Una pagina bianca, ecco.
Le parole che la riempiranno parlano di un treno.
Saranno suddivise in paragrafi di poche righe ciascuno, di lunghezza irregolare.
Treno regionale toscano n° boh delle ore 6,05, in partenza dal primo binario per Firenze Santa Maria Novella. Previsto cambio a Pisa Centrale.
Addosso qualcosa che non ho più. In tasca pochi soldi prestati, e qualcosa che è in adesso in altre mani. Un vecchio libriccino con la copertina rossa. Nient'altro.
E mi metto a sedere in un vagone qualsiasi. E' ancora buio, o quasi buio. Il treno è vuoto. Alba di domenica 31 marzo 2002. Giorno di Pasqua.
Ho appena visto per l'ultima volta alcune strade della mia città. Di quella che per anni lo è stata. Di quella che non lo sarà mai più.
Non avrebbe senso tornarci a vivere. La vità è stata consegnata. Vi ha avuto il suo scorrere. Lento e veloce. Buffo e doloroso. Normale e folle. Ubriaco e sobrio.
Vive per sempre nella terra di confine tra il ricordo e la presenza. Mi è capitato di tornarci qualche volta, dopo. Immaginando sempre una cosa: camminarla nella notte. Come facevo.
Pochi minuti perché il treno arrivi a Pisa. Bisogna cambiare. Scendo. Mi rispecchio in ogni cosa. Ogni cosa mi canta una distruzione. Non ho niente, tranne l'oltre.
Una telefonata senza realtà. Chiamo per non so cosa. Si parla con astio di come far funzionare un computer. C'è altra gente che dorme. C'è e io non ci sono. Perché bisogna andare.
Lasciando in ostaggio cose e odori. Qualche mese dopo verranno smassate. Accatastate in un furgone. Portate via. Oplà, tutto svuotato. Chissà che c'è, ora. Chi ci sia, non me ne frega un cazzo.
Ed ecco l'altro treno. Uguale. La stessa inconfondibile e indefinibile metallica puzza di treno. Lo stesso vuoto. Mi tolgo le scarpe. Non fa giorno ancora.
Non ho mangiato nulla. Ho lo stomaco vuoto come un TIR di ritorno dalla Danimarca a Crotone. In preda a un'acidità terrificante.
Stendo le gambe sul sedile che mi sta davanti. Il treno si muove. Ecco. E' fatta. Non si torna più indietro. Non si può tornare. Lo scambio è attivato. Il bivio è percorso.
Mi dico che dovrei cercare di dormire un po'. Mi dico che è l'unico modo per cercare di sopravvivere a quel viaggio. Tasto la tasca. Il libriccino rosso. Il mio libriccino rosso. C'è.
Mi sveglio dopo un quarto d'ora d'un sonno finto. Ho la bocca impastata. Fuori, un'alba di pianura. Tutte le tonalità del grigio. Mi alzo. Vado in una latrina.
Acqua non potabile. Kein Trinkwasser. Adesivo slabbrato. La bevo lo stesso. Sa di treno pure quella. Mi sciacquo la faccia. C'è un pezzo di specchio. Una scena già vista.
Anni prima. Nove anni prima. Una mattina in uno specchio. Vidi un morto. Uno zombie. Decisi che non si poteva. Dopo qualche mese. Lì decisi immediatamente. Non si poteva.
Esco dalla latrina. Lascio la porta aperta. Vado dalla parte opposta di dov'ero a sedere prima. Sul sedile lascio un'ombra. Passo uno, due, tre vagoni. Tutti vuoti.
Mi metto a sedere quasi in cima al treno. Non voglio più dormire. Voglio stare sveglio. Voglio reintrodurre me stesso nello scorrere e nel divenire.
Il libriccino rosso è la continuità. E' la mia storia. Eu au un scăun gingaş. Un scăun gingaş? Ma come può una sedia essere "gentile"? Romeo, ma che ti è preso?
(Romeo, Romeo Lovera, è l'autore di quel libriccino. Grammatica della lingua romena. Edizioni Hoepli, Milano, 1914.
Rubato dalla biblioteca di un liceo classico nell'ottobre del 1977. Da lì, da quel gesto, sono cominciate molte cose.)
Non c'è nient'altro. Bisogna fare qualcosa. Dei gesti. Per quanto assurdi. Non c'è nessuno. L'assurdità può assurgere finalmente ad una delle sue più nobili funzioni.
Quella di rappresentare la vita in generale e una vita in particolare. Quella di essere al tempo stesso un primo simbolo di rigenerazione e uno sberleffo a ogni cosa. In primis a se stessi.
Torno nella latrina e prendo il rotolo della carta igienica "Ferrovie dello Stato". lo srotolo tutto tenendone un capo per una mano. Vado a un finestrino e lo apro.
Il treno percorre dei chilometri in un'alba di Pasqua con un festone di carta igienica a sventolare da un finestrino, tra La Rotta e Empoli. Faccio in tempo a chiedermi una cosa.
Se qualcuno lo veda. Se si domandi. Che cosa pensi. Che cosa intuisca o se s'interroghi moderatamente sbalordito. Se sarà un buffo aneddoto da raccontare a tavola.
Il vento sulla faccia. All'improvviso, di botto, sparisce l'acidità di stomaco. Sto sempre male. Ma sto anche pazzescamente, disperatamente bene.
Lascio andare la carta igienica che vola via, vola via volteggiando fino a depositarsi in un campo. Mi metto a saltellare battendo i piedi per terra fino quasi a farmeli dolorare.
Esattamente in quel momento passa il controllore. Forse a quell'ora dev'essere uso a gente strana. Biglietto per favore. E' quasi sorpreso che glielo dia per davvero. Gli fo un sorriso ebete.
Mi metto a sedere. Ora devo cantare qualcosa. Ne conoscerò di canzoni. Persino qualcuna adatta a quel momento. Quella che mi viene fuori è la seguente: l'inno della Fiorentina.
Garrisca al vento il labaro Viola, sui campi della sfida e del valore. Una speranza viva ci consola, abbiamo undici atleti e un solo cuore.
O Fiorentina, di ogni squadra ti vogliam regina. O Fiorentina, combatti ovunque ardita e con valor. Nell'ora di sconforto e di vittoria, ricorda che del calcio è tua la storia.
Nell'ora di sconforto e di vittoria. Stazione di Empoli. La Fiorentina sta scivolando in serie B. E l'Empoli vi sta salendo. Guardo Empoli con invidia.
Ecco qua a cosa pensa uno cui la vita è appena bascullata. Se in quel momento m'avessero messo davanti un piatto di merda con le cipolle avrei spazzolato pure quello.
E si arriva finalmente alla stazione di Firenze. C'è gente. Scendo. Sono le sette e mezzo passate. Ho compiuto il viaggio. Ne cominciano altri. Infiniti. Per sempre.
Heureux qui comme Ulysse a vu son paysage. Heureux qui comme Ulysse a fait un bon voyage. Et puis a retrouvé, après maintes traversées, le pays des vertes années.
Mi ritrovo in una vasca da bagno piena d'acqua calda. E' di nuovo tutto quanto da inventare. Di nuovo tutto quanto da fare. A disfarsi, a farsi, a ridisfarsi.
Sia così fino alla fine. Non chiedo perdono alle persone cui ho fatto del male. Detesto i perdoni. Vadano in culo. Fino alla fine. Ora sono qui, domani sarò altrove.
Mi dico a volte che è stato un bene che tutto ricominciasse su un treno. Su qualcosa in movimento. Che non si ferma, se non a qualche stazione. Poi riparte.
E quel pezzo di carta igienica si sia disfatto nel sole e nella pioggia. Sia diventato terra e erba. Quello che diventeremo tutti. Terra e erba. Fertile e sublime merda.
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