martedì 15 maggio 2007
Il tappo
Il primo post è una parte fondamentale della mia storia personale. Però modificata rispetto all'originale, che fu inserito sul newgsroup di Guccini il 30 gennaio 2001. La ragione della modifica è presto detta: una parte, quella finale, conteneva cose e dichiarazioni non vere, non realmente sentite. Una sorta di inesistente e vuoto hommage d'amour ad una persona che invece non amavo affatto. E' una cosa più che tipica delle mie debolezze storiche. Tale cosa è stata eliminata. Un'avvertenza: Si deve intendere il tutto come rivolto ai frequentatori di quel newsgroup, per una lettura minimamente corretta e comprensibile.
Mi devo prima scusare con Ada e con suo figlio.
Ada, ho letto quel che hai scritto, e forse ti sarai meravigliata che, fra tutti o quasi, proprio io non ti abbia risposto.
Ma sono uno che, o trova le parole, o sta zitto.
Per di più in certi momenti.
Spero solo che tu e Francesco riusciate a sentirmi vicino, perché lo sono.
E lo sono anche per quel che vado a raccontarti e a raccontarvi. Una cosa che mi è successa in questi giorni strani. Ho bisogno di tirarmela fuori definitivamente e, finalmente, di seppellirla.
Può darsi che le cose d'importanza capitale per qualcuno non lo siano per gli altri; ma scelgo di raccontare questa cosa pubblicamente, su questo newsgroup che, per una volta tanto ci terrei a dirlo senza mezzi termini, è veramente la mia seconda casa.
Una casa che ogni tanto lascio, senza dir niente o quasi.
Per andare a farmi qualche giro altrove.
Non sopporto più la solitudine.
M'è capitato di restar solo, per qualche giorno; prima era una condizione che quasi cercavo. Sono sempre stato, malgrado le apparenze, un solitario e un introverso della peggiore specie.
Ed è praticamente normale. Da un'isola vien fuori spesso gente del genere, gente spesso bravissima a farlo notar poco o punto.
Già da tempo la solitudine cominciava a restarmi estremamente pesante; e via via è diventata insopportabile.
Perché quando si è soli, anche fisicamente, i pensieri si moltiplicano a dismisura.
E i miei pensieri andavano sempre verso una cosa.
Una cosa che ho tentato a volte di raccontare senza mai riuscirci appieno.
Il tappo.
Devo aver scritto qualcosa, qui, dove parlavo delle mie "vite parallele". Difficile descrivere che cosa veramente è stato; talmente difficile che mi ero azzardato a scrivere solo delle cose estremamente vaghe.
Proverò stavolta ad essere molto chiaro; anche perché, lo ripeto, per me è un autentico atto di liberazione e, in ultima analisi, di guarigione.
Verso i quindici anni di età, ha cominciato a manifestarsi in me una cosa che, molto tempo dopo, è stata definita con un nome ben preciso: schizofrenia dissociativa con moltiplicazione delle personalità.
Credo che possiate capire bene tutti quanti di che cosa sto parlando.
Riprendo dieci minuti dopo l'ultima frase che ho scritto.
Non mi è semplice andare avanti, scusate.
In pratica, fin da ragazzo è come se avessi vissuto più vite tutte assieme.
Riuscivo a costruirmi nella mente dei sogni ad occhi aperti che, poi, regolarmente uscivano e diventavano come autentici.
A quindici o sedici anni si prende la cosa come una specie di gioco; è bello avere la capacità di assumere una diversa personalità e di renderla credibile, vera, quasi inoppugnabile.
Finché la coscienza si obnubila, ed allora quella costruzione scappa di mano; il sogno si confonde talmente con la realtà che non c'è più nessun confine, nessuna demarcazione, nessun appiglio.
C'era il Riccardo Venturi di sempre.
Quello che, tutto sommato, conoscete più o meno tutti. Quello che, in definitiva e fortunatamente, è sopravvissuto a tutto questo sconquasso della mente. Quello che è emerso dall'abisso in cui si era andato a cacciare.
Studiava come un matto perché voleva veramente riuscire a fare qualcosa d'importante; finché anche lo studio è stato come risucchiato nel gorgo.
In quelli che sono i miei campi ho in testa, e capirete che dico questo non certo per presunzione, le conoscenze non di una, ma di dieci persone diverse.
Le mie lingue le ho imparate spesso imponendomi di esserne un parlante nativo. Costruendomi ovviamente una vita autonoma. Un altro nome, un'altra famiglia, altri ideali, altro.
Ne ho imparate diciannove.
Per alcune la vita parallela è andata fino in fondo, e sono quelle che parlo meglio.
Per altre si è interrotta nel 1993. E sono quelle che parlo peggio.
Vi presento alcuni Riccardi Venturi degli anni che vanno dal 1979 al 1993.
Gli anni in cui, ad esempio, montavo su un taxi ed ero capace, nel breve volgere di una corsa, di stare a parlare con l'autista assumendo le sembianze di un camionista (una delle mie vite parallele preferite), di un rappresentante di preziosi (e avreste dovuto sentirmi con quale
competenza ne parlavo, comprese ovviamente la mia Mercedes blindata e i sei tentativi di rapina che avevo subito), di un giovane studente neozelandese in Italia (mi chiamavo Harry McCormick).
Vi presento il giovane teologo svedese (della Scania) Dag Nordenskjöld, "nato" quando Riccardo Venturi entrò nella Libreria Evangelica di Via Ricasoli, a Firenze, e si accorse che il commesso era per l'appunto svedese. Quale migliore occasione. In due minuti ero già diventato un
altro; e, per giunta, il commesso, che era del nord della Svezia, mi disse persino che avevo un terribile accento della Scania. Questo bastò per elevare Dag Nordenskjöld ad una vita parallela fissa. Come tale ho partecipato a feste e ho fatto parte persino, per circa un mese, del coro religioso della Chiesa Evangelica.
Vi presento anche Rainer Verlaufkamp, la cui personalità assumevo solo quando ero vestito abbastanza bene perché era un giovane uomo d'affari di Coblenza, in Germania. Si notino le iniziali, R V.
Rainer è stato il mio spaventoso opposto. Cinico, razzista, squalo, supersportivo, dotato di un senso innato degli affari e amante del lusso sfrenato.
Un giorno, senza motivo, Riccardo Venturi è uscito dall'università in autobus per andare all'aeroporto di Peretola. Lì è diventato Rainer Verlaufkamp ed ha chiamato un tassì per farsi portare alla svelta al Palazzo dei Congressi. Così.
All'università c'era Riccardo Venturi ortonimo. Ma sua madre era rigorosamente tedesca, di Essen. Mia madre si chiama Luciana Pasticci, è nata a Portoferraio (Isola d'Elba) il 16 ottobre del 1933.
C'era poi il fuoriuscito rumeno Radu Hainiceanu.
Una storia terribile alle spalle.
E il medico ungherese Sándor Vászonyi.
Sotto il quale, una volta, ho praticato un massaggio cardiaco e una respirazione artificiale ad un turista americano in via del Proconsolo, sempre a Firenze.
Cose che Riccardo Venturi, volontario sulle ambulanze fin dal 1978, sapeva fortunatamente fare.
Un giorno Riccardo Venturi è stato lasciato dalla fidanzata. Dopo oltre 14 anni. Era il 30 dicembre del 1992, un mercoledì. Le delusioni d'amore sono cose dure e dolorosissime. Il distacco forzato
da una persona che si è amato è un'esperienza terribile. Ma, certamente, non si tratta né di una malattia grave, né di morte di una persona cara, né di altra cosa irrimediabile.
Poteva essere qualsiasi altra cosa, anche meno grave.
E il castello è crollato. Si è afflosciato su se stesso.
Come doveva, d'altronde, essere.
E' cominciato il 1993. La prima parte passata tra illusioni, falsi rinnovi, un padrone di casa totalmente pazzo, due incidenti stradali, ubriacature, politica sempre meno vissuta, ed una coscienza che comunque tornava faticosamente a farsi strada.
Ma il 24 giugno 1993 quelle illusioni crollano definitivamente. Il distacco definitivo.
Ed ecco quel che è successo.
Mi getto in macchina e vado da una mia amica. Comincio a non ricordarmi più nulla, ma mi rendo conto che questa mia amica telefona a casa mia preoccupatissima. Scappo.
In una traversa di Piazza della Signoria busso da un altro mio amico, Donato.
Franco Senia, te ne ricorderai certamente.
E' quel ragazzo che incontrai sulla terrazza di casa tua, per caso,
durante il Capodanno del 2000.
Forse riuscirai ad immaginarti, ora, che cosa mi ha riportato alla mente.
E anche cosa ho passato per non far trapelare niente in quel momento.
Non mi ricordo più nulla fino alla mattina dopo, a parte gli scoppi dei fuochi d'artificio perché era la sera di San Giovanni.
La mattina del 25 giugno 1993 sto camminando, già ubriaco alle 10, nel viale Spartaco Lavagnini.
Succede una cosa.
Un gatto agonizzante sulla strada, vicinissimo al marciapiede.
Un gattone grigio tigrato.
Muove disperatamente una zampa come per chiedere aiuto.
Mi avvicino per tirarlo fuori di lì, ma proprio in quel momento arriva una macchina.
E gli schiaccia la testa.
Sangue e cervello sulle gambe.
Ero in pantaloni corti.
E' il crollo.
Da quel momento comincia una specie di "buco nero". Dieci giorni cancellati.
Siamo sul newsgroup di Francesco Guccini, e quante volte sento citare ed ho citato quel verso di "Lettera": E il tempo, il tempo chi me lo rende.
Ecco, appunto.
Non so chi mi renderà mai dieci giorni della mia vita.
Non è in fondo grave, potreste dire.
C'è a chi vengono cancellati anni e anni. In una cella d'un carcere, ad esempio; o in un fondo di letto d'ospedale.
E' vero, non posso dir nulla.
Ma sono sempre dieci giorni che non ho più trovato per anni e anni.
A parte dei flash improvvisi.
Mi rivedo uno di quei giorni, a Siena, con ancora addosso gli stessi vestiti sporchi. Sono seduto per terra in Piazza San Domenico, davanti all'ingresso dello Stadio del Rastrello. Sto bevendo una lattina di birra.
Come ci sarò arrivato, a Siena?
Chi me li avrà dati i soldi per la birra, visto che il 25 giugno avrò avuto duemila lire in tasca ed ero senza documenti?
Mi rivedo a Livorno, alle due d'un pomeriggio torrido, girare per una strada anonima vicino alla Stazione.
Via Bernardo Prato, si chiama.
Ho ancora addosso quei vestiti, sempre più sporchi.
Come ci sarò arrivato, a Livorno?
In treno? Avrò avuto un biglietto? Mi sarò nascosto nel cesso?
Non mi ricordo nulla.
La sera del 4 luglio 1993, all'improvviso, mi risveglio. Non so come definire meglio la cosa.
Sono a Firenze, in Borgo Santissimi Apostoli, a sedere sugli scalini di un palazzo.
Mi alzo in piedi e comincio a toccarmi.
La prima cosa che sento è una bambina che dice a sua madre: "Mamma, guarda quello lì". E la mamma risponde: "Vieni via, sbrigati".
Puzzo come un porcile.
Riesco a stabilire che mi sono cacato più volte addosso.
Ho un ronzio tremendo nelle orecchie.
Un anziano si avvicina per chiedermi se ho bisogno di aiuto, ed io gli rispondo di sì.
Arriva un'ambulanza della Fratellanza Militare di Piazza Santa Maria Novella.
Vengo portato al pronto soccorso di Santa Maria Nuova.
Cognome: Venturi
Nome: Riccardo
Età: Ci penso. 31 anni.
Residenza: Non me ne ricordo.
Professione: Filologo germanico.
Così proprio gli dissi: filologo germanico. Non mi ricordavo dove abitavo. Mi ricordavo che ero un filologo germanico.
Che non era neppure il mio lavoro, poi.
Non è quasi mai stato il mio lavoro.
I miei mi stavano cercando in ogni dove. Non esisteva ancora "Chi l'ha Visto", altrimenti ne sarei stato sicuramente "ospite".
L'unico che mi sentii di vedere fu mio fratello.
Pesavo settantasette chili.
Chi mi ha presente, mi immagini di settantasette chili.
Il camionista, il rappresentante di preziosi, il teologo svedese, l'uomo d'affari tedesco, il profugo rumeno, il medico ungherese; tutti morti. Restava solo una carcassa di settantasette chili chiamata Riccardo Venturi.
Quello che fu spedito immediatamente da uno psicanalista che s'occupò di districare la sua mente, avvertendolo che la cosa non sarebbe stata per nulla facile. Quello che, come parte integrante della terapia, si fece dare delle lezioni di islandese. L'islandese come punto fermo nella mia vita, perché andavano cercati e ricostruiti i punti fermi. Avete la facoltà di sorridere o ridere, se volete.
Quello che custodisce tutti i miei segreti, le mie disperazioni, le mie speranze, le mie cose più nascoste, i miei deliri, il mio cammino, la mia ricostruzione.
Quello che mi disse, alla fine: Riccardo, ti conosco. Un giorno queste cose le scriverai da qualche parte.
Gli risposi: Non credo, dottore. Io non so scrivere.
Gli devo tutto, e vorrei, se potessi, fare il suo nome.
Ma non posso.
Nel febbraio del 1994 alcuni studi di traduzione e interpretariato videro comparire uno spilungone allampanato con barba e occhialetti tondi che veniva a proporre i suoi servigi dichiarando di "conoscere molte lingue". Mi ricordo i sorrisetti decisamente scettici. Però poi mi mettevano alla prova pratica, e i sorrisetti scomparivano.
Le avrei, forse, dovute dire prima queste cose.
Avrei dovuto dirvi di questo mio essere plurale, di questo mio vagare continuamente senza meta restando sempre nello stesso posto.
A voi, che mi siete amici.
Alcuni di voi, sicuramente, i primi autentici amici che io abbia mai avuto in vita mia.
E' giusto che le sappiate, anche se magari non le considererete così importanti. Anche se non sarete arrivati in fondo a questa strana cosa.
E' giusto che abbiate davanti una persona che non nasconde e non vuole nascondere mai più nulla.
Saluti a tutti e un abbraccio.
Il tappo è saltato.
Mi devo prima scusare con Ada e con suo figlio.
Ada, ho letto quel che hai scritto, e forse ti sarai meravigliata che, fra tutti o quasi, proprio io non ti abbia risposto.
Ma sono uno che, o trova le parole, o sta zitto.
Per di più in certi momenti.
Spero solo che tu e Francesco riusciate a sentirmi vicino, perché lo sono.
E lo sono anche per quel che vado a raccontarti e a raccontarvi. Una cosa che mi è successa in questi giorni strani. Ho bisogno di tirarmela fuori definitivamente e, finalmente, di seppellirla.
Può darsi che le cose d'importanza capitale per qualcuno non lo siano per gli altri; ma scelgo di raccontare questa cosa pubblicamente, su questo newsgroup che, per una volta tanto ci terrei a dirlo senza mezzi termini, è veramente la mia seconda casa.
Una casa che ogni tanto lascio, senza dir niente o quasi.
Per andare a farmi qualche giro altrove.
Non sopporto più la solitudine.
M'è capitato di restar solo, per qualche giorno; prima era una condizione che quasi cercavo. Sono sempre stato, malgrado le apparenze, un solitario e un introverso della peggiore specie.
Ed è praticamente normale. Da un'isola vien fuori spesso gente del genere, gente spesso bravissima a farlo notar poco o punto.
Già da tempo la solitudine cominciava a restarmi estremamente pesante; e via via è diventata insopportabile.
Perché quando si è soli, anche fisicamente, i pensieri si moltiplicano a dismisura.
E i miei pensieri andavano sempre verso una cosa.
Una cosa che ho tentato a volte di raccontare senza mai riuscirci appieno.
Il tappo.
Devo aver scritto qualcosa, qui, dove parlavo delle mie "vite parallele". Difficile descrivere che cosa veramente è stato; talmente difficile che mi ero azzardato a scrivere solo delle cose estremamente vaghe.
Proverò stavolta ad essere molto chiaro; anche perché, lo ripeto, per me è un autentico atto di liberazione e, in ultima analisi, di guarigione.
Verso i quindici anni di età, ha cominciato a manifestarsi in me una cosa che, molto tempo dopo, è stata definita con un nome ben preciso: schizofrenia dissociativa con moltiplicazione delle personalità.
Credo che possiate capire bene tutti quanti di che cosa sto parlando.
Riprendo dieci minuti dopo l'ultima frase che ho scritto.
Non mi è semplice andare avanti, scusate.
In pratica, fin da ragazzo è come se avessi vissuto più vite tutte assieme.
Riuscivo a costruirmi nella mente dei sogni ad occhi aperti che, poi, regolarmente uscivano e diventavano come autentici.
A quindici o sedici anni si prende la cosa come una specie di gioco; è bello avere la capacità di assumere una diversa personalità e di renderla credibile, vera, quasi inoppugnabile.
Finché la coscienza si obnubila, ed allora quella costruzione scappa di mano; il sogno si confonde talmente con la realtà che non c'è più nessun confine, nessuna demarcazione, nessun appiglio.
C'era il Riccardo Venturi di sempre.
Quello che, tutto sommato, conoscete più o meno tutti. Quello che, in definitiva e fortunatamente, è sopravvissuto a tutto questo sconquasso della mente. Quello che è emerso dall'abisso in cui si era andato a cacciare.
Studiava come un matto perché voleva veramente riuscire a fare qualcosa d'importante; finché anche lo studio è stato come risucchiato nel gorgo.
In quelli che sono i miei campi ho in testa, e capirete che dico questo non certo per presunzione, le conoscenze non di una, ma di dieci persone diverse.
Le mie lingue le ho imparate spesso imponendomi di esserne un parlante nativo. Costruendomi ovviamente una vita autonoma. Un altro nome, un'altra famiglia, altri ideali, altro.
Ne ho imparate diciannove.
Per alcune la vita parallela è andata fino in fondo, e sono quelle che parlo meglio.
Per altre si è interrotta nel 1993. E sono quelle che parlo peggio.
Vi presento alcuni Riccardi Venturi degli anni che vanno dal 1979 al 1993.
Gli anni in cui, ad esempio, montavo su un taxi ed ero capace, nel breve volgere di una corsa, di stare a parlare con l'autista assumendo le sembianze di un camionista (una delle mie vite parallele preferite), di un rappresentante di preziosi (e avreste dovuto sentirmi con quale
competenza ne parlavo, comprese ovviamente la mia Mercedes blindata e i sei tentativi di rapina che avevo subito), di un giovane studente neozelandese in Italia (mi chiamavo Harry McCormick).
Vi presento il giovane teologo svedese (della Scania) Dag Nordenskjöld, "nato" quando Riccardo Venturi entrò nella Libreria Evangelica di Via Ricasoli, a Firenze, e si accorse che il commesso era per l'appunto svedese. Quale migliore occasione. In due minuti ero già diventato un
altro; e, per giunta, il commesso, che era del nord della Svezia, mi disse persino che avevo un terribile accento della Scania. Questo bastò per elevare Dag Nordenskjöld ad una vita parallela fissa. Come tale ho partecipato a feste e ho fatto parte persino, per circa un mese, del coro religioso della Chiesa Evangelica.
Vi presento anche Rainer Verlaufkamp, la cui personalità assumevo solo quando ero vestito abbastanza bene perché era un giovane uomo d'affari di Coblenza, in Germania. Si notino le iniziali, R V.
Rainer è stato il mio spaventoso opposto. Cinico, razzista, squalo, supersportivo, dotato di un senso innato degli affari e amante del lusso sfrenato.
Un giorno, senza motivo, Riccardo Venturi è uscito dall'università in autobus per andare all'aeroporto di Peretola. Lì è diventato Rainer Verlaufkamp ed ha chiamato un tassì per farsi portare alla svelta al Palazzo dei Congressi. Così.
All'università c'era Riccardo Venturi ortonimo. Ma sua madre era rigorosamente tedesca, di Essen. Mia madre si chiama Luciana Pasticci, è nata a Portoferraio (Isola d'Elba) il 16 ottobre del 1933.
C'era poi il fuoriuscito rumeno Radu Hainiceanu.
Una storia terribile alle spalle.
E il medico ungherese Sándor Vászonyi.
Sotto il quale, una volta, ho praticato un massaggio cardiaco e una respirazione artificiale ad un turista americano in via del Proconsolo, sempre a Firenze.
Cose che Riccardo Venturi, volontario sulle ambulanze fin dal 1978, sapeva fortunatamente fare.
Un giorno Riccardo Venturi è stato lasciato dalla fidanzata. Dopo oltre 14 anni. Era il 30 dicembre del 1992, un mercoledì. Le delusioni d'amore sono cose dure e dolorosissime. Il distacco forzato
da una persona che si è amato è un'esperienza terribile. Ma, certamente, non si tratta né di una malattia grave, né di morte di una persona cara, né di altra cosa irrimediabile.
Poteva essere qualsiasi altra cosa, anche meno grave.
E il castello è crollato. Si è afflosciato su se stesso.
Come doveva, d'altronde, essere.
E' cominciato il 1993. La prima parte passata tra illusioni, falsi rinnovi, un padrone di casa totalmente pazzo, due incidenti stradali, ubriacature, politica sempre meno vissuta, ed una coscienza che comunque tornava faticosamente a farsi strada.
Ma il 24 giugno 1993 quelle illusioni crollano definitivamente. Il distacco definitivo.
Ed ecco quel che è successo.
Mi getto in macchina e vado da una mia amica. Comincio a non ricordarmi più nulla, ma mi rendo conto che questa mia amica telefona a casa mia preoccupatissima. Scappo.
In una traversa di Piazza della Signoria busso da un altro mio amico, Donato.
Franco Senia, te ne ricorderai certamente.
E' quel ragazzo che incontrai sulla terrazza di casa tua, per caso,
durante il Capodanno del 2000.
Forse riuscirai ad immaginarti, ora, che cosa mi ha riportato alla mente.
E anche cosa ho passato per non far trapelare niente in quel momento.
Non mi ricordo più nulla fino alla mattina dopo, a parte gli scoppi dei fuochi d'artificio perché era la sera di San Giovanni.
La mattina del 25 giugno 1993 sto camminando, già ubriaco alle 10, nel viale Spartaco Lavagnini.
Succede una cosa.
Un gatto agonizzante sulla strada, vicinissimo al marciapiede.
Un gattone grigio tigrato.
Muove disperatamente una zampa come per chiedere aiuto.
Mi avvicino per tirarlo fuori di lì, ma proprio in quel momento arriva una macchina.
E gli schiaccia la testa.
Sangue e cervello sulle gambe.
Ero in pantaloni corti.
E' il crollo.
Da quel momento comincia una specie di "buco nero". Dieci giorni cancellati.
Siamo sul newsgroup di Francesco Guccini, e quante volte sento citare ed ho citato quel verso di "Lettera": E il tempo, il tempo chi me lo rende.
Ecco, appunto.
Non so chi mi renderà mai dieci giorni della mia vita.
Non è in fondo grave, potreste dire.
C'è a chi vengono cancellati anni e anni. In una cella d'un carcere, ad esempio; o in un fondo di letto d'ospedale.
E' vero, non posso dir nulla.
Ma sono sempre dieci giorni che non ho più trovato per anni e anni.
A parte dei flash improvvisi.
Mi rivedo uno di quei giorni, a Siena, con ancora addosso gli stessi vestiti sporchi. Sono seduto per terra in Piazza San Domenico, davanti all'ingresso dello Stadio del Rastrello. Sto bevendo una lattina di birra.
Come ci sarò arrivato, a Siena?
Chi me li avrà dati i soldi per la birra, visto che il 25 giugno avrò avuto duemila lire in tasca ed ero senza documenti?
Mi rivedo a Livorno, alle due d'un pomeriggio torrido, girare per una strada anonima vicino alla Stazione.
Via Bernardo Prato, si chiama.
Ho ancora addosso quei vestiti, sempre più sporchi.
Come ci sarò arrivato, a Livorno?
In treno? Avrò avuto un biglietto? Mi sarò nascosto nel cesso?
Non mi ricordo nulla.
La sera del 4 luglio 1993, all'improvviso, mi risveglio. Non so come definire meglio la cosa.
Sono a Firenze, in Borgo Santissimi Apostoli, a sedere sugli scalini di un palazzo.
Mi alzo in piedi e comincio a toccarmi.
La prima cosa che sento è una bambina che dice a sua madre: "Mamma, guarda quello lì". E la mamma risponde: "Vieni via, sbrigati".
Puzzo come un porcile.
Riesco a stabilire che mi sono cacato più volte addosso.
Ho un ronzio tremendo nelle orecchie.
Un anziano si avvicina per chiedermi se ho bisogno di aiuto, ed io gli rispondo di sì.
Arriva un'ambulanza della Fratellanza Militare di Piazza Santa Maria Novella.
Vengo portato al pronto soccorso di Santa Maria Nuova.
Cognome: Venturi
Nome: Riccardo
Età: Ci penso. 31 anni.
Residenza: Non me ne ricordo.
Professione: Filologo germanico.
Così proprio gli dissi: filologo germanico. Non mi ricordavo dove abitavo. Mi ricordavo che ero un filologo germanico.
Che non era neppure il mio lavoro, poi.
Non è quasi mai stato il mio lavoro.
I miei mi stavano cercando in ogni dove. Non esisteva ancora "Chi l'ha Visto", altrimenti ne sarei stato sicuramente "ospite".
L'unico che mi sentii di vedere fu mio fratello.
Pesavo settantasette chili.
Chi mi ha presente, mi immagini di settantasette chili.
Il camionista, il rappresentante di preziosi, il teologo svedese, l'uomo d'affari tedesco, il profugo rumeno, il medico ungherese; tutti morti. Restava solo una carcassa di settantasette chili chiamata Riccardo Venturi.
Quello che fu spedito immediatamente da uno psicanalista che s'occupò di districare la sua mente, avvertendolo che la cosa non sarebbe stata per nulla facile. Quello che, come parte integrante della terapia, si fece dare delle lezioni di islandese. L'islandese come punto fermo nella mia vita, perché andavano cercati e ricostruiti i punti fermi. Avete la facoltà di sorridere o ridere, se volete.
Quello che custodisce tutti i miei segreti, le mie disperazioni, le mie speranze, le mie cose più nascoste, i miei deliri, il mio cammino, la mia ricostruzione.
Quello che mi disse, alla fine: Riccardo, ti conosco. Un giorno queste cose le scriverai da qualche parte.
Gli risposi: Non credo, dottore. Io non so scrivere.
Gli devo tutto, e vorrei, se potessi, fare il suo nome.
Ma non posso.
Nel febbraio del 1994 alcuni studi di traduzione e interpretariato videro comparire uno spilungone allampanato con barba e occhialetti tondi che veniva a proporre i suoi servigi dichiarando di "conoscere molte lingue". Mi ricordo i sorrisetti decisamente scettici. Però poi mi mettevano alla prova pratica, e i sorrisetti scomparivano.
Le avrei, forse, dovute dire prima queste cose.
Avrei dovuto dirvi di questo mio essere plurale, di questo mio vagare continuamente senza meta restando sempre nello stesso posto.
A voi, che mi siete amici.
Alcuni di voi, sicuramente, i primi autentici amici che io abbia mai avuto in vita mia.
E' giusto che le sappiate, anche se magari non le considererete così importanti. Anche se non sarete arrivati in fondo a questa strana cosa.
E' giusto che abbiate davanti una persona che non nasconde e non vuole nascondere mai più nulla.
Saluti a tutti e un abbraccio.
Il tappo è saltato.