parte delle autorità, i paesani si tengono alla larga da Nikos, che è solo un ragazzino. Solo come un cane, e che deve occuparsi del fratellino; già da allora capisce bene che cosa significhi essere, al tempo stesso, tenuto d'occhio dalla Polizia (che, probabilmente, ne segue le mosse per arrivare al padre) e scansato dai compaesani impauriti. A un certo punto, piglia il fratello e se ne va via. Da qualche parte, va tutto bene. Salonicco dista soltanto quaranta chilometri, poi arrivano a Atene e poi chissà dove, di qua e di là. Nikos lavora come operaio a giornata, si proclama comunista e si accorge in men che non si dica che, nella Grecia degli anni '50 e '60, da operaio comunista si patisce la fame. Perdipiù quando si è segnati già “di famiglia” e si è nel mirino dello Stato. Comincia quindi a rubare, e naturalmente a entrare ed uscire dalle galere.

Quella sera del febbraio del '73, quando Nikos entra nel locale assieme al fratello, ha appena finito di scontare sei anni di carcere per furto. Gli ennesimi. Voleva, si dice, “mettere la testa a posto”; si era persino fidanzato con una brava ragazza, che stava per sposare. La Polizia, vedendolo così bene intenzionato, gli aveva fatto la grande proposta: diventare un informatore. Una spia. Sotto una dittatura, poi, le spie sono fondamentali. Lo avrebbero lasciato in pace e persino ricompensato, e si sarebbe sposato la sua ragazza e fatto tanti bei piccoli schiavi. Ma Nikos Koemtzìs è pazzo; in tali casi, si definisce “pazzo” chiunque non agisca come Potere vuole, e anzi si ribella. Una cosa da pazzi, appunto. Alla proposta della Polizia, dice no. Rifiuta, senza fornire nessuna spiegazione; no e basta. Nessuna intenzione di guadagnarsi da vivere e da star tranquillo facendo l'infame; ce ne sono già abbastanza. Pazzo com'è, sa benissimo a che cosa sta per andare incontro, e che gliela avrebbero fatta pagare carissima; presentendolo, da Atene scappa a Salonicco, di nuovo. Quelli lo raggiungono a Salonicco, capirai che sarà è c'è già pure l'autostrada, e lo riempiono di botte per fargli capire bene come va il mondo. Torna a Atene ridotto a una merda umana, e per ribadire il concetto gli fanno fare un giretto in certi sotterranei di qualche commissariato, da dove i rumori non si sentono nemmeno quando sono in forma di grida; se anche si sentissero, poi, nessuno muoverebbe un dito.

Non ha un soldo; sicuramente si rimetterà a rubare, e altra galera, e anche qualcosa di peggio visto l'andazzo. Gli resta il matrimonio, la sua adoratissima fidanzata; gli sbirri gli mandano a monte anche quello, per completare l'opera. Prelevano la ragazza e la “convincono”, servendosi anche dei genitori che, spaventati a morte, “consigliano” alla figlia di troncare con Nikos e di trovarsene un altro bravo, cristiano e lavoratore; e il fidanzamento viene interrotto. Così Nikos è solo, col fratello minore che balla. Quando si è soli, senza un soldo, con la vita finita, pazzi, braccati dalla Polizia, sotto una dittatura militare, persino comunisti e appartenenti a una classe che manco si sa quale sia oramai, che cosa si fa? Si va nel primo locale a bere e a veder ballare il fratello bravo. Bisognerà parlare a questo punto di che cosa sapeva ballare Dimosthènis.

Sa ballare lo zeïbekiko. Il nome di questa danza deriva da una parola, turca pure lei, che indicava, sotto l'Impero Ottomano, i greci che si erano islamizzati di facciata, mantenendo però tutte le abitudini culturali (e la lingua). Specialmente nelle danze popolari, gli zeïbekides dimostravano di essere ancora greci, di aver mantenuto la propria anima; da qui il nome della danza stessa, che -si dice- ancora oggi sia capace di esprimere tutto quel che si ha dentro col linguaggio del corpo, col movimento che risponde al moto dell'animo. Lo zeïbekiko, però, ha le sue regole. La principale è che deve essere ballato rigorosamente da soli. E' una danza personale, nella quale l'uomo sputa fuori le sue pene, le sue gioie, le sue passioni, le sue vite e le sue morti; guai se qualcuno va a rompergli i coglioni mentre balla. E' un'offesa mortale; in pratica, nei locali, quando qualcuno richiede uno zeïbekiko, chiunque si trovi in pista o in sala deve sloggiare e mettersi a sedere. E guardare. Chi balla si mette a nudo davanti agli altri, comunica loro chi è e che cosa ha nelle viscere, e quindi nessuno deve azzardarsi a mettersi a ballare assieme a lui.

La richiesta di uno zeïbekiko ai suonatori ha un nome specifico: si chiama parangelià. Con l'accento sulla “a” finale vuol dire soltanto quello: la richiesta che un uomo fa di suonare uno zeïbekiko che andrà, da solo, a ballare. La lingua greca, lo avrete capito tutti da certe cose che da un po' di tempo scrivo qua dentro, è strana parecchio; basta spostare un accento, dire parangelìa con l'accento sulla “i”, e diventa un comunissimo termine per “ordine, comando, incarico”. Quella sera, Nikos ha voglia che il fratello balli uno zeïbekiko; attraverso il fratello e la sua danza, ha bisogno di sentire bene che cosa stia accadendo dentro di sé. Gli dice quindi di andare a chiedere una “parangelià” al caporchestra, che accetta immediatamente. Anche perché rifiutare una parangelià da parte di qualcuno che gliela chiede, in quei posti potrebbe costare la classica “aspettatina fuori”, e non per andarsi a bere un bicchierino assieme. La cosa segue poi una specie di rituale; il caporchestra fa terminare il pezzo che si sta suonando, poi urla: “Parangelià! Richiesta!”. A questo punto, chi è in pista deve mettersi a sedere; il richiedente va quindi in pista, comincia la musica e l'uomo si mette a danzare. E' consuetudine che, durante la danza, il pubblico getti in pista ogni sorta di cosa che si rompe: soprattutto piatti e bicchieri. Negli skyladika ateniesi, e specialmente nei bouzouxidika, i “locali di bouzouki”, si cammina e si balla letteralmente su un tappeto di cocci, che poi gli inservienti spazzano via alla fine di ogni pezzo. Questo perché il danzatore deve dimostrare sia estrema abilità, sia la totale mancanza della paura di ferirsi; va da sé che, in origine, lo zeïbekiko deve essere stata una danza di guerra, e che non possano ballarlo le donne.

Il locale "Neraïda tis Athinas".

Dunque, Dimosthenis va in pista; si sa anche quale pezzo ha richiesto, Vergoules di Markos Vamvakaris, uno dei grandi del “rebetiko”. Comincia a ballare e il fratello lo guarda, estasiato, con qualcosa che gli sale dentro. Non si erano accorti prima, che un paio di persone li stavano tenendo d'occhio; e avrebbero fatto meglio ad accorgersene. Queste due persone, infatti, sono in pista; una di loro è accompagnata da una donna che se ne sta a un tavolino. Stanno in pista e non si levano. Non vanno a sedersi e, quel che è peggio, girano le spalle al danzatore e continuano a ballare per i fatti loro. E' un gesto di sfida e di provocazione intollerabile: Dimosthènis urla: “Questo pezzo è mio!”, e tenta di spingere via i due; quelli, per risposta, gli si gettano addosso e lo buttano a terra, sui cocci di piatti rotti. Urla. Nikos si alza come invasato, gridando quasi incredulo: “E' una parangelià! E' una richiesta!”; e cava fuori un coltello, un lepidhi a lama incavata. Comincia a menare fendenti a dritta e a manca, dirigendosi verso i due che hanno provocato il fratello; ed è del tutto logico che lo abbiano fatto. Nel locale c'erano entrati per controllare, dato che è il loro mestiere di merda: sono due poliziotti.

Due sbirri che, avendo riconosciuti quei due “pazzi” dei fratelli Koemtzìs, avevano deciso di provocarli, probabilmente aspettandosi la loro reazione in modo da poterli impacchettare e portarli in galera, magari con previo passaggio per qualche scantinato di caserma o roba del genere. Quello che sicuramente non si aspettavano era la furia, autentica, di Nikos Koemtzìs; avevano beccato la serata sbagliata. Ci aveva dentro tutta la sua vita e la sua rabbia, quella sera, che voleva sfogare guardando ballare il fratello; poiché glielo avevano impedito, la trasferì nel suo lepidhi. Ammazzò come cani i due poliziotti, uno mentre gli stava mostrando il tesserino tentando di salvarsi; poi un'altro avventore che era intervenuto nella rissa; e ferì gravemente altre sette persone. Tre morti e sette feriti da solo e con un solo coltello; non sapeva ballare lo zeïbekiko, Nikos, ma se ne era fabbricato uno tutto suo, coltello alla mano, forse più vicino alla danza di guerra originale di chissà quanti secoli prima. Nella confusione pazzesca che segue, prende il fratello che è insanguinato a terra, e lo trascina via con sé; poi scappa.

Lo scovano poco dopo, arrivati in forze. A quel punto Nikos desidera morire combattendo; prende e lancia il coltello sui poliziotti. Che devono, evidentemente, avere l'ordine di prenderlo vivo; gli sparano, infatti, alle gambe. Il resto lo fa il solito “zelante cittadino”, uno di quelli che non sanno mai farsi i cazzi propri , magari con la speranza di averne qualche beneficio; nella fattispecie il padrone di una taverna che esce dal locale brandendo un'asse (forse una panca) e tramortisce Nikos Koemtzìs a terra, già ferito.

Il resto. Già, il resto. E come si vuole che sia, il resto. Galera. Il processo a Nikos Koemtzìs e al fratello si svolge a Atene in un mesetto che ve lo raccomando, il novembre del 1973. Infuria la rivolta studentesca del Politecnico, poi repressa nel sangue coi carri armati; e mentre la dittatura dei Colonnelli comincia a scavarsi la tomba che terminerà nel luglio successivo con l'avventura cipriota. Al processo, Nikos va rassegnato e senza nessun sentore che sta divenendo, in quei giorni, una specie di eroe popolare; cosa più che normale, del resto. Ammazzando due sbirri, in quei frangenti sarebbe diventato un eroe pure Pietro Gambadilegno (magari facendo fuori quei due coglioni di Basettoni e Manetta, perché no; e pure quel merdoso di Topolino per completare l'opera). Sa che cosa lo aspetta, Nikos; e, infatti, non si stupisce quando l'Illustre Corte gli ammannisce tre condanne a morte e quattro ergastoli. Le sentenze tribunalizie riescono ad avere uno spunto di comicità anche nella peggiore delle tragedie; tre fucilazioni e, una volta scontate, quattro galere a vita. Proprio ganzo. Poi succede quel che deve succedere, crolla la dittatura, torna 'a democrazzìa (parola greca), e a Nikos Koemtzìs abbuonano le tre esecuzioni e tre degli ergastoli. La democrazzìa è buona, e di ergastoli te ne dà uno solo. Dimenticavo un paio di cose: la prima che che il fratello, Dimosthènis, fu pure condannato a nove anni di carcere per non aver fatto niente; anzi, per essere stato pestato e ferito sui cocci dei piatti da un paio di stronzi mentecatti che non gli avevano fatto ballare uno zeïbekiko di Markos Vamvakaris. La seconda è che, qualche tempo dopo, a morte ci fu condannato proprio il capo dei “Colonnelli” in persona, Georgios Papadopoulos. Quello del golpe del 21 aprile '67. Quello della “Grecia dei greci cristiani” al quale i rivoltosi del Politecnico rispondevano “Grecia dei greci torturati” (o “incarcerati”). Però anche a lui commutarono la pena in ergastolo.


Novembre 1973: Nikos Koemtzìs viene infilato da due poliziotti nella gabbia degli imputati, al processo.

Poi accadde anche qualcosa dopo, con Nikos Koemtzìs rinchiuso dentro per sempre. La stampa, prima di tutto. Naturalmente, scatenata; per qualche tempo, addirittura, coniò una nuova parola. Quando avveniva un fatto di sangue particolarmente efferato, gli articoli parlavano di koemtzides, facendo il plurale del cognome di Nikos; cognome che era diventato sinonimo di “belva sanguinaria”. Così era presentato dai giornali, anche dopo la fine della dittatura; ma non c'era, effettivamente, granché da stupirsi. E neppure, mi vien fatto di dire, della reazione di parecchi “intellettuali”, specialmente musicisti e cantautori pure “progressisti” e “democratici”, che si uniformarono volentieri alle definizioni correnti quando un qualche reporter andava a intervistarli e a chieder loro un parere sulla vicenda di Nikos Koemtzìs. Tutti tranne un paio. Il primo, Grigoris Bithikotsis, era uno dei più grandi cantanti greci e s'era fatto non so quanti Theodorakis (chiunque canti, in Grecia, con intendimenti d'arte s'è puppato un Theodorakis; ma dico questo, ovviamente, con grande affetto verso il vecchio Mikis). Il giornalista che gli si presentò in casa, dopo due minuti fu buttato fuori a calci nel culo mentre Bithikotsis gli urlava: “Ma che te lo spiego a fare?”

Il secondo fu un altro cantautore, Dionysis Savvopoulos. Uno strano tipo, somigliante come una goccia d'acqua a Augusto Daolio dei Nomadi, e con la caratteristica di scrivere testi che fanno ammattire chiunque tenti di tradurli in una qualche lingua, tanto sono difficili e oscuri. E lunghissimi. Qualche anno dopo, mentre Nikos Koemtzìs era in galera, scrisse una canzone su di lui, intitolata Il lungo zeïbekiko di Nikos Koemtzìs: tredici minuti. Novanta e rotti versi, un fiume; tutta la storia narrata per filo e per segno, ma con un andamento poetico da capogiro che la ha fatta terminare, dicono, in non poche antologie della letteratura neoellenica. La musica, naturalmente, è uno zeïbekiko; ma chi volesse andarlo a ballare dovrebbe averci un gran fiato per portarlo a termine. Nella canzone, tra le altre cose, si racconta pure di quando Bithikotsis cacciò il reporter a calci.



Successe poi che, l'anno dopo, nel 1980, basandosi proprio su quella canzone un regista cinematografico, Pavlos Tasios, ci fece sopra un film. Lo intitolò, pensate un po', Parangelià e ve lo faccio vedere tutto quanto, qua sotto. In greco, ovviamente; ma non per snobismo o qualcos'altro di disdicevole (ma, del resto, ve l'ho sempre detto di non studiare quell'inglese di merda, ché tanto poi non ci capite un cazzo lo stesso).  È perché non è mai uscito fuori dalla Grecia, comunque. Come si dice in Gallia, “tout se tient”; nel film, la parte di Nikos Koemtzìs è affidata all'attore Andonis Andoniou, che in quel momento faceva anche il marito di Katerina Gogou. E la stessa Gogou recita nel film, in due sensi: come attrice (lei stessa apre il film, nella scena iniziale), e come poetessa. Declama infatti, sulla musica di Kyriakos Sfetsas, delle sue poesie tratte da “Tre scatti a sinistra”, la sua raccolta del 1978 dedicata proprio a Nikos Koemtzìs. Con quelle poesie e quella musica, nel 1981 fu prodotto l'album Στο δρόμο, “Sulla strada”.


Dunque, finisce qui? Non del tutto. C'è Nikos Koemtzìs in carcere, dove si mette a scrivere tutta la sua storia; ma non cominciandola da quel ventiquattro di febbraio del '73, ma dall'inizio. La sua vita intera; tanto ne ha, di tempo. La intitola, questa autobiografia, in modo originalissimo: Il lungo zeïbekiko. Il 29 marzo 1996, dopo ventitré anni di galera, viene rimesso in libertà; per vivere, si mette a vendere il suo libro per le strade. L'ultimo zeïbekiko, il vecchio Nikos se lo danza il 23 settembre 2011, L'ultimo zeïbekiko, il vecchio Nikos se lo danza il 23 settembre 2011, quando lo trovano riverso a terra, morto, in una strada di Monastiraki; da solo, proprio come nella danza. Avevo progettato di mettere una specie di “morale della favola” in fondo a tutto questo che favola non è; ma poi mi sono accorto di non averne voglia. Se la faccia ognuno da solo, se vuole; io mi fermo qui.

Nikos Koemtzìs mentre vende la sua autobiografia a Monastiraki.