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mercoledì 11 luglio 2007

La fiaccola dell'Anarchia


Questo è un post molto "antico": risale al 2 aprile 1999 e già dal titolo si capisce che proviene dal newsgroup di Guccini. Ma Guccini c'entra solo marginalmente; o, meglio, è la filigrana della carta. C'entrano, invece, due persone che ho conosciuto. La prima è un mio vecchio padrone di casa; la seconda è la nonna della mia ex moglie. C'entrano dei periodi in cui m'è capitato di condividere la vita di queste persone. Non voglio dire altro.

Qualche volta, senza bandiere né slogan, m’è capitato di vedere accesa la fiaccola dell’Anarchia.

La canzone di Guccini è In morte di S.F. Lui aveva le iniziali invertite: F.S; era il mio padrone di casa dei tempi dell’università.

F.S., come le ferrovie; come i binari che correvano sotto casa facendo sobbalzare tutto ad ogni pur misero locale che passasse, come i binari impazziti che aveva dentro. Una malattia lucidissima, terrificante, incurabile; sui certificati che ogni tanto mi faceva vedere c’era scritto: sindrome paranoico-schizofrenica con accentuata mania di persecuzione. Faceva il magazziniere, ed era una delle persone più intelligenti, simpatiche e colte che avessi mai conosciuto; gli piombai in casa una mattina di gennaio, attirato dal basso prezzo che pretendeva per una stanza luminosa e grande. Il giorno dopo sbarcai coi miei libri, una macchina per scrivere dei tempi di Noè ed un cartoccio di pizza coi capperi e le olive.

Aveva viaggiato sempre, e mi raccontava qualche volta di quando e come avesse incontrato la bestia. Una volta, mentre era al lavoro tra i suoi scatoloni di giocattoli, mentre stava scrivendo chissà cosa su quale registro o bollettino di carico e scarico. Descriveva minuziosamente tutte le fasi della sua implosione, del suo scomparire dentro sé stesso, e ci scherzava sopra; parlava dei suoi viaggi, delle sue ragazze, del posto dov’era nato. Un posto con il nome più bello che abbia mai sentito: si chiama Falce Torta, due o tre case sprofondate nella campagna casentinese, dove pochi anni prima era morta sua nonna Fosca, che usava dire che "la vita è come un forcone, chi infila, infila".

Cucinava benissimo, mi ricordo sempre le sue seppie in zimino; sapeva fare ogni cosa. Accanto al suo letto d’uomo solo, bucherellato dalle cicche spente, teneva una foto di Dacia Maraini. Mi diceva che era una gran donna. Leggeva i suoi libri con un quaderno sempre aperto, per annotare quel che lo aveva colpito; poi, a volte, lanciava via tutto. Mi diceva d’andare in camera mia, mettendomi una mano sulla spalla, perchè stava arrivando la bestia e se n’accorgeva. S’attaccava al telefono senza comporre il numero, e ascoltava per ore il tu-tu-tu completamente immobile. Credevo che i suoi libri fossero tutti sfasciati dall’uso e dalla lettura, ed una volta, invece, capii il perchè. Li lacerava, li buttava dalla finestra, li prendeva a calci. Non mangiava nulla, fumava e beveva litri di caffé. Diceva che era tutta colpa della Polizia, delle botte che aveva preso durante una certa manifestazione, poi si metteva in contatto con delle cose verdi che stavano sul pianeta Vega.

Una volta lo hanno trovato completamente nudo in una chiesa che insultava un crocifisso e pisciava all’altare; usava rovesciare il bidone della spazzatura sul tabernacolo sotto casa. Faceva quel che gli ordinavano. Sudava. Piangeva. Si chiudeva in camera. Quando usciva, aveva un grande sorriso e non si ricordava di niente. Si ricominciava a tirar mattina davanti a un fiasco di vino, a leggerci le poesie che amavamo; ho conosciuto una grandissima poetessa francese del ‘500, Louise Labé, grazie ad un magazziniere paranoico.

S’andava insieme a teatro, in bicicletta, ben attenti a indossare i nostri soliti maglionacci del mercato e blue jeans di seconda mano, per ascoltare parole. E una volta la bestia lo prese durante la Tempesta di Shakespeare, durante un monologo di Ariel, lo spirito del vento. Un giorno dovetti andare via, e ogni tanto ripasso sotto casa sua. Vedo sempre la sua Vespa ammaccata, e la finestra della mia stanza, ora chiusa, ora aperta.

*

La canzone di Guccini è Amerigo. Quello che probabilmente uscì chiudendo dietro sé la porta verde; e, infatti, c’era una porta verde, ed un grande cancello verde. Dietro, un diospero che di novembre, quando il cielo sullo sfondo si faceva d’un profondo grigio argentato, lanciava le sue macchie d’un arancione carnoso a creare il più bel contrasto di colori che abbia mai visto. E i campi di grano dietro la casa, il mare d’erba verde ondeggiante, il Castello illuminato la notte. La notte, quando ammaestravo una civetta che mi veniva alla finestra dello studio, attirata dall’unica luce accesa nel buio più assoluto, con dei pezzettini di carne tritata. Mi guardava coi suoi occhi verdi. Come Mafalda, la vecchia Mafalda. Venuta da chissà quale angolo della campagna, venuta da chissà quale tempo.

Non si ricordava di quel che aveva detto un minuto prima, ma mi parlava di suo nonno. Di suo nonno che, quand’era bambina, se n’andava a tagliare il bosco in quei boschi fra la montagna senese e la Maremma, e che, per guadagnare due soldi, una volta all’anno se ne andava a piedi fino a Piombino per fare chissà cosa. Di suo padre stravolto dalla fatica e dal vino, che tornava a casa a massacrare di botte sue moglie, mentre lei e i fratelli si nascondevano nella stalla, a volte nella merda. Di suo marito mandato a fare il conquistatore in Abissinia per ordine di Mussolini, e quando le nominavi Mussolini dovevi stare attento che non avesse il trinciapolli in mano. Della sua prima figlia, morta a nove anni nel ‘43 in un bombardamento, e della sua seconda figlia, morta a trentuno anni di leucemia.

Ma lei, di fiaccole, se ne intendeva per davvero. A quindici anni era dovuta andare a lavorare in fabbrica, per tirar su cinque lire al giorno; una fabbrica di fiammiferi. Si ricordava ancora a memoria tutte le miscele necessarie per fare gli zolfanelli, di quando arrivavano i Lancia Rho carichi di legno, quei camion colle gomme piene che sembravano sempre sul punto di dar di balta, e che invece montavano anche su’ muri. Di come in fabbrica non ci fosse neanche non dico un estintore, ma neanche una sistola attaccata a una cannella, neanche un sacco di sabbia; e del capataz che girava tutto il giorno tra le operaie col sigaro acceso, che non le lasciava neanche andare in bagno e poi tanto era inutile perchè il bagno non c’era, di quando tornava a casa che puzzava di zolfo come neanche il Demonio.

Era vecchia, risecchita, e quegli occhi verdi chiari che sembravano dipinti dal Beato Angelico; quegli occhi verdi che s’attaccavano a qualunque cosa odorasse di zucchero e di vino. Metteva lo zucchero sui pomodori crudi e se li mangiava; zucchero sul tavolo, e c’inzuppava il pan bagnato. E il fiasco davanti, di quel vino ai margini del Chianti, di quella specie di melassa rossa. La grappa fatta in casa, che qualcuno doveva nasconderle in alto perchè era capace di scolarsene una bottiglia in un giorno. Era diventata il punto di riferimento di tutti i cani della zona, i vicini non volevano che desse loro da mangiare e lei se ne fregava altamente. Ne aveva otto. La lucetta votiva appesa sotto i ritratti delle sue figlie, di suo marito, e ogni sorta di cose nella sua camera, anche raccolte nel bidone della spazzatura davanti casa.

Le cose, le cose e la terra, e a culo tutto il resto, anche il suo funerale in un giorno soffocante di fine luglio, con cinque persone a seguirla, nella luce accecante come quella d’una bomba.

E che ci giunga un giorno ancora la notizia d’una locomotiva, come una cosa viva, lanciata a bomba contro l’ingiustizia.

sabato 7 luglio 2007

Western Pearl


"Contestualizzare" è una parola che trovo detestabile. Ma a volte non se ne può fare a meno. Questa è probabilmente una delle cose a più elevato tasso alcoolico che io abbia mai scritto, e la sua data, il 30 gennaio 2002, lo giustifica per vari motivi. Il calcio all'inverno, ad esempio; non era semplicemente l'inverno di quell'anno, ma tutto un inverno in cui m'ero andato a cacciare da diverso tempo e che, da pochi giorni, aveva ricevuto non un tiepido raggio di sole, ma un vulcano intero, in carne ed ossa, materializzatosi in una serata milanese. Ma continuando a "contestualizzare", in quel post scritto in condizioni spaventose alle tre e mezzo di mattina c'era "in tre minuti tutta la storia della mia vita". Persino l'immancabile notazione etimologica. Il "canale IRC", che poi era quello del newsgroup di Guccini; in certe serate era un incrocio tra un puttanaio, un campo di battaglia e il pianeta dell'amore. Non dovevo "bere fino al 30 aprile" perché dovevo operarmi per un piccolo tumore al pene, un condiloma, poi rivelatosi un'inezia ma che aveva aggiunto cazzacci amari a quelli che già avevo a dirigibilate intere. C'è il pub "Nessie" di Livorno, che esattamente due mesi dopo avrebbe visto una cosa che ho già raccontato parlando di un treno. Lo stesso pub dove, il novembre prima, s'era impiccato un mio amico, uno dei gestori. Un ragazzo di 25 anni mezzo livornese e mezzo polacco, che quand'era livornese si faceva chiamare Michele e, quand'era polacco, Alekszej. Pochi giorni prima che si ammazzasse gli avevo regalato una grammatica polacca. C'è Piero, che di cognome fa Ciampi, e che ho cominciato neppure tanto inconsciamente a far risorgere quella sera; ma questa è un'altra storia. Ci sono vari episodi violenti della mia vita; ma la mia, e lo dico solo a mo' di constatazione, è una violenza esclusivamente fisica, fatta di mani, di braccia, di cazzotti. Mai un'arma in mano. Mi sono comunque dovuto ritrovare in un'aula di tribunale, quel posto dove si capisce definitivamente che al loro posto non ci sai stare. E qui devo fare una parentesi un po' delicata. Nel post è nominato tale commissario Cerofolini. Non ne parlo mai volentieri. Non sono mai stato uno che indulge al "buon poliziotto", al "bravo sbirro". Per me la polizia è e rimane la peggiore merda che esista sulla faccia della terra. Non amo sdilinquirmi sulle "eccezioni", perché a forza di eccezioni si finisce invariabilmente per giustificare appieno tutto ciò che la polizia fa, ivi compresi i Bolzaneti e le scuole Diaz. E' una premessa che ritengo necessaria prima di limitarmi a raccontare brevemente che, una sera di giugno del 1993, dormivo beatamente in piazza Signoria, a Firenze, senza rompere le scatole a nessuno. Dormivo. E basta. Mi venne a svegliare in malo modo un agente di polizia, con un calcio nel sedere; non contento, iniziò a dirmene di tutti i colori, a darmi di finocchio, di lurido, di drogato. Scattai all'improvviso, in modo quasi inconscio, cominciando a pigliarlo a cazzotti, ma di quelli fitti, di quelli disperati. Credo che mi fermarono i colleghi dell'agente prima che lo ammazzassi, perché lo avevo messo a terra. Fui portato in questura, dove c'era, appunto, questo commissario Cerofolini, di turno. Il quale, dopo avere confabulato con quegli agenti e aver tirato delle bestemmie in salernitano o roba del genere, urlò: Quella bestia non capisce un cazzo. Pensavo ce l'avesse con me; invece ce l'aveva con quello stronzo che mi aveva svegliato a calci. Poi mi prese da una parte, dicendomi di levarmi alla svelta di lì. Non ci capivo più niente, erano le cinque di mattina e ero distrutto; dovette farmi il gesto del "fuori dai coglioni" con una mano. Non l'ho mai più rivisto, nemmeno incrociato per caso. Nulla. Questi sono i semplici fatti e non intendo, neppure adesso, minimamente commentarli. Ho avuto, quella notte, un immenso culo; e non solo per il commissario, ma anche perché ancora sto a chiedermi perché quel demente non avesse cacciato fuori la pistola mentre lo riempivo di cazzotti. Ripensandoci, mi sono a volte detto che devo avere incontrato il commissario Montalbano, e probabilmente qualcosa della mia autentica passione per il commissario di Camilleri la ricollego in modo subliminale a quell'episodio. Fine della storia, e nessuno mi caverà mai più niente. "Franco" è ancora una volta Franco Senia. Tutto il resto è...Western Pearl. A proposito: non l'ho mai più ribevuto. Meglio così. Se vi capitasse di trovarne una bottiglia, comunque, fateci estrema attenzione.

Lo conoscete il Western Pearl?
Ah, la Perla d'Occidente. La Perla del Tramonto.
Color dell'oro!
Franco, lo so che io e te si beve tequila. Lo so che, per stasera, è un tradimento. Come andare con una donna totalmente diversa dalla propria.
Ma l'amore, l'amore è plurale. Non c'e' mai amore verso una cosa sola.
Anzi, diceva mio nonno Bruno che o c'e amore verso tutto, o si muore.
Probabilmente era una cosa che s'era detto anche a Mauthausen, dove lo avevano spedito e da dove era riuscito a tornare vivo. Si noti questa parola: vivo. Che suono strano, con quelle due "v" che anticamente avevano una "g" davanti (indoeuropeo *gwiwos).

Ricostruisco la storia di stasera, che in tre minuti è la storia della mia vita.
Ero sul canale IRC. Si parlava e a un certo punto, contravvenendo alle regole hygieniche che vorrebbero ch'io non bevessi fino al 30 aprile, giorno in cui mi devono togliere una specie di tumore dal cazzo (per favore, non chiamatemelo "pene", nome orrendo che ricorda le pene e W "Porci con le ali"), ho cavato fuori una bottiglia di Western Pearl che avevo comprato oggi pomeriggio al Nessie. Il Nessie e' il pub dove il 6 novembre scorso s'e impiccato il mio amico Alekszej, ed e' l'unico posto a Livorno dove vendono il Western Pearl, la birra Kwak (che si beve col whisky Talisker), il Vabarigis Valge (una bomba a orologeria estone fatta dalle patate) e il White Diamond Fog, che è idromele.

Dicevo, che ho incignato il Western Pearl raccomandando a tutti di fermarmi a un certo punto.
Solo che poi è arrivato Piero. All'improvviso.
Piero è la rabbia dell'amore. E' la cosa che in mezzo millisecondo ti fa scorrere tutta la vita concentrandola in un calcio o in un pugno.
C'era Piero quella sera che ho tirato il naziskin nella vetrina del gelataio. E' venuto la prima volta quella sera che hanno ammazzato Rodolfo Boschi. C'era quella volta che ho steso mio padre sul pavimento con un cazzotto e quando s'è alzato mi ha stretto la mano. C'è stato quando il commissario Cerofolini m'ha mandato libero anche se avevo massacrato un agente che non mi voleva far dormire per terra, e non rompevo i coglioni a nessuno.
Stasera volevo ammazzare l'inverno.
E così sono uscito, sperando d'incontrarlo.
Per dirgliene quattro, cinque o sei.
Pero' mi son portato dietro il Western Pearl.
E via, via, via.
Aveva un colore bellissimo, tutto il contrario dell'inverno. La Giamaica. Ho deciso: ai mondiali di calcio tiferò per la Giamaica anche se non c'è. Red, Red, ma quale Cina. Noi si tifa Giamaica.
Che calcio gli ho tirato, all'inverno!
E' volato via, Franco. Vedessi!
Io penso in antica lingua di forme complicate, ma stasera il calcio gliel'ho tirato in esperanto!

Il Western Pearl è un rum giamaicano. Ha 67 gradi. Se ne beveste due bicchieri pieni sareste già sdraiati per terra.
Io ci ho davanti qui la bottiglia. Vuota. Hihihhihihihihi !
Che bel calcio all'inverno!

giovedì 5 luglio 2007

Libri


Ogni post, o repost, contenuto in questo blog contiene la data di redazione, o quantomeno il periodo. Per questo post è particolarmente importante: il 3 giugno 2002. Da due giorni avevo eseguito il trasloco, o forse meglio sarebbe dire la smassatura, dei miei libri da Livorno. Un furgone noleggiato, un grosso "Daily" dove alla fine non sarebbe entrato più nemmeno un capello. Erano appena iniziati cinque anni che mi avrebbero portato molto lontano. Tra quei libri, molti hanno preso altre strade; altrettanti sono ancora qui con me, a seguirmi, a condividere. Il post era stato scritto per il newsgroup di Guccini. Sullo stesso thread, Franco Senia scrisse un'altra cosa che ritengo del tutto inscindibile. E' riportata in un commento.

Portati via a forza di braccia giù per le scale di quella che, per anni, è stata casa mia. Ammassati alla rinfusa dentro a un furgone preso a noleggio. Portati in giro per strade ed autostrade, e ad ogni curva un crollo. Copertine che son saltate, pagine strappate, strane commistioni venutesi a creare (le poesie di Mario Luzi incastrate dentro una grammatica birmana, le Sette principesse di Nezamî avvinte in un appassionato amplesso con un dizionario bulgaro e una copia di PK New Adventures). Infine, scaricati in un sottoscala condominiale davanti agli inquilini esterrefatti. Son venuti fin dall'ultimo piano a vederli, ci fanno le gite in ascensore. E, piano piano, me li sto portando tutti in casa. Disponendoli su scaffali veri e improvvisati. Sono più di seimila.

Libri. Sono libri. E ognuno di essi, via via che li tolgo dal mucchio immane, dalla babele borgesiana in cui il caso e l'ordine sono inestricabilmente avviluppati, mi racconta una storia. Pagina dopo pagina, tutta la mia vita, tutti i miei disordini, tutte le solitudini che hanno viaggiato insieme a me. Perché io non mi sposto senza i miei libri. Mi seguono e mi seguiranno ovunque, e alla fine andranno da qualche parte dove siano a disposizione di tutti. Eccoli là, sempre più polverosi, sempre piu' squinternati, scalcinati, scarabocchiati, laceri, macchiati; io odio chi dice che il libro va "rispettato". Va rispettato quel che c'è scritto dentro. Piglierei a calci i bibliofili, Franco Maria Ricci, e tutti coloro che considerano il libro un bel soprammobile. Le strenne natalizie delle banche. I libri cosiddetti "d'arte" che nessuno apre, ma che fanno tanto figo nel salotto buono. Vade retro. Ce ne ho pure, di questi bei volumi, ma sono scarabocchiati, spaginati e usati come tutti gli altri.

Eppure li sistemo con un ordine maniacale; e diversi si sono addannati a farci psicologia addosso. Togliete pure un opuscolo di poche pagine, e me ne accorgo. Una volta disposti, non permetto a nessuno di toccarli, e so bene che è una delle mie cose piu' antipatiche. Ok, ok, sono un ultras del libro. Li presto solo a poche persone fidate, che so che li tratteranno malissimo ma li leggeranno. Quando torneranno da me, so che ci sarà dentro anche un po' di vita altrui. Se qualcuno ci ha infilato un foglio dentro, un fiore secco, qualsiasi cosa, non la tolgo; in una vecchia grammatica araba trovai dei tovagliolini di un caffè del Cairo con alcuni appunti incomprensibili, che sono ancora lì e vi resteranno. Chi li avrà scritti? Perché li avrà messi lì dentro? Ma c'è tutto il mondo, perché i miei libri hanno davvero fatto il giro del mondo prima di arrivar da me; ed io l'ho fatto assieme a loro.

Ma che vi starò a raccontare, sudato come una merda, che ci avrei bisogno di una doccia più d'un lingotto d'oro e invece sto qui a scrivere su questo newsgroup già in vacanza? Non lo so. Stavo nel sottoscala a smassare, dividere e portar su libri, libri e libri. Poi a ordinarli stanza per stanza, scaffale per scaffale, uno per uno. Mi pigliavano strane rabbie, bizzarri slanci, e un pozzo di ricordi senza fondo. "Ti amo, Riccardo, 4 gennaio 1980. G." Sta sul frontespizio della Grammatica della lingua serbocroata di Giovanni Androvic', edizioni Cisalpino-Goliardica, reprint degli antichi Manuali Hoepli. E mi ricordo come fosse ieri di quando quel libro mi fu messo in mano, di quando lo scartai dal pacchettino, degli occhi che mi brillavano.

E su per le scale inveivo dentro di me contro quell'imbecille snob d'investigatore barcellonese che brucia i libri, che ci accende il fuoco. Ma datti fuoco tu, cretino d'un Carvalho. Uccidevo con la mente chi si sciacqua la bocca con la "vita vera", quella che "non si impara sui libri"; strangolavo Ubertino da Casale che urla a Adso da Melk: "Butta via tutti i libri!", e con lui tutti i predicatori di falsa esperienza, chi vuole "tornare alla semplicita' ", chi vorrebbe far disprezzare la cultura perche' "isola dal mondo reale" e compagnia bella. Garrotavo con il pensiero chi ha fatto le battutine sul "peso della cultura" mentre mi ha visto sudare sette camicie per scale di mille case diverse, a portar su e giù libri, libri, libri. Ricordavo con affetto Fiorenzo, un mio vecchio padrone di casa, che uno scaffale intero di libri, che adorava, me lo buttò giù dalla finestra del primo piano; e ancora ne portano i segni, i segni di un periodo della mia vita, i segni di una follia, di notti in bianco, di lacrime e di risate che non finivano mai.

E io porto i segni di quei libri. Di tutti quanti. Come loro portano il mio. Di quel che ho fatto di bene e di quel che ho fatto di male. Di tutte le persone che ho incontrato, di quelle che mi hanno amato, di quelle che mi hanno odiato. Di sogni, speranze e ipocrisie. Ci ho volato e ci volerò assieme, nei mondi della fantasia, della scienza, della pazzia e del sangue.



mercoledì 13 giugno 2007

Il cesso del re


Domani mattina parto per una delle mie frequenti "puntatine" in Svizzera. Sarà anche l'ultima volta che andrò a Friburgo (quella svizzera, Fribourg o Freiburg); ora che ci ripenso, gli ultimi cinque o sei anni della mia vita li ho passati quasi tutti all'estero. Così, alla vigilia dell'ennesima partenza (ma torno fra un paio di settimane, non abbiano a preoccuparsi le orde di lettori del Bignami...) vado a rovistare nel vecchio blog "Da Galenzana" e tiro fuori questa cosa (invero assai bislacca) che mi accadde quando abitavo invece nel nord della Francia. Reca la data del 7 agosto 2006.

Qualche anno fa abitavo nell’estremo nord della Francia.

Ero stato chiamato da un piastrellificio per una traduzione. Fin qui nulla di strano, mi è successo molte altre volte di essere chiamato a fare una traduzione scritta direttamente in un’azienda. E’, anzi, una cosa che mi piace e che mi diverte, oltre a rendere più facile la traduzione (potendo contare su dei tecnici che spiegano, all’occorrenza, il significato esatto di una parola). Per farla breve, una data mattina d’autunno, già con un freddo polare, presi la macchina seguendo le indicazioni che mi avevano dato al telefono. Mi avevano detto che la fabbrica si trovava “vicino alla frontiera belga”; ma non era esattamente così.

Lasciata la strada dipartimentale, mi toccò girare in una specie di viottola di campagna, di quelle col pavé rese celebri dalla corsa ciclistica Parigi-Roubaix. A un certo punto vidi, con sollievo, il piastrellificio; solo che, senza che ci fosse nessun avvertimento, nessun posto di guardia, manco una baracca con un doganiere scalcagnato, mi ero ritrovato non “vicino alla frontiera”, ma esattamente sulla frontiera. Me lo confermava un cartello arrugginito con su scritto “BELGIQUE”; voltandomi un momento, vidi che alle spalle avevo un cartello, ugualmente arrugginito, ma blu, con su scritto “FRANCE”.

Scesi di macchina tirandomi su il bavero del cappotto, perché si gelava. Ero completamente solo. Davanti a me, un bosco vagamente inquietante; per il resto, campi di terra grigia a perdita d’occhio. Solo nel plat pays di Jacques Brel, davanti a un piastrellificio che sembrava sortito dal nulla. Non una casa. Nemmeno un cane. Più che alla frontiera tra Francia e Belgio mi sembrava di stare alla frontiera dell’irreale; mi ci vollero cinque minuti e due sigarette fumate una dietro l’altra per rendermi conto che il capannone rettangolare era per metà da una parte e per metà dall’altra. Rimontai in macchina e entrai lentamente dentro il cancello.

Venni accolto da un signore molto gioviale e fatto entrare nel capannone. Non stavo sognando: quello era davvero un piastrellificio, e c’erano degli operai che stavano producendo piastrelle. C’erano dei macchinari in funzione. Andando verso gli uffici, non potei trattenermi dal fare la domanda fatidica: “Mi scusi”, chiesi al signore gioviale, “…ma ‘sta fabbrica…” Non mi fece neanche finire la domanda. “E’ in Francia e in Belgio. E’ in tutt’e due. E’ quello che mi chiedono tutti quando entrano la prima volta qui.” E si mise a ridere. “La vede l’impastatrice laggiù? E’ in Francia. E la fornace laggiù? E’ in Belgio.” E giù ancora risate. “Però le tasse le paghiamo in Belgio e basta, costa di meno”, è giù un’altra salva di risate. “La corrente elettrica è francese dell’EDF, quella belga non ci arriva. L’acqua invece è belga perché ci abbiamo l’allacciamento all’acquedotto di Tournai. Le linee telefoniche sono francesi, invece. Però ci abbiamo anche un numero belga.” E risate su risate. Gli uffici erano ricavati all’interno del capannone. Proprio sulla porta a vetri, c’era appiccicato con lo scotch un foglio di carta. Qualcuno, col pennarello blu, aveva fatto la frontiera. Mi misi a guardare.

Sempre ridendo, il signore gioviale mi spiegò la cosa in due parole: “Due anni fa è venuto un geometra francese a fare dei rilievi catastali e finalmente ha stabilito dove passa la frontiera dentro il capannone. E’ proprio qui. Ora entriamo negli uffici. L’ingresso è in Francia. La stanza dove la metto a lavorare al computer è in Francia. Se però le scappa da pisciare, deve andare in Belgio: il gabinetto è laggiù in fondo a quel corridoio. La macchinetta del caffè ha in Francia i bottoni del thè e del cappuccino, mentre quelli del caffè espresso e del caffè lungo sono in Belgio.” L’avevano sistemata esattamente davanti alla porta d’ingresso. Un caffè di frontiera. Ma di quelli sul serio.

Fui accompagnato nella stanza con il computer, dov’ero totalmente solo. C’era da fare la traduzione, urgente, delle istruzioni d’uso per un macchinario. Dal tedesco al francese. Cacciai fuori dallo zaino i dizionari e mi misi al lavoro; non c’era nemmeno bisogno di andare a scomodare qualcuno per farsi spiegare, perché i termini li conoscevo. Un’ora dopo, ecco arrivato il momento. Le dieci. Il bisognino di metà mattinata, puntuale come un orologio. Dovevo andare in Belgio. Insomma, al cesso. Uscii dalla stanza e mi avviai per il corridoio; dovetti passare la frontiera. Una frontiera inesistente. Come tutte le frontiere, del resto. Ma chi cavolo ce le ha messe? Sbrigandomi, perché la cosina cominciava a essere urgente, cominciai a fare uno di quei ragionamenti che non si spiegano mai a nessuno, una di quelle migliaia di cose che ogni giorni si dicono a se stesso, nella testa, e che non vengono mai fuori. Se inciampavo nella parte del corridoio prima della frontiera e mi slogavo una caviglia, doveva intervenire l’ambulanza dei più vicini pompieri francesi. Se inciampavo dopo, mi sarebbe toccato aspettare la croce rossa belga. Se ammazzavo il signore gioviale da una certa parte del corridoio, mi mettevano in gattabuia in Francia; se lo ammazzavo dall’altra parte, sarei andato in galera in Belgio. E se lo ammazzavo esattamente sulla linea di frontiera, davanti alla macchinetta del caffè? Forse sarebbe stato il delitto perfetto. Senza giurisdizione. Non avrebbero mai potuto squartarmi, mettere metà Venturi in una prigione belga e l’altra metà in una francese. Ogni essere umano è indivisibile. Peccato che si diverta a creare divisioni irreali. Linee immaginarie. Quel corridoio me lo fece capire definitivamente.

Finalmente entrai nel cesso. Mi misi a sedere sulla tazza. La liberazione! Si dice che Beethoven componesse sul vaso, ma mi mancava momentaneamente la carta da musica. C’era invece un rotolo di carta igienica grigia, e ruvidissima. Fu lì, guardando quel rotolo, che ebbi la rivelazione. Ero sul cesso del re.

Poco prima ero nell’ufficio di un presidente della repubblica. Sotto la giurisdizione di Jacques Chirac. Lavoravo sull’ultimo lembo del suo territorio. Della sua polizia. Dei suoi ordinamenti. Delle sue galere. Mi era scappato da cacare, e mi ero ritrovato nel cesso del re del Belgio (non ricordandomi come si chiamava quello attuale, ricorsi al defunto Baldovino). Sul primissimo lembo del suo territorio. Della sua polizia. Dei suoi ordinamenti. Delle sue galere. Traducevo in una repubblica e cacavo in una monarchia. Due stati differenti. Stati. La parola “stato” è una definizione assoluta. E’ il participio del verbo “essere”. Qualcosa che è e per la quale non si deve chiedere spiegazione, anche perché chiedersi il perché della sua esistenza è pericoloso. Minimo ti prendono per un sovversivo. Sovversivo è colui che chiede ragione di esistenze che non hanno nessun motivo di esistere.

Prima di pulirmi il culo e di tornare a tradurre in territorio francese, feci in tempo a pensare a tutte quelle frontiere piene di reticolati, di gente in armi, di muri invalicabili. Mi venne a mente l’immagine dei soldati tedeschi che abbattevano una barra di frontiera polacca la mattina del 1° settembre 1939. Richiusi la porta del cesso del re. Nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà.

martedì 5 giugno 2007

Treno


Dal vecchio blog "Da Galenzana", ma anche dal newsgroup di Guccini dove rappresentò, il 29 aprile 2006, l'ennesimo "ultimo post". Me ne sono "andato via" di frequente dal quel newsgroup, per poi tornarci regolarmente; vabbè. Ma è comunque il racconto di un addio, questo; a una città dove sono vissuto e che ho amato follemente, e a degli anni arruffati della mia vita. Un addio è sempre un nuovo inizio, ma non intendo fare saggezza da tre soldi bucati. Questo accadde su un treno, in un'alba di qualche anno fa.

Ecco una pagina bianca.
Una pagina bianca, ecco.

Le parole che la riempiranno parlano di un treno.
Saranno suddivise in paragrafi di poche righe ciascuno, di lunghezza irregolare.

Treno regionale toscano n° boh delle ore 6,05, in partenza dal primo binario per Firenze Santa Maria Novella. Previsto cambio a Pisa Centrale.

Addosso qualcosa che non ho più. In tasca pochi soldi prestati, e qualcosa che è in adesso in altre mani. Un vecchio libriccino con la copertina rossa. Nient'altro.

E mi metto a sedere in un vagone qualsiasi. E' ancora buio, o quasi buio. Il treno è vuoto. Alba di domenica 31 marzo 2002. Giorno di Pasqua.

Ho appena visto per l'ultima volta alcune strade della mia città. Di quella che per anni lo è stata. Di quella che non lo sarà mai più.

Non avrebbe senso tornarci a vivere. La vità è stata consegnata. Vi ha avuto il suo scorrere. Lento e veloce. Buffo e doloroso. Normale e folle. Ubriaco e sobrio.

Vive per sempre nella terra di confine tra il ricordo e la presenza. Mi è capitato di tornarci qualche volta, dopo. Immaginando sempre una cosa: camminarla nella notte. Come facevo.

Pochi minuti perché il treno arrivi a Pisa. Bisogna cambiare. Scendo. Mi rispecchio in ogni cosa. Ogni cosa mi canta una distruzione. Non ho niente, tranne l'oltre.

Una telefonata senza realtà. Chiamo per non so cosa. Si parla con astio di come far funzionare un computer. C'è altra gente che dorme. C'è e io non ci sono. Perché bisogna andare.

Lasciando in ostaggio cose e odori. Qualche mese dopo verranno smassate. Accatastate in un furgone. Portate via. Oplà, tutto svuotato. Chissà che c'è, ora. Chi ci sia, non me ne frega un cazzo.

Ed ecco l'altro treno. Uguale. La stessa inconfondibile e indefinibile metallica puzza di treno. Lo stesso vuoto. Mi tolgo le scarpe. Non fa giorno ancora.

Non ho mangiato nulla. Ho lo stomaco vuoto come un TIR di ritorno dalla Danimarca a Crotone. In preda a un'acidità terrificante.

Stendo le gambe sul sedile che mi sta davanti. Il treno si muove. Ecco. E' fatta. Non si torna più indietro. Non si può tornare. Lo scambio è attivato. Il bivio è percorso.

Mi dico che dovrei cercare di dormire un po'. Mi dico che è l'unico modo per cercare di sopravvivere a quel viaggio. Tasto la tasca. Il libriccino rosso. Il mio libriccino rosso. C'è.

Mi sveglio dopo un quarto d'ora d'un sonno finto. Ho la bocca impastata. Fuori, un'alba di pianura. Tutte le tonalità del grigio. Mi alzo. Vado in una latrina.

Acqua non potabile. Kein Trinkwasser. Adesivo slabbrato. La bevo lo stesso. Sa di treno pure quella. Mi sciacquo la faccia. C'è un pezzo di specchio. Una scena già vista.

Anni prima. Nove anni prima. Una mattina in uno specchio. Vidi un morto. Uno zombie. Decisi che non si poteva. Dopo qualche mese. Lì decisi immediatamente. Non si poteva.

Esco dalla latrina. Lascio la porta aperta. Vado dalla parte opposta di dov'ero a sedere prima. Sul sedile lascio un'ombra. Passo uno, due, tre vagoni. Tutti vuoti.

Mi metto a sedere quasi in cima al treno. Non voglio più dormire. Voglio stare sveglio. Voglio reintrodurre me stesso nello scorrere e nel divenire.

Il libriccino rosso è la continuità. E' la mia storia. Eu au un scăun gingaş. Un scăun gingaş? Ma come può una sedia essere "gentile"? Romeo, ma che ti è preso?

(Romeo, Romeo Lovera, è l'autore di quel libriccino. Grammatica della lingua romena. Edizioni Hoepli, Milano, 1914.

Rubato dalla biblioteca di un liceo classico nell'ottobre del 1977. Da lì, da quel gesto, sono cominciate molte cose.)

Non c'è nient'altro. Bisogna fare qualcosa. Dei gesti. Per quanto assurdi. Non c'è nessuno. L'assurdità può assurgere finalmente ad una delle sue più nobili funzioni.

Quella di rappresentare la vita in generale e una vita in particolare. Quella di essere al tempo stesso un primo simbolo di rigenerazione e uno sberleffo a ogni cosa. In primis a se stessi.

Torno nella latrina e prendo il rotolo della carta igienica "Ferrovie dello Stato". lo srotolo tutto tenendone un capo per una mano. Vado a un finestrino e lo apro.

Il treno percorre dei chilometri in un'alba di Pasqua con un festone di carta igienica a sventolare da un finestrino, tra La Rotta e Empoli. Faccio in tempo a chiedermi una cosa.

Se qualcuno lo veda. Se si domandi. Che cosa pensi. Che cosa intuisca o se s'interroghi moderatamente sbalordito. Se sarà un buffo aneddoto da raccontare a tavola.

Il vento sulla faccia. All'improvviso, di botto, sparisce l'acidità di stomaco. Sto sempre male. Ma sto anche pazzescamente, disperatamente bene.

Lascio andare la carta igienica che vola via, vola via volteggiando fino a depositarsi in un campo. Mi metto a saltellare battendo i piedi per terra fino quasi a farmeli dolorare.

Esattamente in quel momento passa il controllore. Forse a quell'ora dev'essere uso a gente strana. Biglietto per favore. E' quasi sorpreso che glielo dia per davvero. Gli fo un sorriso ebete.

Mi metto a sedere. Ora devo cantare qualcosa. Ne conoscerò di canzoni. Persino qualcuna adatta a quel momento. Quella che mi viene fuori è la seguente: l'inno della Fiorentina.

Garrisca al vento il labaro Viola, sui campi della sfida e del valore. Una speranza viva ci consola, abbiamo undici atleti e un solo cuore.

O Fiorentina, di ogni squadra ti vogliam regina. O Fiorentina, combatti ovunque ardita e con valor. Nell'ora di sconforto e di vittoria, ricorda che del calcio è tua la storia.

Nell'ora di sconforto e di vittoria. Stazione di Empoli. La Fiorentina sta scivolando in serie B. E l'Empoli vi sta salendo. Guardo Empoli con invidia.

Ecco qua a cosa pensa uno cui la vita è appena bascullata. Se in quel momento m'avessero messo davanti un piatto di merda con le cipolle avrei spazzolato pure quello.

E si arriva finalmente alla stazione di Firenze. C'è gente. Scendo. Sono le sette e mezzo passate. Ho compiuto il viaggio. Ne cominciano altri. Infiniti. Per sempre.

Heureux qui comme Ulysse a vu son paysage. Heureux qui comme Ulysse a fait un bon voyage. Et puis a retrouvé, après maintes traversées, le pays des vertes années.

Mi ritrovo in una vasca da bagno piena d'acqua calda. E' di nuovo tutto quanto da inventare. Di nuovo tutto quanto da fare. A disfarsi, a farsi, a ridisfarsi.

Sia così fino alla fine. Non chiedo perdono alle persone cui ho fatto del male. Detesto i perdoni. Vadano in culo. Fino alla fine. Ora sono qui, domani sarò altrove.

Mi dico a volte che è stato un bene che tutto ricominciasse su un treno. Su qualcosa in movimento. Che non si ferma, se non a qualche stazione. Poi riparte.

E quel pezzo di carta igienica si sia disfatto nel sole e nella pioggia. Sia diventato terra e erba. Quello che diventeremo tutti. Terra e erba. Fertile e sublime merda.

venerdì 25 maggio 2007

Quand 'riva el cald


Doveva prima o poi succede che anche questo blogghe vedesse il suo primo post originale. Diciamo semi-originale, perché in realtà l'ho già spedito anche sul newsgroup di Guccini (rispetto al quale contiene però un piccolo adattamento). Giorni di gran caldo, questi; il titolo proviene da una vecchia canzone in milanese di Ivan Della Mea.

Madonna che caldo in questi giorni! E quando arriva il caldo, in questa come in tutte le città si cominciano a vedere cose buffe, e divertenti.

Oggi, ad esempio, per andare in ufficio mi sono così abbigliato: maglietta blé con le alci canadesi; pantalonacci di tela leggerissima blé, sfoderati; sandaloni da crucco, senza calzini. Proprio loro. I famosi sandaloni da crucco sbeffeggiati qualche giorno fa da qualcuno sul newsgroup di Guccini, che li aveva visti in una foto della piola.

Una goduria. Nell'ufficiaccio dove lavoro (sapete, quello dove si producono missili e bombe atomiche) siamo in due soli, e con l'aria condizionata e il frigo per mettere l'acqua e la frutta fresca. Per andare a lavorare: treno intercity per Udine alle 9.27, fermate Firenze Campo Marte e Firenze Rifredi. 6 minuti e mezzo per farsi tutta la città, equivalenti a 35 minuti di autobus stracolmi o a oltre tre quarti d'ora di ingorghi in cancromobile.

Mi metto a sedere in uno scompartimento bello vuoto (ma chi cazzo volete che ci vada tutti i giorni a Udine alle 9.27), tiro fuori la settimana enigmistica, e non la faccio. Guardo dai finestrini, dato che il treno passa in mezzo alla città. Incroci e semafori con file agghiaccianti; motorini di merda; miasmi; nervi; cristi, madonne, ditinculo e berci. E io lì, tranquillo, nel treno vuoto che non adopera nessuno per muoversi in città.

Scendo alla stazione di Rifredi, faccio cinquanta metri a piedi e sono arrivato. Coi miei sandaloni da crucco, che fanno respirare i piedi alla perfezione (ci sarà pure qualche motivo perché i tedeschi siano un po' più intelligenti degli italiani; del resto, da quelle parti ci hanno la Frankfurter Allgemeine, e noi ci abbiamo La Repubblica).

Ora dovete sapere che proprio davanti all'ufficiaccio del Venturi, c'è la sede centrale di una banca. Oh, intendiamoci, mica è la Deutsche Bank o la Barclay's; è una banca locale del cazzo, di quelle già fagocitate, di quelle dei "pacchetti personalizzati" (per studenti, casalinghe, vecchi bavosi, ciccaioli, raccoglitori di tarzanelli, inculatori di formìcole & azzannatori di varani); però, a ore fisse, davanti all'ufficio mi passano schiere di fundzionàri e fundzionàrie, tutti belli & belle, giacchettine, camicine, cravatte, scarpozze di marca, taièr eccetera.

Non me li perdo, quand 'riva el cald. Passano lì a parlà de' mercati, de' conti pubblici e d'altre stronzate sulle quali magari s'illudono d'avere qualche influenza, poveri idioti, e l'unico risultato della loro vita da schiavi è quello di sudare. Perché sudano. Come bestie. Camicine inzaccherate. Miasmi ascellari. Fronti eczematose. Fazzoletti impregnati. Slippini fungiferi. Calzini aggorgonzolati. E io me ne sto lì, e guardo, e insieme a me ghignano anche le alci canadesi della maglietta.

Poi, a una cert'ora, se ne rimonteranno tutti quanti nelle loro belle scatolette per farsi qualche ora di traffico congestionato, sognando la doccia come un disperso nel Sahara sogna l'oasi. Sicuramente George Soros terrà in gran conto le loro vite. Ma prima di arrivare alla doccia ci sarà da togliere il bell'abbigliamento corretto, magari uccidendo sul posto la povera mogliettina e i bambini, stile Caryl Chessman nella camera a gas di San Quintino.

Sì, decisamente. Quand 'riva el cald si capisce l'importanza di essere comunista. L'importanza, e la comodità!

martedì 15 maggio 2007

Il tappo

Il primo post è una parte fondamentale della mia storia personale. Però modificata rispetto all'originale, che fu inserito sul newgsroup di Guccini il 30 gennaio 2001. La ragione della modifica è presto detta: una parte, quella finale, conteneva cose e dichiarazioni non vere, non realmente sentite. Una sorta di inesistente e vuoto hommage d'amour ad una persona che invece non amavo affatto. E' una cosa più che tipica delle mie debolezze storiche. Tale cosa è stata eliminata. Un'avvertenza: Si deve intendere il tutto come rivolto ai frequentatori di quel newsgroup, per una lettura minimamente corretta e comprensibile.

Mi devo prima scusare con Ada e con suo figlio.
Ada, ho letto quel che hai scritto, e forse ti sarai meravigliata che, fra tutti o quasi, proprio io non ti abbia risposto.
Ma sono uno che, o trova le parole, o sta zitto.
Per di più in certi momenti.
Spero solo che tu e Francesco riusciate a sentirmi vicino, perché lo sono.

E lo sono anche per quel che vado a raccontarti e a raccontarvi. Una cosa che mi è successa in questi giorni strani. Ho bisogno di tirarmela fuori definitivamente e, finalmente, di seppellirla.
Può darsi che le cose d'importanza capitale per qualcuno non lo siano per gli altri; ma scelgo di raccontare questa cosa pubblicamente, su questo newsgroup che, per una volta tanto ci terrei a dirlo senza mezzi termini, è veramente la mia seconda casa.
Una casa che ogni tanto lascio, senza dir niente o quasi.
Per andare a farmi qualche giro altrove.

Non sopporto più la solitudine.
M'è capitato di restar solo, per qualche giorno; prima era una condizione che quasi cercavo. Sono sempre stato, malgrado le apparenze, un solitario e un introverso della peggiore specie.
Ed è praticamente normale. Da un'isola vien fuori spesso gente del genere, gente spesso bravissima a farlo notar poco o punto.
Già da tempo la solitudine cominciava a restarmi estremamente pesante; e via via è diventata insopportabile.
Perché quando si è soli, anche fisicamente, i pensieri si moltiplicano a dismisura.
E i miei pensieri andavano sempre verso una cosa.
Una cosa che ho tentato a volte di raccontare senza mai riuscirci appieno.
Il tappo.

Devo aver scritto qualcosa, qui, dove parlavo delle mie "vite parallele". Difficile descrivere che cosa veramente è stato; talmente difficile che mi ero azzardato a scrivere solo delle cose estremamente vaghe.
Proverò stavolta ad essere molto chiaro; anche perché, lo ripeto, per me è un autentico atto di liberazione e, in ultima analisi, di guarigione.

Verso i quindici anni di età, ha cominciato a manifestarsi in me una cosa che, molto tempo dopo, è stata definita con un nome ben preciso: schizofrenia dissociativa con moltiplicazione delle personalità.
Credo che possiate capire bene tutti quanti di che cosa sto parlando.

Riprendo dieci minuti dopo l'ultima frase che ho scritto.
Non mi è semplice andare avanti, scusate.
In pratica, fin da ragazzo è come se avessi vissuto più vite tutte assieme.
Riuscivo a costruirmi nella mente dei sogni ad occhi aperti che, poi, regolarmente uscivano e diventavano come autentici.
A quindici o sedici anni si prende la cosa come una specie di gioco; è bello avere la capacità di assumere una diversa personalità e di renderla credibile, vera, quasi inoppugnabile.
Finché la coscienza si obnubila, ed allora quella costruzione scappa di mano; il sogno si confonde talmente con la realtà che non c'è più nessun confine, nessuna demarcazione, nessun appiglio.

C'era il Riccardo Venturi di sempre.
Quello che, tutto sommato, conoscete più o meno tutti. Quello che, in definitiva e fortunatamente, è sopravvissuto a tutto questo sconquasso della mente. Quello che è emerso dall'abisso in cui si era andato a cacciare.
Studiava come un matto perché voleva veramente riuscire a fare qualcosa d'importante; finché anche lo studio è stato come risucchiato nel gorgo.
In quelli che sono i miei campi ho in testa, e capirete che dico questo non certo per presunzione, le conoscenze non di una, ma di dieci persone diverse.
Le mie lingue le ho imparate spesso imponendomi di esserne un parlante nativo. Costruendomi ovviamente una vita autonoma. Un altro nome, un'altra famiglia, altri ideali, altro.
Ne ho imparate diciannove.
Per alcune la vita parallela è andata fino in fondo, e sono quelle che parlo meglio.
Per altre si è interrotta nel 1993. E sono quelle che parlo peggio.

Vi presento alcuni Riccardi Venturi degli anni che vanno dal 1979 al 1993.
Gli anni in cui, ad esempio, montavo su un taxi ed ero capace, nel breve volgere di una corsa, di stare a parlare con l'autista assumendo le sembianze di un camionista (una delle mie vite parallele preferite), di un rappresentante di preziosi (e avreste dovuto sentirmi con quale
competenza ne parlavo, comprese ovviamente la mia Mercedes blindata e i sei tentativi di rapina che avevo subito), di un giovane studente neozelandese in Italia (mi chiamavo Harry McCormick).

Vi presento il giovane teologo svedese (della Scania) Dag Nordenskjöld, "nato" quando Riccardo Venturi entrò nella Libreria Evangelica di Via Ricasoli, a Firenze, e si accorse che il commesso era per l'appunto svedese. Quale migliore occasione. In due minuti ero già diventato un
altro; e, per giunta, il commesso, che era del nord della Svezia, mi disse persino che avevo un terribile accento della Scania. Questo bastò per elevare Dag Nordenskjöld ad una vita parallela fissa. Come tale ho partecipato a feste e ho fatto parte persino, per circa un mese, del coro religioso della Chiesa Evangelica.

Vi presento anche Rainer Verlaufkamp, la cui personalità assumevo solo quando ero vestito abbastanza bene perché era un giovane uomo d'affari di Coblenza, in Germania. Si notino le iniziali, R V.
Rainer è stato il mio spaventoso opposto. Cinico, razzista, squalo, supersportivo, dotato di un senso innato degli affari e amante del lusso sfrenato.
Un giorno, senza motivo, Riccardo Venturi è uscito dall'università in autobus per andare all'aeroporto di Peretola. Lì è diventato Rainer Verlaufkamp ed ha chiamato un tassì per farsi portare alla svelta al Palazzo dei Congressi. Così.

All'università c'era Riccardo Venturi ortonimo. Ma sua madre era rigorosamente tedesca, di Essen. Mia madre si chiama Luciana Pasticci, è nata a Portoferraio (Isola d'Elba) il 16 ottobre del 1933.
C'era poi il fuoriuscito rumeno Radu Hainiceanu.
Una storia terribile alle spalle.
E il medico ungherese Sándor Vászonyi.
Sotto il quale, una volta, ho praticato un massaggio cardiaco e una respirazione artificiale ad un turista americano in via del Proconsolo, sempre a Firenze.
Cose che Riccardo Venturi, volontario sulle ambulanze fin dal 1978, sapeva fortunatamente fare.

Un giorno Riccardo Venturi è stato lasciato dalla fidanzata. Dopo oltre 14 anni. Era il 30 dicembre del 1992, un mercoledì. Le delusioni d'amore sono cose dure e dolorosissime. Il distacco forzato
da una persona che si è amato è un'esperienza terribile. Ma, certamente, non si tratta né di una malattia grave, né di morte di una persona cara, né di altra cosa irrimediabile.

Poteva essere qualsiasi altra cosa, anche meno grave.
E il castello è crollato. Si è afflosciato su se stesso.
Come doveva, d'altronde, essere.

E' cominciato il 1993. La prima parte passata tra illusioni, falsi rinnovi, un padrone di casa totalmente pazzo, due incidenti stradali, ubriacature, politica sempre meno vissuta, ed una coscienza che comunque tornava faticosamente a farsi strada.

Ma il 24 giugno 1993 quelle illusioni crollano definitivamente. Il distacco definitivo.

Ed ecco quel che è successo.

Mi getto in macchina e vado da una mia amica. Comincio a non ricordarmi più nulla, ma mi rendo conto che questa mia amica telefona a casa mia preoccupatissima. Scappo.
In una traversa di Piazza della Signoria busso da un altro mio amico, Donato.
Franco Senia, te ne ricorderai certamente.
E' quel ragazzo che incontrai sulla terrazza di casa tua, per caso,
durante il Capodanno del 2000.
Forse riuscirai ad immaginarti, ora, che cosa mi ha riportato alla mente.
E anche cosa ho passato per non far trapelare niente in quel momento.

Non mi ricordo più nulla fino alla mattina dopo, a parte gli scoppi dei fuochi d'artificio perché era la sera di San Giovanni.

La mattina del 25 giugno 1993 sto camminando, già ubriaco alle 10, nel viale Spartaco Lavagnini.
Succede una cosa.
Un gatto agonizzante sulla strada, vicinissimo al marciapiede.
Un gattone grigio tigrato.
Muove disperatamente una zampa come per chiedere aiuto.
Mi avvicino per tirarlo fuori di lì, ma proprio in quel momento arriva una macchina.
E gli schiaccia la testa.
Sangue e cervello sulle gambe.
Ero in pantaloni corti.

E' il crollo.
Da quel momento comincia una specie di "buco nero". Dieci giorni cancellati.
Siamo sul newsgroup di Francesco Guccini, e quante volte sento citare ed ho citato quel verso di "Lettera": E il tempo, il tempo chi me lo rende.
Ecco, appunto.
Non so chi mi renderà mai dieci giorni della mia vita.
Non è in fondo grave, potreste dire.
C'è a chi vengono cancellati anni e anni. In una cella d'un carcere, ad esempio; o in un fondo di letto d'ospedale.
E' vero, non posso dir nulla.
Ma sono sempre dieci giorni che non ho più trovato per anni e anni.

A parte dei flash improvvisi.

Mi rivedo uno di quei giorni, a Siena, con ancora addosso gli stessi vestiti sporchi. Sono seduto per terra in Piazza San Domenico, davanti all'ingresso dello Stadio del Rastrello. Sto bevendo una lattina di birra.
Come ci sarò arrivato, a Siena?
Chi me li avrà dati i soldi per la birra, visto che il 25 giugno avrò avuto duemila lire in tasca ed ero senza documenti?

Mi rivedo a Livorno, alle due d'un pomeriggio torrido, girare per una strada anonima vicino alla Stazione.
Via Bernardo Prato, si chiama.
Ho ancora addosso quei vestiti, sempre più sporchi.
Come ci sarò arrivato, a Livorno?
In treno? Avrò avuto un biglietto? Mi sarò nascosto nel cesso?
Non mi ricordo nulla.

La sera del 4 luglio 1993, all'improvviso, mi risveglio. Non so come definire meglio la cosa.
Sono a Firenze, in Borgo Santissimi Apostoli, a sedere sugli scalini di un palazzo.
Mi alzo in piedi e comincio a toccarmi.
La prima cosa che sento è una bambina che dice a sua madre: "Mamma, guarda quello lì". E la mamma risponde: "Vieni via, sbrigati".

Puzzo come un porcile.
Riesco a stabilire che mi sono cacato più volte addosso.
Ho un ronzio tremendo nelle orecchie.
Un anziano si avvicina per chiedermi se ho bisogno di aiuto, ed io gli rispondo di sì.
Arriva un'ambulanza della Fratellanza Militare di Piazza Santa Maria Novella.
Vengo portato al pronto soccorso di Santa Maria Nuova.

Cognome: Venturi
Nome: Riccardo
Età: Ci penso. 31 anni.
Residenza: Non me ne ricordo.
Professione: Filologo germanico.

Così proprio gli dissi: filologo germanico. Non mi ricordavo dove abitavo. Mi ricordavo che ero un filologo germanico.
Che non era neppure il mio lavoro, poi.
Non è quasi mai stato il mio lavoro.

I miei mi stavano cercando in ogni dove. Non esisteva ancora "Chi l'ha Visto", altrimenti ne sarei stato sicuramente "ospite".
L'unico che mi sentii di vedere fu mio fratello.

Pesavo settantasette chili.
Chi mi ha presente, mi immagini di settantasette chili.

Il camionista, il rappresentante di preziosi, il teologo svedese, l'uomo d'affari tedesco, il profugo rumeno, il medico ungherese; tutti morti. Restava solo una carcassa di settantasette chili chiamata Riccardo Venturi.

Quello che fu spedito immediatamente da uno psicanalista che s'occupò di districare la sua mente, avvertendolo che la cosa non sarebbe stata per nulla facile. Quello che, come parte integrante della terapia, si fece dare delle lezioni di islandese. L'islandese come punto fermo nella mia vita, perché andavano cercati e ricostruiti i punti fermi. Avete la facoltà di sorridere o ridere, se volete.
Quello che custodisce tutti i miei segreti, le mie disperazioni, le mie speranze, le mie cose più nascoste, i miei deliri, il mio cammino, la mia ricostruzione.
Quello che mi disse, alla fine: Riccardo, ti conosco. Un giorno queste cose le scriverai da qualche parte.
Gli risposi: Non credo, dottore. Io non so scrivere.

Gli devo tutto, e vorrei, se potessi, fare il suo nome.
Ma non posso.

Nel febbraio del 1994 alcuni studi di traduzione e interpretariato videro comparire uno spilungone allampanato con barba e occhialetti tondi che veniva a proporre i suoi servigi dichiarando di "conoscere molte lingue". Mi ricordo i sorrisetti decisamente scettici. Però poi mi mettevano alla prova pratica, e i sorrisetti scomparivano.

Le avrei, forse, dovute dire prima queste cose.
Avrei dovuto dirvi di questo mio essere plurale, di questo mio vagare continuamente senza meta restando sempre nello stesso posto.
A voi, che mi siete amici.
Alcuni di voi, sicuramente, i primi autentici amici che io abbia mai avuto in vita mia.
E' giusto che le sappiate, anche se magari non le considererete così importanti. Anche se non sarete arrivati in fondo a questa strana cosa.
E' giusto che abbiate davanti una persona che non nasconde e non vuole nascondere mai più nulla.

Saluti a tutti e un abbraccio.

Il tappo è saltato.